La morte di Cristo | una ricostruzione fisiopatologica

Riporto qui, buona parte di un articolo redatto dai dott.ri Francesco e Lorenzo Fiorista (Divisione di Cardiologia, Ospedale San Carlo Borromeo, Milano, Divisione di Cardiologia, A.O. San Paolo, Milano) che può aiutarci in questo Venerdì Santo, ad entrare ancora più concretamente nella Passione e Sacrificio di nostro Signore Gesù Cristo, che se sul valore Salvifico e Teologico universale di questa Morte, tanto è stato detto e scritto, riandare sull’accadimento storico e umano di questo supplizio inflitto all’Uomo-Gesù, ancor più può aiutarci a comprendere cosa significò per Cristo, accettare la volontà del Padre in nostro favore.

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Il disgraziato costretto su quel legno, ormai sfinito,
ormai deforme e compresso nell’orribile gobba
delle spalle e del petto …

Seneca


Vivono con sommo spasimo talora l’intera notte e
di poi ancora l’intero giorno …

Origene

Note introduttive sulla fisiopatologia della morte in croce
(la morte degli appesi)

“Pilato si meravigliò che fosse già morto, ma, fatto chiamare il centurione, gli domandò se era già morto. E accertato dal centurione, concesse il cadavere a Giuseppe di Arimatea”.

È questo breve passo del Vangelo di Marco (Mc 15, 44-45), attestante la meraviglia di Pilato di fronte alla morte rapida di Gesù (poco più di 3 ore, dall’ora sesta all’ora nona, ovvero da mezzogiorno alle tre pomeridiane, come riportato dai tre evangelisti Sinottici Matteo, Marco e Luca), che ha incuriosito la classe medica dalla seconda metà dell’Ottocento, fino ai nostri giorni al riguardo della vera causa di morte di Cristo sulla croce: come noto, infatti, l’infame pena della crocifissione, che i Romani avevano appreso dai Cartaginesi durante le guerre puniche, portandola poi al massimo perfezionamento tecnico, era atroce perché comportava una prolungata agonia, anche fino a 2-3 giorni.

Gli articoli medici pubblicati su riviste scientifiche internazionali negli ultimi 140 anni sono diverse decine, per lo più di carattere anatomo-patologico e medico-legale, la letteratura tanatologica sulla morte di Gesù si embrica in parte con quella sulla Sindone, ma da quest’ultima deve comunque restare ben disgiunta.
Diversamente dalle altre note pene capitali, molte delle quali purtroppo non ancora a tutt’oggi definitivamente bandite dal consorzio umano, quasi nulla la scienza medica conosce direttamente sulla fisiopatologia della morte in croce.
A parte rare descrizioni episodiche qua e là riportate (un condannato a morte inchiodato in croce a Damasco nel 1247 morì il terzo giorno), l’ultima crocifissione nota della storia, dopo l’epoca romana, fu quella di 26 martiri cristiani a Nagasaki, in Giappone, avvenuta il 5 febbraio 1597; ma in quel caso i condannati furono sì per oltraggio e scherno appesi in croce, ma poi uccisi venendo trapassati dalle lance. Almeno in parte, l’unico aggancio reale è solamente con la pena detta “aufbinden” (letteralmente “legare in alto”), punizione già praticata nei campi di prigionia dall’esercito austro-ungarico durante la prima guerra mondiale, e poi ripresa dai nazisti nel campo di internamento di Dachau, pena che vedeva il condannato appeso per i polsi a un palo o a un albero, con tutto il peso del corpo che esercitava una fortissima trazione sugli arti superiori, senza possibilità di toccar terra con i piedi.

AUFBINDEN

Il disgraziato per respirare doveva sollevarsi a forza di braccia, ma poteva rimanervi solo per poche decine di secondi; dopo un certo tempo i muscoli erano colpiti da violente contrazioni, e il poveretto presentava i sintomi dell’asfissia. La gabbia toracica era rigonfia al massimo e la parte centrale e superiore dell’addome appariva molto approfondita; il volto diventava rosso e poi cianotico, la sudorazione era abbondantissima.
Il condannato poteva tollerare tale supplizio per meno di 10 minuti, in uno sforzo tremendo per respirare: in caso contrario moriva in asfissia respiratoria acuta.

