Samaritanus Bonus e il valore di una vita: lettera aperta a mio figlio quattordicenne

Ciao L.,

nonostante tutto siamo ripartiti con la scuola e quest’anno stai affrontando un istituto tutt’altro che facile, sia in termini di richieste scolastiche che in termini di ambiente. Non sono uno che tende a rinchiudere in una sfera di vetro le persone sulle quali ha responsabilità, ma riconosco che il passaggio da una scuola privata di una piccola cittadina ad una pubblica di un capoluogo di provincia possa essere poco rasserenante. Poco male, ti ci abituerai. Quel che più mi preme è iniziare a riflettere con te in modo approfondito di alcune prospettive di pensiero (e quindi precisi modi di fare) nelle quali necessariamente ti ritroverai immerso e dalle quali, giocoforza, ti sentirai interpellato. Ti ritroverai infatti ad avere a che fare con prospettive e modi di intendere la vita, molto in voga oggi, che si scontrano gravemente con quel che finora ti è stato insegnato o hai avuto come esempio sotto il naso, sia in casa che (forse) a scuola. Parlarne è d’obbligo e inizio io con questo mio scritto.

Prima precisazione: l’idea non mi è venuta a caso, ma è nata pian piano, mentre leggevo la nuovissima lettera della “Congregazione per la Dottrina della fede” che ha per titolo, l’hai già capito, “Samaritanus bonus“, il “buon Samaritano”. Più procedevo nello studio della stessa, con l’intento di farne un articolo su queste colonne, più sentivo l’esigenza personale di condividere con te, proprio in questo momento particolare, molte riflessioni lì contenute.

Il magistrale scritto della Congregazione – elaborato per rispondere agli interrogativi che nascono quando si vivono situazioni come quelle della nonna, entrata da poco in Casa di Riposo per i suoi ultimi momenti dopo anni di malattia che come famiglia abbiamo vissuto – contiene elementi di riflessione chiari e cristallini su uno dei tanti errori del pensiero unico dominante della società contemporanea, quello eutanasico. A me ha aiutato tanto leggerlo, sia per strutturare meglio il pensiero critico nei confronti del pensiero che domina la società di oggi, sia nel ripartire con slancio e decisione nelle scelte da compiere. Potrebbe esserti d’aiuto? Forse si. La lettera della Congregazione è di facile lettura, ma per chi come te non ha mai fatto un’ora di filosofia (se non quelle sparute passate con me a disputare su vari argomenti, mai completamente conclusi), a volte potrebbe risultare ostica. Ecco allora l’idea: redigere una lettera che sia una guida alla lettura dello scritto vaticano! Non sarà un vero e proprio sunto, ma una sorta di introduzione al problema, in modo che tu abbia chiaro come ragionano molti al riguardo e le risposte che tende a dare la Chiesa, che io ritengo non solo in linea con il Magistero, ma con uno Stato di diritto e con la ragione stessa.

Ma perché una lettera “aperta” e non una privata? Al di là che stavo studiando per un articolo, ho l’ardire di pensare che questo scritto possa essere di giovamento anche per i lettori del blog, tutto qui. Ritengo sia buono per te ricevere queste righe, bello per me scrivere ad un destinatario preciso che mi aiuti implicitamente nella redazione, interessante per tutti.

Ultima cosa: non voglio convincerti ne convincere nessuno, voglio solo dire la mia aiutato dallo scritto della congregazione pontificia. Spero di essere chiaro. Se ti va, partiamo!

DOMANDE

Quanto costa una vita umana? Ha un prezzo? Preciso la domanda: è lecito “prezzare” una vita umana? La domanda non è banale se ci pensi: tutto oggi pare abbia un prezzo. Esistono delle polizze assicurative dette “vita” che, alla morte dell’assicurato, pagano un certo quantitativo di soldi agli eredi. Esistono polizze infortunio che ripagano da incidenti e altre che aiutano in caso di incidente mortale. In questo ultimo caso il risarcimento ai famigliari delle vittime è sotto forma di denaro, secondo te è lecita questa pratica? Certamente potrebbe risultarti un modo migliore della legge del taglione per risolvere la contesa, ma ripaga davvero della vita persa?

