È Tempo Di Azione Concreta, Pratica, Effettiva – Parte 10

La nozione di impresa in quanto meccanismo di sussidiarietà per rispondere ai bisogni in beni e servizi delle varie famiglie necessita che sia rivisitata in un’ottica di ecologia ontologica.

Prevale in generale una concezione liberista dell’impresa in quanto agente economico il cui fine è la produzione di profitto dal quale estrarre futuri investimenti, il pagamento delle tasse e possibili dividendi: la generazione di profitto dimostra il valore aggiungo che la comunità nella quale opera l’impresa gli riconosce; senza profitto vuol dire che non c’è, oggettivamente, valore aggiunto. Da un punto di vista etico, finché tale impresa soddisfa le leggi locali e l’etica della società nella quale si muove e finché essa produce profitto e quindi paga tasse, essa ha il diritto sociale di esistere: nulla è detto, in fondo, sulla sua natura profonda e le richieste di comportamento “verde” o “etico” sono in verità solo accidenti societali che si aggiungono come nuove restrizioni secondo precise codificazioni legali, fiscali, culturali e sociali.

A livello manageriale la preoccupazione prima si riduce solitamente a due dimensioni e a due costrizioni: l’aumento del valore intrinseco dell’impresa e la generazione di profitto il tutto vincolato dalle leggi del luogo dove si opera e dagli imperativi etici espressi localmente.

Il primo cambiamento di sguardo da avere sulla nozione di impresa è di notare che per soddisfare il bisogno di sussidiarietà delle famiglie, la nozione stessa di denaro non è di per sé stesso necessaria: un’impresa ha come fine primo quello di partecipare all’aumento di felicità alle famiglie che partecipano da vicino o da lontano al suo funzionamento. Se è capace di portare aumento di felicità, essa fa senso e ha diritto di esistenza.

In quanto meccanismo di sussidiarietà per il raggiungimento della felicità, essa non può ammettere che comportamenti virtuosi, per analogia a quelli umani di cui è un’attuazione: deve avere processi interni che favoreggiano l’analisi delle opportunità, la prudenza, la riflessione, deve essere capace di prendere rischi reali inquadrati da questa prudenza, deve essere capace di una gestione da padre (povero) di famiglia numerosa e soprattutto, a cappello di tutto, esercitare la giustizia con estrema equità e correttezza, applicando nella gestione quotidiana il dodici principi che abbiamo messo in evidenza più su per la gestione ecologica del giardino in un ottica di messa in valore costante delle risorse generative, se possibile rigenerative e minimizzando gli investimenti ed i processi degenerativi al minimo il più sensato.

Un’impresa ecologica nel senso ontologico del termine è quindi un’impresa che si realizza nell’equità e la correzione, nella sussidiarietà nelle sue relazioni con il mondo esterno, ma anche nel suo interno tra i suoi varî attori, nella reale attivazione della partecipazione degli stessi nel suo seno, con la messa in opera concreta ed il favoreggiamento di tutte le virtù umane a tutti i livelli della sua organizzazione dall’individuo, alle varie strutture intermedie come i varî dipartimenti , fino, ovviamente, l’impresa stessa in quanto tale, dal prodotto o servizio in quanto tale fino alle modalità di commercializzazione, o ai metodi di finanziamento o di retribuzione.

Ovviamente l’esercizio di virtù, in quanto essendo comportamenti e azioni ricorrenti è di per sé misurabile e va da essere misurato nella comunità nella quale si esplica.

Le imprese che hanno più vocazione a comportamenti etici sono quelle familiari che si concentrano nella propria fascia di sussidiarietà naturale e che si sforzano quindi a ben servire le famiglie che le circondano: chiaramente una tale impresa, sia essa un semplice panificio, o un’officina meccanica, ha interesse ad avere un’ottima reputazione tra i compaesani per il corto e per il lungo termine, la concezione di qualità del prodotto essendo sul lungo termine anche per garantire una successione facilitata alle future generazioni. Il fine di queste imprese non è quella di arricchirsi in quanto tale, ma di provvedere ai bisogni della comunità nella quale è inserita, includendo in primis la propria famiglia; il risparmio non vi dovrebbe essere naturalmente vissuto in quanto tesaurizzazione ma solo in quanto protezione per le possibili future annate di vacche magre e per i regolari investimenti sempre necessarî per mantenere lo strumento di produzione effettivo ed efficace.

