Pubblicato ControCorrente n. 4: società, impero, potere e gnosticismo di ritorno

copyright: Mauro Mendula

Il corposo e denso volume n. 4 della serie “ControCorrente, Saggi contro la deriva antropologica” è finalmente uscito sul mercato editoriale. Raccoglie saggi di Alessandro Benigni, Frank Gordon, Simonetta Putti, Barbara Lattanzi, Lorenzo Borré, Giovanni Bonini, Don Fabio Bartoli e, dulcis in fundo, del Card. Elio Sgreccia.
Curatore dell’edizione è il filosofo Massimo Maraviglia a cui cediamo la parola riportando stralci della sua relazione introduttiva al tomo stesso. Buona lettura (e buona lotta) a tutti.

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In questo volume si parlerà di potere e di umanità, cioè di come il potere progetti la trasformazione dell’umanità. Si tratta di un’azione di uomini contro altri uomini. Non c’è un complotto, né un’essenza metafisica è all’opera, bensì vi sono gruppi di uomini che compiono atti che hanno un significato metafisico, quello di rifiutare, attaccare e modificare la realtà e, in particolare, la stessa realtà umana. Si potrebbe obiettare che ogni trasformazione che migliora il mondo in fondo costituisce un attacco alla realtà, una sua negazione in funzione di qualcosa di meglio. Ma qui non è in questione l’anelito sacrosanto dell’uomo a superare le sue mancanze e debolezze, sia sotto il profilo individuale sia sotto quello sociale. Di quest’anelito il cristianesimo è tradizionale interprete. Il Vangelo potrebbe essere letto come una guida al miglioramento dell’umanità, che indica in Dio la risorsa fondamentale cui attingere. Ma la grazia di Dio, che ci migliora, ci eleva e trasfigura, naturam non tollit sed perficit. La grazia perfeziona la natura, non la nega. L’attacco alla natura umana ha invece un carattere squisitamente nichilistico. Non solo disprezza l’uomo, ma si colloca in un generale disprezzo dell’essere in quanto tale, poiché dato, poiché roccia che si oppone a ogni arbitrio manipolativo. Tale rivolta contro l’essere è veicolata dall’idea che è essa stessa necessaria per innovare, cambiare, migliorare, potenziare, progredire verso quelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità che oggi ritornano a riempire di cupezza giacobina i nostri orizzonti culturali ed esistenziali.

Ma bisogna dire che l’essere è migliore del non-essere e il non-essere-ancora del Regno si incastra e si sostiene sull’essere della Creazione. Il non- essere-ancora non va confuso gnosticamente con il non-essere tout court.  Quindi non è lecito alcun rimpianto per il nulla (“Non essere mai nati è la cosa migliore” disperazione pagana), né alcun anelito al nulla (“cancellare l’uomo dal mondo, distruggere la sua carne peccaminosa per elevarne lo spirito fino alla non essenza del principio”: cupio dissolvi gnostico).

Perché è meglio essere che non essere? È questa un evidenza che, come tale, si dimostra solo controfattualmente: il termine “meglio” non ha alcun senso in un contesto nichilista. Il non essere, non essendo, non può nemmeno essere migliore…né peggiore… né alcun’altra cosa: “Del non essere io non permetterò che tu lo dica né che lo pensi”, così ammoniva Parmenide.

Che cosa vuol fare, dunque, il potere di alcuni uomini? Distruggere l’essere dell’uomo per migliorarlo: un’operazione logicamente contraddittoria, ontologicamente velleitaria, eticamente criminale. “‘C’è nell’uomo qualcosa di fondamentalmente mancato’. Questa espressione di Nietzsche è come una trasposizione dell’idea cristiana di peccato originale”, osserva Karl Jaspers. È molto interessante vedere in Nietzsche all’opera la tradizione cristiana e ciò potrebbe determinare interessanti cortocircuiti ermeneutici. Ma, oltre le questioni di esegesi nietzschiana, c’è qualcosa di più urgente. Continua, infatti, lo studioso tedesco: “Nietzsche soffre per l’uomo in modo tale che in alcuni momenti sprofonda nella ‘più nera malinconia’. Diversamente dagli animali, che nella loro completezza obbediscono alla determinatezza di un tipo, l’uomo è ‘animale non ancora determinato’: perciò egli nella indefinitezza delle sue possibilità, nel suo non essere ancora deciso, già quale puro esserci, è simile a una malattia della terra”.