Altre domande, più scomode: la vita di un uomo che deve essere operato vale più del costo dell’intervento chirurgico a cui deve ricorrere? Si? Anche se a volte fra analisi pre-operazione, operazione, convalescenza, ricadute, terapie, si parla di anni di spese per un totale che sfiora il milione di euro? Di nuovo si? E se l’uomo in questione in tutta la sua vita riuscisse a produrre con il suo lavoro per la società soltanto poche centinaia di migliaia di euro, ha senso che la società spenda milioni per questo individuo? Si? E se fosse un rapinatore? O un assassino? Ancora si, ne sono felice, si vede che qualcosa ti è arrivato, ma… se fosse un malato incurabile, ha senso anche solo spendere un migliaio di euro per una appendicite acuta?

Certo, i nostri antenati morivano di appendicite pertanto avevano più problemi sanitari e scientifici, ma meno domande. D’altra parte ti ho sempre detto che chi più sa, più responsabilità ha. Con il progredire della scienza, sono diminuiti i problemi sanitari e aumentati quelli morali. Ed eccoci all’introduzione della lettera dei Cardinali:

 tuttavia, questi progressi della tecnologia medica, benché preziosi, non sono di per sé determinanti per qualificare il senso proprio ed il valore della vita umana. Infatti, ogni progresso nelle abilità degli operatori sanitari richiede una crescente e sapiente capacità di discernimento morale[3] per evitare un utilizzo sproporzionato e disumanizzante delle tecnologie, soprattutto nelle fasi critiche o terminali della vita umana. (Cap. I)

Andiamo avanti con altre domande, ancora più scomode: se ti dicessi che ora i milioni li devi spendere per tenere in vita una persona affetta da una patologia degenerativa incurabile come la nonna? Tocchiamoci personalmente: se la condizione di mia madre, a causa di situazioni interne ed esterne a noi, arrivasse a costare più di quel che guadagniamo, che facciamo?

Troppo pessimismo? Allora giriamoci a 180° e ti chiedo: è lecito progredire scientificamente sfruttando embrioni umani fecondati per tentare di scoprire cure per malattie ad oggi letali? È lecito sventare un suicidio di una persona e salvarla o ledi la sua libertà personale?

Restiamo su questa: se vedi qualcuno che sta per buttarsi da un ponte, lo fermi o gli dai una spinta? E lo continui a fermare anche se lui, nella colluttazione, minaccia di andare per avvocati? Anche se ti dice che i medici gli hanno dato solo pochi giorni di vita e che non ha più nessun famigliare in vita e la sua esistenza non ha più senso? E se tu fossi un medico e questa persona malata, anziché gettarsi dal ponte, venisse da te chiedendo di essere uccisa? Azz…

E allora: quando inizia la vita, quando finisce? Quando una esistenza umana può (o deve) essere considera “vita”? Sempre? Davvero? Una vita può diventare “insensata”? Cosa gli dona senso? Posto che un medico è tale quando “cura la vita”, cosa si intende con queste parole? Ha senso logico pensare che una persona vada da un medico chiedendo di essere “curata” attraverso la morte? No? Anche quando questa persona in realtà è un “walking dead” in senso medico e chiede di “soffrire meno”? Hai dei dubbi? Li avresti anche qualora la persona sofferente in realtà è “soltanto” (virgolette d’obbligo) depressa?

Inutile girarci in giro, queste domande oggi cozzano contro una sola pratica: eutanasia. Se cerchi su web la prima, secca, definizione che ti esce è questa: “Morte volontaria di malati terminali o cronici in presenza di assistenza medica.” Dietro questa semplice frase ci sono tutte le domande sopra poste e molte di più. Benvenuto nella complessità del reale.

Dunque cosa si nasconde dietro la pratica eutanasica? A mio avviso si nasconde proprio quella “cultura di morte” che mi piacerebbe denunciarti e chiarire pian piano, cultura a cui io tento di non appartenere nonostante stia sempre più dominando l’aere. Il tema dell’eutanasia è uno dei temi migliori entro cui cominciare a far “pratica” sul come agisce questa prospettiva culturale distorta, e spero che questo scritto ti faccia capire il mio punto di vista.