La pena della croce comportava anch’essa un analogo e tremendo sforzo per respirare, ma volutamente molto più prolungato nel tempo: l’abnorme posizione del corpo, col tronco accasciato ed abbassato, determinava l’immobilizzazione del torace in una posizione globosa inspiratoria, rendendo difficoltosa l’espirazione con conseguente ipossiemia, come in una crisi acuta di insufficienza respiratoria.
L’espirazione, diveniva dunque un atto estremamente faticoso: per espirare, riprender fiato e non soccombere alla lenta asfissia, il condannato doveva spingere sui piedi inchiodati, facendo forza pure sui polsi trafitti, per riportare il torace alla medesima altezza delle braccia, onde ristabilire la normale dinamica respiratoria.
Tutti i muscoli interessati alla respirazione erano sottoposti ad un’estrema e prolungata sollecitazione: diaframma, pettorali, sternocleidomastoidei, intercostali interni e esterni, ecc., in una dinamica e meccanica respiratorie del tutto abnormemente coartate.
L’agonia dunque era un continuo dolorosissimo saliscendi lungo il palo verticale della croce: dolorosissimo anche perché spalle, dorso e cosce erano già sanguinanti per la flagellazione che di solito il condannato subiva prima di essere crocifisso, e sfregavano lungo l’aspro legno verticale della croce. Continui accasciamenti e raddrizzamenti del torace in un interminabile alternarsi di asfissia-respirazione, asfissia-respirazione, fino a quando, esaurita la forza muscolare, il tronco non riusciva più a sollevarsi e sopraggiungeva la morte asfittica, anche dopo 2-3 giorni di un tale
tormento. Inoltre la posizione abbassata del corpo comportava un ristagno di sangue alle estremità inferiori e nei visceri addominali, favorenti il collasso ortostatico e la sincope. Di notte poi il corpo del crocifisso agonizzante era pasto di cani e uccelli rapaci: pena tremenda dunque, e riservata quasi esclusivamente agli schiavi. Lo schiavo infatti era sarcasticamente chiamato crucifer o “portatore di croce”. Roma ebbe sempre della crocifissione un vero spavento, tanto che per Cicerone nessun cittadino romano poteva essere legalmente condannato alla lenta agonia della morte in croce.

Sarcasticamente, gli scrittori latini scrivevano che il condannato anche per giorni se ne stava a “requiescere in cruce”, ovvero a “riposare sulla croce”. L’exitus infine sopravveniva, dopo un tempo variabile dalle 24 alle 72 ore circa, per asfissia respiratoria da soffocamento una volta che non era più possibile, o per progressiva debolezza o per l’insorgere di crampi tetanici in presenza di uno stato di ipercapnia, sostenere lo sforzo sugli arti inferiori: la cosiddetta “asfissia da esaurimento”. Qualora poi si volesse per qualunque motivo abbreviare il supplizio, si eseguiva il crurifragio (latino crurifragius, letteralmente il gambe-spezzate), ovvero si fratturavano i femori all’uomo in croce con dei colpi di clava: in tal caso, non potendo più spingere sulle gambe per la totale improvvisa impotenza funzionale dei muscoli delle cosce, la morte asfittica respiratoria sopravveniva in
2-3 minuti, come fu per i due ladroni (Gv 19, 32).
(Crurifragio che non fu imposto a Cristo. «Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso.» Gv 19, 36 – ndr)

Secolari intuizioni pittoriche sulla fisiopatologia della morte in croce

Andando con la mente all’Arte Cristiana, soprattutto pittorica ma anche scultorea, in cui il tema della crocifissione è quello più rappresentato fin dal secolo XII, stupisce il sagace intuito dei pittori medioevali e poi del primo Rinascimento: costoro, non medici e del tutto ignari di fisiopatologia della respirazione e della circolazione nonché ovviamente dell’antico supplizio romano, avevano comunque intuito che l’agonia in croce doveva essere dinamica e non statica. Da questa intuizione derivano le diverse rappresentazioni del corpo di Gesù crocifisso lungo i secoli, dalla posizione di completo accasciamento del torace in basso con le braccia in alto