Ecco il grande equivoco: siccome sei incompleto allora sei l’incompletezza, siccome sei malato allora sei la malattia (un equivoco di origine cartesiana: siccome penso, allora sono una sostanza pensante, cosa che giustamente Hobbes chiosò ironicamente: siccome passeggio, allora sono una passeggiata). Si passa così dall’errore logico all’equivoco ontologico e da quest’ultimo alla depressione psicologica … e infine dalla sindrome depressiva alla negazione onnipotente del mondo e dell’essere, quale  suo sintomo più caratteristico.

“L’uomo come malattia” è peraltro una vecchia prospettiva gnostica e catara che, complice la deriva depressiva nietzschiana, torna prepotente nella cultura contemporanea: si pensi solo al tema di maturità di quest’anno (2017) in cui viene chiesto ai ragazzi di commentare una poesia di Giorgio Caproni che chiude in questo modo: “Come/potrebbe tornare a essere bella,/ scomparso l’uomo, la terra”.

A partire da un simile orientamento si capiscono molte manifestazioni di un potere tanto onnipotente quanto malinconico nei riguardi dell’uomo. Anzitutto si comprende la legge compassionevole  della morte, ovvero l’uccisione come massima manifestazione della compassione: “Siccome la tua vita è un inferno, ti  accompagno misericordiosamente a terminarla. Siccome non puoi essere guarito, è meglio che tu muoia. Siccome sei malato, l’unico modo per estirpare la malattia è uccidere te che ne sei il portatore”. […]

Ecco il paralogisma del potere contemporaneo. Ecco la sua irrazionale violenza, su cui Alessandro Benigni, don Bartoli e Barbara Lattanzi insistono, ciascuno dal suo punto di vista: linguistico, teologico, sociologico-politico. Eccone la radice in quel post moderno sex appeal dell’inorganico, se ci è permesso rubare un espressione tratta da altri e diversi (ma poi non tanto) contesti. Sembra che la società sia terribilmente attratta dalla cosalità inerte. Da un lato ne affascina l’indefinita manipolabilità, su cui l’ansia di trasformazione del capitalismo produttivo trova alimento e sfogo, dall’altro essa rappresenta l’utopia di una condizione sottratta all’angoscia del vivere e del morire, del tempo e delle sue urgenze, della ricerca di senso e del rischio del fallimento, insomma l’utopia della perfetta quiete dell’elemento semplice nel suo luogo naturale. Il potere, così devoto all’utopia, non può che diventare potere sulla vita, biopotere, ma con una sottaciuta e strisciante tensione alla morte, tanatopotere. […]

Qui sia Benigni, sia Bartoli, sia la Lattanzi fondamentalmente concordano. Essi correttamente vedono l’incombere sulla nostra società di un grande apparato oppressivo-repressivo con una vocazione totalitaria, sebbene espressa in forme dolci. La vasta tradizione critica che dagli anni Sessanta del XX secolo che metteva in guardia contro il sistema dell’uomo a una dimensione e contro le forme degenerative del capitalismo avanzato non è servita a  bloccare lo sviluppo di una nuova variante post-moderna di irreggimentazione della società. Nell’occidente contemporaneo, ormai globalizzato,  la sovranità della legge di tradizione liberale è diventata l’arroganza di un grande apparato tecnico-giuridico-amministrativo che promuove l’uniformità sociale e in conformismo di massa giustificandolo con l’apparato onnipervasivo e monodirezionale dei media, che sviluppano la morale permissivo-totalitaria dalla quale non si può deviare. Non essendoci visibilità del potere, non vi è nemmeno responsabilità, e non essendoci personalità non c’è rappresentatività (il potere non significa niente), né legittimità (il potere è in crisi permanente di legittimazione, e tanto più avverte la crisi, tanto più convintamente declama e impone valori astratti in vista dell’omogeneità sociale). La legalità pretende di auto-legittimarsi in nome delle procedure tecniche da cui ha preso origine e la sua dimensione coercitiva aumenta al diminuire dei suoi riferimenti alla vita concreta del popolo, alle sue tradizioni condivise e al senso comune della giustizia. Per questo motivo vi è necessità di un’iperproduzione di leggi che regolino ogni aspetto della vita umana, orientandola nella direzione di quella vigenza autoreferenziale della società che ne appare l’unico obiettivo.