Di eutanasia tutti ne parlano, ma pochissimi con cognizione, perché la questione è, prima che medica, in primis (guarda un po’) filosofica. Purtroppo oggi, se va bene, spopolano filosofie malate, irrazionali e se va male l’ignoranza più becera. Naturalmente i discorsi da bar sono presenti ovunque, sobillati da gentaglia che gioca (volutamente o meno) con le parole. Aggiungici i mass media che dicono che certi approfondimenti non possono essere portati al grande pubblico (tu la TV non la vedi, ma una delle frasi ricorrenti è “qui si va troppo nello specifico, poi la gente cambia canale”) e il marasma è fatto.

Come si sbroglia la matassa?

DAL GENERALE AL PARTICOLARE

“Si tratta, in tal senso, di avere uno sguardo contemplativo,[11] che sa cogliere nell’esistenza propria e altrui un prodigio unico ed irripetibile, ricevuto e accolto come un dono.”
cap. I. prendersi cura del prossimo

Serve sempre uno sguardo contemplativo, linguaggio teologico che può essere assimilato in filosofia allo sguardo metafisico, il quale può essere assimilato in soldoni ad uno sguardo attento al generale. Non sono cosi automatici i passaggi, ma ti basti per ora. Serve guardare a tutta la realtà, mentre oggi – badaci – si parla sempre e solo di una realtà particolare per poi amplificarla. Si parte sempre da una storia, da un esempio di vita, da una precisa situazione (soprattutto se estrema) e la si riporta nel generale.

Esempio: DJ Fabo è malato a letto in una situazione irreversibile; DJ Fabo vuole morire perché sente che ora la sua vita non ha senso; DJ Fabo è andato in Svizzera grazie a un certo Cappato e lì con una puntura l’hanno ucciso; in Italia non si può; l’Italia è fuori dal vero progresso perché il vero progresso è avere una legge che permette a DJ Fabo di uccidersi e a Cappato di non essere processato; l’Italia deve adeguarsi senza se e senza ma. Fine.

Ecco un esempio concreto (e vero) di come si passa oggi dal particolare al generale. Ma funziona questo ragionamento? Se secondo si, allora ti chiedo perché non trovano spazio altre esperienze completamente contrarie. TI spiego, in teoria se fosse giusto dovrebbe trovare spazio in tutti i mass media anche la storia delle altre persone con situazione simile a DJ Fabo e che vivono la loro vita con gioia le quali, nei giorni precedenti la sua morte, cercavano di fargli cambiare idea! Anche quelli sono situazioni “particolari” no, eppure non diventano “modello generale”. Perché? La scusa è sempre quella, te la dico e te la smonto dopo.

Ora ripensa alle domande precedenti, volutamente generali: il suicida l’hai salvato dal volo o l’hai spinto? E questa tua risposta come può essere paragonata all’interno della vicenda di DJ Fabo? Questo significa ragionare. E ragionando siamo arrivati ad una prima affermazione a cui io credo molto (perché logica): partendo da uno sguardo sul totale (io direi, con i miei soliti paroloni “ontologico”) possiamo sempre pensare di analizzare ogni caso particolare il quale, per quel che è necessariamente, rientra in questo generale. Partendo da uno sguardo sul particolare invece non possiamo mai pensare di riuscire a cogliere le caratteristiche dell’aspetto generale del problema e se lo si fa è per motivi ideologici. Cioè cerchiamo quella storia che ci fa comodo e la proponiamo come modello per una ideologia che vogliamo imporre.

Con una immagine: partire dal generale per affrontare il particolare significa razionalmente indossare degli occhiali da vista per guardare la situazione; partire dal particolare per affrontare il generale significa razionalmente indossare degli occhiali deformanti per guardare la situazione.

Ho imparato a mio spese di diffidare sempre da quelli che propongono solo storie particolari per lanciare moniti generali: è propaganda. Il punto è che questo non è un modo di fare oggi, è il modo di fare! Lo si fa sui giornali, nei tuoi amati film, nei libri, in teatro, nelle serie tv e dulcis in fundo nei cartoni animati. Diffidare non significa chiudere gli occhi, ma ponderare con senno osservando il particolare con le lenti del generale. Affidarsi alle emozioni che le storie particolari creano (volutamente) in noi per riflettere sul generale è alterare la realtà con le lenti deformanti di un evento, innalzato a modello unico per mera ideologia.