Antonio Van Dyck, Crocifissione, 1630 circa, Museo di Capodimonte,
Napoli. Come in moltissime Crocifissioni della storia dell’arte
dal Duecento in poi, qui il corpo di Cristo è accasciato con le braccia a
reggere il peso del corpo (posizione questa di asfissia). Si noti il particolare
pittorico eccezionale e storicamente esatto dei chiodi conficcati nei
polsi e non nei palmi delle mani.

via via fino alla classica posizione con gli arti superiori orizzontali, in cui le braccia fanno con il tronco un angolo retto.

Crocifisso di Cimabue, 1265 circa, Chiesa di San Domenico,
Arezzo. Qui gli arti superiori formano un angolo retto con il tronco (posizione
questa compatibile con il respiro). Si noti il torace iperespanso e
i piedi inchiodati ciascuno separatamente, come storicamente avveniva.
Si noti anche l’accenno alla protrusione del basso addome
.

Essi dovevano aver capito che sulla croce la respirazione era oltremodo difficoltosa: si pensi a come frequentemente è stato raffigurato il torace non solo nei Cristi in croce, ma anche in quelli morti e deposti dal legno, ovvero iperespanso e con la classica conformazione a botte del malato di enfisema polmonare. Intuirono pure che il disgraziato doveva spingere sulle gambe, motivo per cui spesso raffigurarono sotto i due piedi un’assicella di legno (in latino suppedaneum): invenzione pittorica solo in parte, dato che un sostegno doveva essere presente all’altezza dei glutei (chiamato sempre in latino sedile).
Immaginando altresì che in un uomo per lungo tempo appeso il sangue ristagna nelle parti inferiori del corpo e dunque anche nei visceri intestinali, con una concomitante diminuzione del tono della parete addominale, diversi pittori (Cimabue, Giotto, Lorenzetti, ecc.) raffigurarono il Cristo in croce con un basso addome protrudente e cadente.

I carnefici, pur nella loro brutalità, erano comunque abili e accorti nel trapassare sia le articolazioni radio-carpiche ai polsi che entrambi i secondi spazi metatarsali ai due piedi senza ledere i principali vasi arteriosi, in qual caso il condannato sarebbe rapidamente morto di emorragia. Ma mentre il primo inchiodamento dei polsi avveniva col condannato giacente a terra che aveva sotto di sé lungo le spalle e le braccia aperte il palo orizzontale della croce, e i carnefici piegati sopra di lui, il secondo inchiodamento dei piedi avveniva solo dopo che il palo orizzontale con già appesovi sopra trafitto il disgraziato veniva elevato e fissato a quello verticale della croce, col poveretto collocato a cavalcioni sul sedile: allora i carnefici in posizione eretta procedevano all’ultima inchiodatura, avendo davanti a sé i due piedi accostati del condannato, all’altezza circa di una persona, da trafiggere ciascuno contro il palo verticale.
E dunque proprio a proposito dell’inchiodamento sul legno, classica è l’iconografia dell’arte cristiana, con due inesattezze storiche però: un chiodo solo che trapassa entrambi i piedi sovrapposti, un chiodo nel palmo di ciascuna mano. Siffatta iconografia è così radicata che tale è rimasta anche dopo che storicamente si riseppe che erano trafitti i polsi e non le mani (in quest’ultimo caso, infatti, i muscoli palmari e l’aponeurosi palmare con ossa e tendini si sarebbero lacerati e il condannato non avrebbe potuto reggere tutto il peso del corpo); e dunque particolarissima è la crocifissione di Antonio Van Dyck (sopra), proprio perché Cristo vi è raffigurato con i chiodi nei polsi, particolare che il giovane pittore fiammingo specificamente precisò essendo rimasto colpito da quanto vide impresso sulla Sindone, e cioè il segno dei chiodi in ciascun polso e non nel palmo della mano.
Circa l’unico chiodo a trafiggere i due piedi sovrapposti – classica iconografia di pittura e scultura – è curioso notare come fino almeno a tutto il XIII secolo i piedi fossero inchiodati invece separatamente (Crocifisso Cimabue sopra).