Quel che conta in fin dei conti, e che mostra il vero valore aggiunto etico e societale di un’impresa non è né l’ammassamento di beni da parte dell’impresa né la generazione di profitto in quanto tali, ma la capacità che essa ha di scambiare risorse tra di loro effettivamente ed efficacemente: risorse generative, rigenerative, degenerative, moneta di sussidiarietà. In altre parole, allo scopo della felicità di tutti gli utenti dell’impresa, dagli azionisti, ai lavoratori, dai fornitori ai clienti, dalla comunità locale allo stato, ciascuno secondo il suo statuto con virtuose equità e correttezza.

Chi gestisce tali imprese veramente ecologiche ha l’occhio sul piano economico sulla quantità di beni che può scambiare a qualunque momento siano essi risorse di qualunque tipo e moneta in relazione con il valore aggiunto che l’impresa produce e d’altra parte questa stessa quantità di beni trasferibili ad ogni momento in relazione con le risorse necessarie all’operazione dell’impresa. Infatti, nella prima relazione, se non abbiamo abbastanza beni da scambiare rispetto al valore aggiunto dell’impresa o se ne abbiamo troppi all’altro estremo, vuol semplicemente dire sia che quest’impresa non è veramente utile nel suo ecosistema e la sua esistenza va da essere riesaminata, sia che tesaurizza invece di distribuire in modo equo e corretto comportandosi in modo non virtuoso secondo giustizia. Quanto alla seconda relazione essa indica quanto efficace siano gli investimenti nella detta impresa in rispetto alla generazione di risorse commerciabili: più il valore è alto, più l’impresa è capace di produrre in modo “traboccante”, più essa rassomiglia ad una risorsa generativa come dovrebbe sempre essere un elemento del Giardino.

Una certa letteratura accademica ha tentato durante decenni di dimostrare che un comportamento virtuoso delle imprese condurrebbe a migliori risultati economici tentando di stabilire correlazioni tra nozioni di profitto, di valore azionistico e comportamenti ufficialmente “virtuosi”: i risultati non sono probanti per niente.

Il volere comportarsi eticamente per fare più soldi non è l’approccio giusto: l’intenzione dei detti accademici era buona, cioè quella di tentare di motivare gli agenti economici a comportarsi “bene” se non altro per generare più profitto o incrementare il valore azionistico delle imprese, purtroppo tale intenzione cozza contro la realtà di quel che sono le imprese liberiste, locali o globali che esse siano, centrate come sono su una concezione monetizzata del profitto e del valore aggiunto che si focalizza su un epifenomeno e non sulla realtà delle risorse messe in opera.

Per questo fine, le politiche commerciali messe in opera girano sempre intorno alla creazione di penuria per aumentare il valore monetario dei beni e servizi prodotti: profitto e tesaurizzazione tendono a pompare il denaro fuori dalle masse popolari garantendo loro una povertà accresciuta e quindi una susseguente valorizzazione della moneta; le campagne di marketing e di branding centrano il discorso sull’unicità dei beni e servizi messi a disposizione nelle comunità che servono, unicità che garantisce penuria e aumento di prezzi e che non obbligano ad una vera nozione di qualità, anzi esonerano da essa; concezione della proprietà intellettuale che pretende monetizzare e quindi rarificare le idee umane, esse sempre prodotte in modo esuberante, in quanto lo spirito umano è vita, per antonomasia e, quindi, rigoglioso e traboccante. In finis, il sistema economico gira su basi viziate, ha comportamenti viziosi e porta allo scollamento ormai evidenziato da anni tra realtà economica e realtà finanziaria.

La soluzione a queste problematiche non risiede nel fare una rivoluzione di tipo francese, marxista o simile ma non risiede neanche nel non fare niente passivamente, specialmente se si è responsabili di una famiglia, in quanto non si può lasciare le cose andare peggiorando, e che pensare che dopo di noi ben avvenga il diluvio, come amava dileggiare il Re Sole, Luigi XIV.

È possibile cambiare le cose qui e adesso, cambiando il nostro sguardo sulle cose che ci circondano e mettendo in moto tutti questi elementi discussi finora sia in senso proprio che in quello analogico, ciascuno come può e con l’aiuto di altri, membri di famiglia, amici, concittadini: creare idee con ricchezza e abbondanza, reinventarsi assumendo la propria concretezza reale, lottando contro la propria akrasia , centrandosi sulla felicità alla quale ogni famiglia ha diritto anche in assenza di benessere , in quanto sono due piani differenti della realtà umana. Non ci vuole niente di speciale: giusto volerlo per davvero, ognuno al proprio livello.