Passare dallo sguardo generale (aka metafisico aka contemplativo) al particolare è possibile e chiarificatore. Passare dal particolare al generale è sempre impossibile e ideologico: è un non sequitur.

Ora credo si possa comprendere l’inganno implicito alla falsa replica che prima ho eluso. Riprendiamo il problema: perché le storie particolari di gente nelle stesse condizioni di DJ Fabo, ma felice, non passano ad essere visione generale da seguire? Ecco la risposta popolare: “DJ Fabo non vuole uccidere quelle persone, solo lui stesso. DJ Fabo morendo non uccide nessuno, mentre loro imponendogli di rimanere in vita ledono il suo diritto di autodeterminarsi!”. Interessante vero? Peccato che il nostro sguardo contemplativo ora ci permetta di sapere che con quel gesto DJ Fabo demolisce l’idea GENERALE di vita presente nella società, cioè l’idea che la società in cui tutti noi viviamo intende per “vita”.

Volendo che si accetti e si legiferi che la vita nelle condizioni di DJ Fabo possa concludersi, si impone al generale il suo particolare, si impone una precisa visione filosofica di concezione di diritto alla vita irrazionale a tutti, anche a coloro che non la pensano come lui. La sua volontà di legittimare giuridicamente il suo presunto diritto a finire la sua vita “non accettabile” porta ad una revisione inevitabile del termine “vita accettabile” in tutta la società! E allora chi sta ledendo la libertà altrui?

A causa di gesti come questi ora nella società è entrata in circolo una nuova idea: signori, esiste un presunto “diritto” alla morte che deriva da un presunto “diritto” del singolo individuo di disporre della sua vita. E qui casca l’asino perché so benissimo che detta cosi, nella idea malsana di libertà che oggi si ha, probabilmente pensi che questo diritto esista!

Senti la lettera che stiamo analizzando che dice:

Non esiste, infatti, un diritto a disporre arbitrariamente della propria vita (Cap. V)

Secco, secco. E allora perché oggi si continua a pensarne l’esistenza? La questione è naturalmente… esatto, filosofica. Per una spiegazione seria e degna sulla materia su come e perché “nascono” davvero i diritti per l’uomo dovremmo prenderci due giorni, non è il caso. Ti bastino per ora i seguenti argomenti puramente razionali, anche se si possono comprendere soltanto una volta affrontato il tema in modo approfondito.

Un buon appiglio per comprendere il motivo per cui non esiste il diritto di un uomo di disporre della sua vita sta in quel che finora si è continuato a dire, cioè nel fatto che l’uomo condivide con gli altri il proprio essere in vita, esattamente come condivide con gli altri la sua “umanità”. Nessuno può pensare razionalmente di essere “umanità”, ma di disporre di quella caratteristica che chiamiamo umanità. Se uno pensasse di disporre dell’umanità in toto, se morisse, con lui morirebbe anche l’intera umanità, giusto? Ecco, la stessa cosa con la “vita”. Se uno pensa di poter disporre della SUA vita, implicitamente ritiene che la VITA appartenga solo a lui e non sia invece una caratteristica comune a TUTTI gli esseri viventi. Sarebbe come dire che quando muore la sua vita, non esisterà più “vita”. E invece…

Beh, per forza, stiamo parlando di un erroraccio da 2 in logica filosofica, pura irrazionalità, eppure qui siamo oggi giorno, questo dicono molti. Benvenuto nella cancrena della società di oggi.