La morte “rapida” di Gesù

Ma perché Gesù, uomo all’incirca trentaseienne, sano, che aveva percorso a piedi per quasi 3 anni in lungo e in largo l’intera Palestina, morì così in fretta, in un intervallo di tempo di sole 3 ore, tanto da suscitare lo stupore del procuratore romano? L’ipotesi più accreditata rimane comunque quella asfittica per insufficienza respiratoria resa particolarmente breve dalla copiosa emorragia secondaria non solo alla profusa perdita ematica dal capo ove era stata a viva forza conficcata la corona di spine, così da ridurre il viso a una maschera di sangue, ma soprattutto dalla flagellazione: ricordiamo al riguardo che per i Romani la flagellazione al dorso poteva già essere essa stessa pena di morte, tanto copioso era il sanguinamento dalle masse muscolari soprattutto dorsali colpite dal flagrum o flagellum (chiamato non a caso da Orazio horribile flagellum), robusta frusta con molte code di cuoio, appesantite da aculei (scorpiones), pezzi di ossa di animali e pallottole di metallo. Ecco come l’eruditissimo abate romano Giuseppe Ricciotti, biblista di fama mondiale, nel suo famosissimo libro Vita di Gesù Cristo pubblicato per la prima volta nel 1941, al paragrafo 591 descriveva la terribile flagellatio romana:
“Il flagellato, specialmente se destinato alla pena capitale, era considerato come un uomo senza più nulla di umano, un vuoto simulacro di cui la legge non aveva più cura, un corpo su cui si poteva infierire liberamente: e in realtà chi avesse ricevuto la flagellazione era ridotto di solito a un mostro ripugnante e spaventoso. Ai primi colpi il collo, il dorso, i fianchi, le braccia, le gambe s’illividivano, quindi si rigavano di strisce bluastre e di bolle tumefatte; poi man mano la pelle e i muscoli si squarciavano, i vasi sanguigni scoppiavano, e dappertutto rigurgitava sangue; alla fine il flagellato era diventato un ammasso di carni sanguinolente, sfigurato in tutti i suoi lineamenti. Spesso egli sveniva sotto i colpi; spesso vi lasciava la vita”.
Si pensi, al riguardo, alla truculenta e lunga sequenza della flagellazione di Gesù nel tanto discusso film del regista australiano Mel Gibson The Passion del 2004, ben diversamente da alcune celebri e quasi idilliache raffigurazioni pittoriche, volutamente prive di qualsiasi drammaticità (come ad esempio quella del Beato Angelico al Museo di San Marco a Firenze, o quella così misteriosa di Piero della Francesca alla Galleria Nazionale di Urbino).

Il centurione romano caposcorta al seguito della Via Crucis, nel timore che Gesù muoia per strada tanto la flagellazione lo aveva indebolito, costringe imperiosamente il Cireneo (Simone di Cirene) a farsi carico del gravoso patibulum (Mt 27, 32; Mc 15, 21; Lc 23, 26) ovvero del pesante palo orizzontale della croce che Gesù portava sulle spalle. Infatti, secondo la norma romana, se il condannato fosse morto prima di essere inchiodato e innalzato sulla croce, il militare responsabile della scorta rischiava di essere rimproverato o addirittura punito.
Ricordiamo al riguardo che lo stipes, ovvero il palo verticale della croce, si trovava già pronto e piantato in terra nel luogo solitamente predisposto per le crocifissioni, la sommità del Gòlgota in questo caso.
Ma oltre all’anemia emorragica da sanguinamento con conseguente shock ipovolemico, sono state ipotizzate varie altre concause per spiegare la morte “rapida” di Gesù, tanto da potersi parlare di una morte multifattoriale: l’ipossiemia cardiaca e cerebrale per l’accumulo di sangue nelle parti inferiori del corpo, lo stato di acidosi respiratoria con ipercapnia, il collasso da prolungata stazione eretta, la disidratazione e il digiuno, la tossiemia per riassorbimento di materiale infetto dalle ferite, la probabile comparsa di febbre da trauma e riassorbimento degli ematomi, i disturbi della termoregolazione per l’esposizione al freddo del corpo nudo, lo stress psico-fisico. Tutta una serie di circostanze si associarono dunque per diminuire la resistenza fisica di Gesù, ed è noto in fisiologia che shock dolorosi in serie non si addizionano, ma in certa misura si moltiplicano. E con riferimento al dolore, egli dopo averlo patito aveva però rifiutato di bere il vino aromatizzato e mirrato (Mt 27, 34; Mc 15, 23) che lo avrebbe stordito: la bevanda era infatti di solito offerta ai condannati subito prima dell’inchiodamento ai legni per intorpidire loro un po’ i sensi.