È purtroppo un fatto reale che nessuno si muove se non è costretto dagli eventi della vita: se tutto va più o meno bene anche se la situazione non è eccezionale, meglio vale attenersi a quel che si ha, anche se effimero, che stancarsi a sviluppare quel che è più perenne ma che necessita rischio e lavoro supplementare non retribuito con moneta statale cara. È un segno di assenza di virtù, di akrasia originale: è comprensibile che si reagisca in questo modo, però non è perché sia comprensibile che sia una valida scusante.

Purtoppo, nella maggior parte dei casi, è solamente in momenti di crisi che ci toccano personalmente, e quando non si può fare altrimenti, che si tentano vie nuove: la necessità funge spesso da virtù. Eppure, per noi cattolici genuini, che siamo, come ogni cristiano in virtù del nostro battesimo, profeti, sacerdoti e re, vi è un imperativo che è quello di esercitare la nostra regalità, che ci viene da Cristo stesso, in questo mondo: ed esercitare la nostra regalità non vuol dire in primis fare politica, ma essere i monarchi del nostro giardino edenico, tenendo conto della realtà del peccato originale, delle sue conseguenze, per imprimere hic et nunc il nostro sigillo personale nella nostra realtà, quella della nostra famiglia e delle nostre comunità.

In questo senso, possiamo e dobbiamo profetizzare secondo il nostro carisma: non è andando a chiedere ai ricchi di aiutare i poveri che ci santifichiamo, non è chiedendo altrui cambiamenti societali che diventiamo migliori, non è chiedendo allo stato di occuparsi della vedova e dell’orfano che realizziamo la nostra vocazione cristiana, non è essendo all’ascolto dei bisogni di benessere materiale altrui che diventiamo cristiformi, ma è nel mettere in opera fin da adesso, nel nostro piccolo concreto, il nostro giardino di Eden, nel combattere la nostra akrasia con lungimiranza, nel rifuggire Mammona con fatti, nel cambiare il nostro sguardo sul denaro, nell’aiutarsi a vicenda per creare o avere accesso a risorse sensate, nel focalizzarci sulla felicità delle persone di cui siamo in carica e di quelle di cui siamo il prossimo.

Abbiamo riflettuto sull’ecologia ontologica e le sue economie quali si attuano nel nostro adesso e nel nostro luogo nei suoi differenti piani di attualizzazione, da quello del paradiso terrestre, attraverso il peccato originale, tenendo conto delle sue conseguenze, del come controbatterle concretamente, del come agire da veri monarchi cristiani ognuno nei nostri propri contesti, secondo i principi di solidarietà applicati non solo sul piano della gestione politica, ma anche in quelli ecologici, economici e monetari.

L’essere profeti e l’essere re in questo momento della nostra vita ci appare quindi chiaramente e con modalità molto concrete e di facile applicazione se giriamo le spalle con coraggio all’akrasia che ci paralizza: dalla tesi dell’Eden passando per l’antitesi del regno di Mammona arriviamo adesso al momento di riflettere alla sintesi che dia tutto il senso di questo viaggio riassumendo tutte queste realtà che vivono contemporaneamente in noi per illuminarle con il perché, aldilà del percome, di questo percorso che ogni vita umana sperimenta nella propria carne, generalmente subendolo passivamente.

Siamo tutti dei giardinieri, così siamo stati creati, noi uomini nel deserto di Adamo, ma per il giardino dove c’è Eva, con la quale siamo all’immagine di Dio: la ragione finale della nostra creazione è che è cosa buona in sé e questo glorifica Dio, che fa tutto bene. Il nostro peccato originale ci ha sottomesso alla legge del benessere immediato e distruttore ma così attraente per la sua facilità e ci ha sottomesso a Mammona nel campo ecologico ed economico, capovolgendo l’ordine naturale che vede la famiglia dell’uomo e della donna al sommo della Creazione e riducendo l’essere umano ad un individuo, semplice rotella intercambiabile di un meccanismo finanziario, politico ed economico che lo stritola. La ragione illuminata dallo Spirito sa cosa deve fare per minimizzare l’impatto di queste immani strutture di peccato su di lei e abbiamo discusso alcune piste percorribili nel sottobosco della realtà economica contemporanea. L’ultimo passo da compiere è ormai quello che avrebbero dovuto fare Adamo ed Eva ma che fu compiuto con ben altra perfezione dal Cristo stesso: ridare a Dio quel che è di Dio, vivere non la trascendente paterna divina presenza del paradiso terrestre alla quale abbiamo così spesso voltato le spalle, ma ormai realizzare la trascendente filiale realtà alla quale Egli ci ha dato accesso con il suo Santo Sacrificio della Croce e la Sua Risurrezione.