Leggiamo la lettera come gestisce il problema:

Una persona che sceglie con piena libertà di togliersi la vita rompe la sua relazione con Dio e con gli altri e nega sé stessa come soggetto morale. (Cap. V)

Si, sta ribadendo quanto già detto: chi si dichiara “non idoneo a vivere”, non capisce che egli ha qualcosa che condivide con tutti (tutti siamo soggetti morali!) e quindi dichiara tutti coloro nelle sue condizioni “non idonei” a vivere. Massì, tanto a te, cosa cambia? Beh, per ora a te nulla per fortuna, ma a questi malati? E avanti:

Il suicidio assistito ne aumenta la gravità [dell’atto suicida], in quanto rende partecipe un altro della propria disperazione, inducendolo a non indirizzare la volontà verso il mistero di Dio, attraverso la virtù teologale della speranza, e di conseguenza a non riconoscere il vero valore della vita e a rompere l’alleanza che costituisce la famiglia umana. (cap. V)

Cosa sta dicendo qui? Cosa è la “famiglia umana”? Semplicemente sta ribadendo quanto finora detto: le tue scelte non sono solo tue, ma necessariamente pesano sugli altri perché abbiamo caratteristiche uguali che ci contraddistinguono e ci rendono responsabili, sempre! Ho scelto di mandarti all’Istituto VEST alle medie, quando ho sentito dire esattamente questa cosa dal Preside: l’uomo non è uomo se non in “relazione”. Spero tu l’abbia percepita questa atmosfera. E la lettera questo punto lo rimarca più volte, come hai visto. Metto un’altra citazione:

è importante, in un’epoca storica in cui si esalta l’autonomia e si celebrano i fasti dell’individuo, ricordare che se è vero che ognuno vive la propria sofferenza, il proprio dolore e la propria morte, questi vissuti sono sempre carichi dello sguardo e della presenza di altri. (Cap. I)

Insisto perché vorrei essere chiaro: sapendo che comunque qualsiasi scelta io faccia riguardo alle caratteristiche che ho in comune con gli altri uomini (il mio essere in vita, il mio essere uomo, il mio essere maschio, il mio essere razionale e cosi via), necessariamente pesa sugli altri, voler imporre una legge generale passando da precise storie particolari scelte ad hoc e senza badare alle altre del tutto simili è erroneo, illiberale, ideologico.

Per questo quando uno mi dice “ma a te cosa cambia?!”, la mia risposta è sempre e solo una: “tutto”.

E quindi? A causa di questo metodo erroneo, come è cambiata l’idea di “vita” oggi? Quale è il rischio di attribuirsi un falso diritto legato alla “vita”?

VITA O QUALITÀDELLAVITA (TUTTO ATTACCATO)?

Ogni malato ha bisogno non soltanto di essere ascoltato, ma di capire che il proprio interlocutore “sa” che cosa significhi sentirsi solo, abbandonato, angosciato di fronte alla prospettiva della morte, al dolore della carne, alla sofferenza che sorge quando lo sguardo della società misura il suo valore nei termini della qualità della vita e lo fa sentire di peso per i progetti altrui. (Cap. 2)

Forse mi sbaglierò, ma oggi quando nei mass media e nel pensiero dominante si parla di “vita”, inevitabilmente si tende a parlare implicitamente di “qualità della vita”. Badaci e dimmi se non è vero.

Questo porta inevitabilmente conseguenze che vengono spesso sottaciute e che il nostro sguardo contemplativo ora riesce a chiarire (si, altre domande…): se una vita è tale solo quando ha una precisa “qualità”, chi decide quando essa è di qualità e quando no? Chi decide quando una esistenza umana è “vita” oppure no? La persona in vita stessa? E se è in coma? I famigliari? E se non ha nessuno? Lo Stato?

Secondo te, si può arrivare a pensare che con questa implicita “idea di uomo” (con questa precisa “antropologia filosofica”), prima o poi, si potrà avere una legge per la quale lo Stato può legittimamente uccidere qualsiasi persona che ha una vita certificata come “senza qualità”? Si, è un ottimo soggetto per un film distopico, vero? Sarebbe interessante e divertente se non fosse che la prospettiva filosofica implicita ad una legge simile è esattamente quella dominate. Allora la faccenda, restando interessante, si fa certamente meno divertente.