Altri autori hanno anche ipotizzato le seguenti ulteriori possibili cause di morte: tetania per l’insorgenza di uno stato crampiforme generalizzato e persistente, un’asistolia secondaria allo shock o alla lesione dei nervi mediani trapassati dai chiodi ai polsi, una sincope da deglutizione con letale riflesso dopo che in quella posizione abnorme del capo e del tronco gli fu fatta bere dalla cima di un’asta la posca, la bevanda dei legionari composta da acqua, aceto e uovo (Mt 27, 48; Mc 15, 36; Lc 23, 36; Gv 19, 29-30), allorché Gesù disse di aver sete (Gv 19, 28).
Ma accanto a quella asfittica, nella seconda metà del Novecento si è fatta strada un’altra ipotesi, peraltro già ventilata da un medico scozzese, tale William Stroud, ancora nel lontano 1871: quella cioè di un infarto miocardico da stress con rottura di cuore. Ecco come l’autore, presidente
della Royal Medical Society di Edimburgo, si esprimeva quasi un secolo e mezzo fa: “Sudden death from violent emotions of mind may be induced in various ways; sometimes a sort of palsy of the heart, at other times by its over distension, the latter condition often terminating in rupture”.
Tale ipotesi, a distanza di oltre un secolo poi ripresa con ben più nuove conoscenze da altri autori, malgrado ovviamente non possa essere con assoluta certezza dimostrata, tuttavia potrebbe essere tutt’altro che priva di fondamento, anche alla luce delle conoscenze di questi ultimi 30 anni circa l’infarto miocardico da stress e da vasospasmo coronarico e comunque ad arterie coronarie indenni.
Ricordiamo al riguardo che, oltre alle percosse subite, lo stress psicologico fu fortissimo e iniziò la sera del giovedì nell’Orto degli Ulivi, prima della cattura, quando Gesù, ben consapevole di quello che lo attendeva (Mt 26, 39: “Padre mio, se è possibile, allontana da me questo calice”), in assoluta solitudine, oppresso dallo scoramento per vedersi abbandonato anche dai suoi tre apostoli prediletti Pietro, Giovanni e Giacomo che si erano lì addormentati, presentò il rarissimo fenomeno dell’ematoidrosi, ovvero del sudore sanguigno, come narrato dal solo Luca, l’evangelista medico (Lc 22, 44: “… e il suo sudore divenne come gocce di sangue che cadevano a terra”).
Tale eccezionale fenomeno fisiopatologico, già descritto da Aristotele, è riconducibile ad un intensissimo stimolo neuroendocrino per cui i capillari a contatto con le ghiandole sudoripare si rompono, con conseguente sudorazione ematica.
Lo stress proseguì poi con la drammatica e tumultuosa cattura armata sempre nell’Orto del Gethsèmani, lo sconforto di veder fuggire tutti gli Apostoli, i primi due processi religiosi davanti ai Sacerdoti Anna prima e Caifa poi, al cospetto di tutto il Sinedrio con gli oltraggi ricevuti e i falsi testimoni addotti, sempre in assoluta solitudine e senza una voce che si levasse in sua difesa; e ancora l’insonnia notturna con gli insulti e gli schiaffi subiti per derisione dagli sgherri, fino al primo mattino seguente col processo civile davanti a Pilato interrotto dal burlesco interrogatorio di
fronte a Erode Antipa, la violentissima flagellazione sino alla condanna a quello che Cicerone definì “estremo e sommo supplizio della schiavitù”: la terribile e lenta morte in croce, preceduta dal doloroso e traumatico conficcamento della corona di spine in testa e dalla fatica di portare il palo
orizzontale della croce (non meno di 40 kg) in quelle condizioni – tutto sanguinante e col dorso e le gambe ridotti a brandelli di carne viva – per circa un chilometro di cui una parte pure in salita, dal Pretorio di Pilato situato nella fortezza Antonia fino alla sommità del Gòlgota. Uno sforzo sia
fisico che psichico tremendo tra i calci e gli sputi della folla, o meglio di una canea urlante e minacciosa.