In Eden avevamo un Padre, ormai vogliamo essere, se Lui vuole, i Suoi figli eletti: era una trascendenza discendente per via della Sua paternità, ormai viviamo una trascendenza ascendente tramite il nostro essere Suoi figli ad opera dello Spirito Santo.  

Questo vuol dire che una riflessione veramente ecologica deve sfociare sulla sua finalità trascendente.

In Pace

(Continua)

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Categories: For Men Only, Simon de Cyrène

2 replies

  1. “Quello di Adriano Olivetti era un sogno industriale, che certamente mirava al successo e al profitto, ma anche un progetto sociale che implicava una nuova relazione tra imprenditore ed operaio, oltre ad un nuovo rapporto tra fabbrica e città.
    Nel 1945, dopo la fine della guerra, Adriano Olivetti torna ad Ivrea pieno di progetti. La sua convinzione è che il fine dell’impresa non debba essere solo il profitto e che sia necessario reinvestire il profitto per il bene della comunità. A questo principio si ispirano tutte le sue successive scelte imprenditoriali. La fabbrica di Ivrea diventa presto il modello di un’organizzazione del lavoro improntata sull’uomo reale, lontano dall’uomo disumanizzato della catena di montaggio. Dalle linee di montaggio si passa infatti alla formazione delle cosiddette ‘isole’, nelle quali un gruppo di operai specializzati è in grado di montare, controllare e riparare un prodotto finito o una parte completa di esso. La fabbrica è dotata di molte strutture ricreative e assistenziali: biblioteche, mense, ambulatori medici, asili nido, ecc… L’idea di Adriano è che l’incremento della produttività sia strettamente legato alla motivazione personale del lavoratore ed alla partecipazione degli operai alla vita dell’azienda. I dipendenti Olivetti godono di benefici eccezionali per l’epoca: i salari sono superiori del 20% della base contrattuale, oltre al salario indiretto costituito dai servizi sociali, le donne hanno nove mesi di maternità retribuita (quasi il doppio di quanti ne hanno oggi, per intenderci) e il sabato viene lasciato libero, prima ancora di ogni contrattazione sindacale. L’orario di lavoro viene ridotto da 48 a 45 ore settimanali, a parità di salario, in anticipo sui contratti nazionali di lavoro.
    Si può dire che Adriano Olivetti non si pose mai nell’ottica della contrapposizione tra capitale e lavoro ma la sua preoccupazione fu sempre come essi potessero convivere insieme per far progredire la società.
    L’efficienza del lavoratore va ottenuta non con il suo iper-utilizzo ma ponendolo nella condizione di rendere al meglio, di sentirsi parte di un progetto comune. La Olivetti diventa un cenacolo, un crocevia intellettuale, tanto da essere definita da qualcuno ‘la Atene degli anni Cinquanta’.”

    http://www.csrtreviso.it/Images/file/pdf/OlivettiASL2018.pdf

    Scusa, ma a metà del tuo lavoro qui mi è tornato in mente AL VOLO!

  2. Sottolineo, perché quando ci vuole ci vuole:

    non è andando a chiedere ai ricchi di aiutare i poveri che ci santifichiamo, non è chiedendo altrui cambiamenti societali che diventiamo migliori, non è chiedendo allo stato di occuparsi della vedova e dell’orfano che realizziamo la nostra vocazione cristiana, non è essendo all’ascolto dei bisogni di benessere materiale altrui che diventiamo cristiformi, ma è nel mettere in opera fin da adesso, nel nostro piccolo concreto, il nostro giardino di Eden, nel combattere la nostra akrasia con lungimiranza, nel rifuggire Mammona con fatti, nel cambiare il nostro sguardo sul denaro, nell’aiutarsi a vicenda per creare o avere accesso a risorse sensate, nel focalizzarci sulla felicità delle persone di cui siamo in carica e di quelle di cui siamo il prossimo.

    !!!

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