Come? Stai dicendo che non è detto che un film di fantascienza diventi realtà? Si, in effetti potrebbe darsi che quelli che decidono di morire, non pregiudichino l’idea di cosa sia “vita” per tutti. Pia illusione. La richiesta palese di “riconoscimento legittimo” della loro azione parla chiaro e parla a sfavore: esigono che lo Stato dichiari che la “vita” sia LORO e la logica vuole che allora la LORO scelta, trasformata in legge, peserà sulla VITA di TUTTI. E’ inevitabile. Lo riconosce la stessa Congregazione, senti qui:

In alcuni Paesi del mondo, decine di migliaia di persone sono già morte per eutanasia, molte delle quali perché lamentavano sofferenze psicologiche o depressione. E frequenti sono gli abusi denunciati dagli stessi medici per la soppressione della vita di persone che mai avrebbero desiderato per sé l’applicazione dell’eutanasia. La domanda di morte, infatti, in molti casi è un sintomo stesso della malattia, aggravato dall’isolamento e dallo sconforto. (Cap. V)

Non basta:

Se da un lato, infatti, i medici si sentono sempre più vincolati dall’autodeterminazione espressa dai pazienti in queste dichiarazioni, che giunge ormai a privarli della libertà e del dovere di agire a tutela della vita anche laddove potrebbero farlo, dall’altro, in alcuni contesti sanitari, preoccupa l’abuso ormai ampiamente denunciato nell’impiego di tali protocolli in una prospettiva eutanasica, quando né i pazienti né tantomeno le famiglie vengono consultati nella decisione estrema. Ciò accade soprattutto nei Paesi dove le leggi sul fine-vita lasciano oggi ampi margini di ambiguità in merito all’applicazione del dovere della cura, avendo essi introdotto la pratica dell’eutanasia. (Cap. V)

Interessante vero? Tanto a te cosa cambia? Intanto però sputano gli abusi, ma è normale, non possono non esserci in quanto è l’ideologia stessa che qui stiamo descrivendo a pretenderli!

Continuiamo riflettendo su quel spesso si ritiene essere “vita vivibile”, anche a causa di scelte di singoli portate a bandiera ideologica. Senti Papa Francesco, richiamato dalla lettera:

sempre più spesso [la vita] viene valutata in ragione della sua efficienza e utilità, al punto da considerare “vite scartate” o “vite indegne” quelle che non rispondono a tale criterio. (Cap. V)

Efficienza e utilità. Questo è quel che rende una vita vivibile, degna di essere vissuta? Ti è mai capitato sentir rispondere da qualcuno “si” a questa domanda? Ti capiterà di certo. Cosa c’è dietro questo punto? Ora credo una risposta ti si affacci, nel frattempo leggi i Cardinali cosa dicono:

[si fa un] uso equivoco del concetto di “morte degna” in rapporto con quello di “qualità della vita”. Emerge qui una prospettiva antropologica utilitaristica, che viene «legata prevalentemente alle possibilità economiche, al “benessere”, alla bellezza e al godimento della vita fisica, dimenticando altre dimensioni più profonde – relazionali, spirituali e religiose – dell’esistenza».[30] In virtù di questo principio, la vita viene considerata degna solo se ha un livello accettabile di qualità, secondo il giudizio del soggetto stesso o di terzi, in ordine alla presenza-assenza di determinate funzioni psichiche o fisiche, o spesso identificata anche con la sola presenza di un disagio psicologico. (Cap. IV)

Sai quante persone mi hanno chiesto perché mi ostinavo a voler tenere mia mamma a casa, anche a costo di sacrificare tanti nostri weekend per assisterla negli anni? Eh beh sai, capita. Anche in quel momento decidi cosa ha senso per te, cosa significa “vita” e cosa significa “cura”. A te basti solo avere imparato un’altra bella parolona: u-ti-li-ta-ri-smo, tuttoattaccato.

Dunque a mio avviso, sta dominando nella cultura contemporanea quella che chiamo una “ideologia” e che in molti (fra cui il Papa) dichiarano essere una “cultura di morte” che inganna e sta ingannando molti, in primis i malati.