Se una tale ipotesi di infarto miocardico con rottura di cuore ed emopericardio avvenne realmente (e al riguardo è stato anche fatto notare che l’ultimo grido di Gesù sulla croce verso l’ora nona, immediatamente prima della morte, è più compatibile con una morte acuta piuttosto che con una lenta asfissia), si sarebbe allora davvero verificata una profezia dell’Antico Testamento, quella del Salmo 69, 21a: “L’insulto ha spezzato il mio cuore e vengo meno”.

Il doppio fiotto di sangue ed acqua: ancora possibili ipotesi mediche

Le conoscenze mediche hanno trovato, peraltro, plausibili spiegazioni anche a quanto riferito dall’evangelista Giovanni, testimone oculare e unico apostolo presente sotto la croce, al riguardo del doppio fiotto di sangue ed acqua che fuoriuscì dalla ferita portata con la lancia da un soldato lanciere
(il Longino dei Vangeli apocrifi; nome derivante dal greco lónche, che significa lancia) al costato – quasi certamente il destro – di Gesù, quando era già morto. L’evangelista Giovanni dovette restarne talmente colpito da narrare il fenomeno non solo nel suo Vangelo (Gv 19, 34-35), ma pure nella sua prima lettera (1Gv 5, 6). Questo fatto fu peraltro sempre ritenuto miracoloso dalla Chiesa primitiva (dal teologo Origene ai Padri della Chiesa Sant’Ambrogio e San Girolamo), che vedeva simboleggiati nel doppio fiotto i sacramenti del Battesimo (acqua) e dell’Eucaristia (sangue).
Ma dalle premesse fisiopatologiche e dalle ipotesi mediche sopra esposte, nel caso di un infarto miocardico con rottura di cuore ed emopericardio, l’acqua poteva essere il siero separatosi dal sangue nell’intervallo di circa 2 ore tra la morte di Cristo e il colpo di lancia infertoGli. Secondo altri
autori, come da esperimenti su cadavere, la punta della lancia avrebbe, obliquamente dal basso in alto e da destra verso sinistra, rasentato il bordo superiore della sesta costa, perforato il quinto spazio intercostale destro per poi penetrare in cavità ledendo la pleura parietale e poi la viscerale; attraversata la parte sottile del polmone destro, avrebbe quindi perforato il pericardio ed infine l’orecchietta destra ripiena di sangue. In tal caso “l’acqua” che vide fuoriuscire Giovanni poteva essere il siero di una pericardite o pleuropericardite traumatica, oppure, in alternativa, il risultato di un idropericardio peri- e post-agonico.
Secondo un’altra ipotesi poteva trattarsi invece del trasudato di un idrotorace determinato dalla stasi ematica nelle vene endotoraciche e intercostali per l’abnorme aumento della pressione negativa endotoracica dovuta alla prolungata rigidità inspiratoria toracica degli appesi.

Gli appesi, una maledizione di Dio
(Deteuronomio 21,23)


Copyright – Il Pensiero Scientifico Editore
© 2009 AIM Publishing Srl
(ringrazio l’amico Thomas che mi ha segnalato l’articolo)



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