Che cosa voglio dire? Voglio dire che, in un contesto di megamacchina amministrativa che si limita (si fa per dire) ad esercitare una governance (un “dominio” dissimulato e impersonale ma non meno coattivo, come vogliono le più aggiornate versioni del liberalismo), le leggi tengono in piedi tecnicamente la società come un grande meccanismo i cui scopo è null’altro che funzionare e stare in piedi. La vigenza per la vigenza, la durata per la durata, l’efficienza per l’efficienza, ecco i nuovi idoli cui sacrificare le legittime aspirazioni dei singoli e delle comunità. Non sorprendono allora i fenomeni descritti all’inizio del presente scritto, laddove gli apparati autoreferenziali hanno speranza di funzionare solo attraverso il sistematico stordimento edonistico dei popoli, alla luce del quale si connotano come meccanismi che esercitano un potere sulla vita in vista della morte.

La distinzione tra questa forma di dominio e il potere come comando legittimo è dunque fondamentale per capire e per pensare il nostro tempo, ma anche per agire correttamente, nulla concedendo a utopie anarcoidi che promuovono solamente, nella loro lotta incessante contro “ogni forma di sopraffazione dell’uomo sull’uomo”, l’incremento degli apparati impersonali, contro le migliori intenzioni dei loro sostenitori.

Gli ultimi quattro articoli affrontano aspetti particolari dell’agire di questo apparato di dominio che, non a caso, toccano da un lato la dimensione della manipolabilità con la questione dell’editing genomico (S. Putti) – cioè la possibilità di intervenire sul corredo genetico del vivente, determinandone o modificandone le caratteristiche -, dall’altro la dimensione edonistica che sottomette ai progetti individuali di “felicità” e “realizzazione” il prossimo e in particolare i figli. Questi ultimi – con la possibilità della gestazione per altri (utero in affitto) e la successiva adottabilità da parte di coppie di persone dello stesso sesso – vengono programmaticamente orfanizzati (cosa che si inserisce nel quadro di un consapevole attacco all’istituzione familiare quale luogo di resistenza ai processi di atomizzazione individualistica: L. Borré) e  deprivati del rapporto fondamentale con la madre (G. Bonini), alla quale sono sottratti e dalla quale giungono a essere venduti per soddisfare il desiderio di qualche adulto in cerca di sensazioni forti. Nel corso dello sviluppo della loro personalità i bambini dovranno affrontare maggiori difficoltà dei coetanei per l’assenza di figure sessualmente complementari a sostegno dei processi educativi e di costruzione dell’identità (G. Bonini, F. Gordon), così come  suggerisce anche uno sguardo sui processi evolutivi e sul ruolo in essi rivestito dalla sessuazione (F. Gordon).

Ancora una volta siamo in presenza di una contraddizione tipicamente gnostica. Il desiderio sessuale è da riconoscersi come fattore fondamentale della società, ma solo in quanto pulsione da soddisfare, perché è la soddisfazione pulsionale ciò conta. L’identità sessuale, di cui il desiderio è epifenomeno, è invece considerata in modo assolutamente sganciato dal suo sostrato biologico. Allora diviene una costruzione sociale, secondo le più note farneticazioni gender, oppure, per meglio dire, un capriccio da scegliere ad arbitrio, in nome di quel modello di umanità astratta, disincarnata, angelistica, che rappresenta l’oggetto dei nuovi miti tecno-democratici. Desiderio senza corpo, corpo senza identità, sesso senza procreazione, procreazione senza sesso: un vero trionfo gnostico e albigese. Dentro questo modello è evidente che s’impone la forma dell’universale scambiabilità, dell’in-differenza orgiastico-dionisiaca, del nirvana oclocratico in cui tutto si con-fonde, perde i contorni e diventa indistinguibile dal nulla (nichilismo).

Ancora una volta si tratta di un formidabile quanto profondo attacco all’uomo, il cui obiettivo è quella “deriva antropologica” che noi, nel nostro piccolo, ci sforziamo di smascherare e di combattere.
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