Papa Francesco ha parlato di «cultura dello scarto».[34] Le vittime di tale cultura sono proprio gli esseri umani più fragili, che rischiano di essere “scartati” da un ingranaggio che vuole essere efficiente a tutti i costi. Si tratta di un fenomeno culturale fortemente antisolidaristico, che Giovanni Paolo II qualificò come «cultura di morte» e che crea autentiche «strutture di peccato».[35] Esso può indurre a compiere azioni in sé sbagliate per il solo motivo di “sentirsi bene” nel compierle, generando confusione tra bene e male, laddove invece ogni vita personale possiede un valore unico ed irripetibile, sempre promettente e aperto alla trascendenza. (Cap. IV)

Ma la lettera ci mette in guardia dall’indicare a dito i malati, come se fossero loro i carnefici e non le vittime maggiori di tutto questo caos:

Sopprimere un malato che chiede l’eutanasia non significa affatto riconoscere la sua autonomia e valorizzarla, ma al contrario significa disconoscere il valore della sua libertà, fortemente condizionata dalla malattia e dal dolore, e il valore della sua vita, negandogli ogni ulteriore possibilità di relazione umana, di senso dell’esistenza e di crescita nella vita teologale. (Cap. III)

Forse saprai che uno dei momenti più belli che ho passato insieme a mio padre è stato durante la sua agonia all’ospedale. Sembra una barzelletta di pessimo humor nero che tanto ti piacciono, ma sai che non lo è. Quello che non sai invece è quanto male trattavo la nonna prima della sua malattia: in lei vedevo sempre la mamma chioccia che tratta il figlio come un ragazzino senza autonomia. Pertanto la trattavo come fa un adolescente che non ne può più della mamma rompiballe. Credo tu capisca… Solo quando si è ammalata seriamente – quando cioè i ruoli si sono invertiti e ho cominciato a fare tutto io per lei (proprio tutto) – ho capito che quel comportamento era da un lato un suo modo per sentirsi ancora utile in un contesto famigliare non facile, dall’altro mi ha chiarito quanto io sia stato per anni, non solo ai suoi occhi, uno sciocco adolescente in molti miei comportamenti. Da un certo punto di vista la malattia mi ha fatto riscoprire mia madre e anche me stesso. E mi ha fatto capire quanto è stata sola. Non male, vero?

Capirai allora perché mi ha colpito questo passaggio dedicato ad un’altra malattia del  pensiero contemporaneo: l’individualismo.

L’individualismo, in particolare, è alla radice di quella che è considerata la malattia più latente del nostro tempo: la solitudine[33], tematizzata in alcuni contesti normativi perfino come “diritto alla solitudine”, a partire dall’autonomia della persona e dal “principio del permesso-consenso”: un permesso-consenso che, date determinate condizioni di malessere o di malattia, può estendersi fino alla scelta o meno di continuare a vivere. (Cap. IV)

Si, hai letto bene, alcuni stanno addirittura pretendendo di volere una legge che stabilisca la nascita di un presunto “diritto alla solitudine”. Si, anche questo è un altro diritto cretidiota che non ha né capo né coda. Questo movimento ideologico non è ancora forte come altri, ma è altrettanto distruttivo a mio avviso. Qui si sta dicendo in soldoni che l’uomo non è mai relazione e che la costruzione di un contatto fra umani deve passare dal suo consenso, pena la limitazione della sua libertà! Come se tua mamma dovesse chiederti in marca da bollo se accetti di avere il suo naso! Ma questa sarebbe la libertà?! Vedi come tutto torna a questa maledetta idea assurda di libertà? Libertà qui, libertà lì, ma cosa diamine è la libertà?! Lo vedremo, quel che mi preme è chiudere il discorso col capoverso seguente che ora ti apparirà chiaro:

È lo stesso “diritto” che soggiace all’eutanasia e al suicidio assistito. L’idea di fondo è che quanti si trovano in una condizione di dipendenza e non possono essere assimilati alla perfetta autonomia e reciprocità, vengono di fatto accuditi in virtù di un favor. Il concetto di bene si riduce così ad essere il risultato di un accordo sociale: ciascuno riceve le cure e l’assistenza che l’autonomia o l’utile sociale ed economico rendono possibili o convenienti. Ne deriva così un impoverimento delle relazioni interpersonali, che divengono fragili, prive di carità soprannaturale, di quella solidarietà umana e di quel supporto sociale così necessari ad affrontare i momenti e le decisioni più difficili dell’esistenza.

Questo modo di pensare le relazioni umane e il significato del bene non può non intaccare il senso stesso della vita, rendendola facilmente manipolabile, anche attraverso leggi che legalizzano pratiche eutanasiche, procurando la morte dei malati. Queste azioni causano una grave insensibilità verso la cura della persona malata e deformano le relazioni. (Cap. IV)

Questa deformazione delle relazioni (laddove io ho trovato commosso approfondimento), demolizione del senso stesso della vita (generale!) e un concetto di bene “prezzato” con tariffe basate sull’utilità efficiente di una persona le ho viste e sentite personalmente in questi anni. Esse sono per me una vera sconfitta dell’umanità (generale!) e vederle portate a vessillo di un progresso ineludibile sono, per me e il mio vissuto, un affronto.

Direi di chiudere qui, ti ho già introdotto abbastanza nel letamaio odierno. Come ti dicevo all’inizio, non voglio convincerti ne convincere nessuno, voglio solo dire la mia aiutato dallo scritto della congregazione pontificia. Spero solo di essere stato chiaro.

LA STORIA INFINITA

Certo, molto altro ci sarebbe e bisognerebbe dire. La lettera della Congregazione continua analizzando molto dettagliatamente delle situazioni nelle quali si può parlare di eutanasia, chiarendo quando invece si può parlare lecitamente di accompagnamento alla morte. A volerla ben vedere in fondo in fondo questo è il cuore e il motivo per cui è stata redatta la missiva cardinalizia: delineare alcuni punti particolari che derivano dal generale chiarito nei capitoli introduttivi e che qui ho voluto spiegare. Per questi particolari a mio avviso c’è tempo. Magari ne parleremo a casa, a tu per tu, e l’occasione prima o poi ci sarà, perché non passerà molto prima che di essere chiamati come famigliari a decidere sulle terapie da applicare alla nonna. Arriverà infatti il momento, presto o tardi, che il suo corpo già debilitato non riuscirà più a deglutire e poi addirittura ad assimilare totalmente il cibo, si dovrà decidere se avrà senso rischiare un sondino, se abbia senso o meno continuare una idratazione e alimentazione forzosa e cosi via. Tempo al tempo, credo sia inutile dedicarsi a problemi che ora non ci sono. Ha più senso investire tempo per comprendere bene come gestire delle situazioni generali simili, in modo da essere pronti al nostro particolare futuro.

Nel 2013 sentìi un medico dire questo durante un’intervista: “Pensare che esista una terminalità la cui cura è la morte è un concetto che scarto a priori. Altrimenti non farei questo lavoro! E soprattutto non esistono dolori intrattabili. Esiste un dolore psicologico intrattabile al massimo, come può essere quello del medico deluso che non riesce a guarire i suoi pazienti!”. Era una certa Massimino Maura, Responsabile di oncologia pediatrica all’Istituto tumori di Milano. Ho pure la data perché ci feci un post: 28 novembre 2013. Da quel momento, non ho più sentito libere interviste senza contraddittorio in cui si invitavano medici che dicevano questa banale verità. Sarò stato sfortunato…

Spesso su questo blog abbiamo trattato questo tema, basta una semplice ricerca per far apparire decine di articoli. Ora che ti è chiaro il generale, sono certo ti potranno essere più chiare le posizioni in campo che lì vengono richiamate. Spero anche che questo scritto ti abbia chiarito i motivi delle azioni mie e di tua madre in alcune situazioni ancora in essere e destinate a peggiorare.

Non è pessimismo, è semplice realismo: tutti invecchiamo. La mia esperienza mi dice che se si riesce a vivere certe situazioni senza pensarle come uno spreco di energie e soldi (no utilitarismo) e senza pensare che ci leda un qualsivoglia diritto della nostra vita a farci i fatti nostri (no individualismo), l’inevitabile sofferenza si trasforma miracolosamente in un momento di grazia. Ed è un dono.

Solo attento, questo accade non perché siamo fighi noi. Da soli non siamo nessuno e l’essere umano senza il suo creatore non è nulla. Tieni la barra dello sguardo contemplativo a dritta! Qui la questione non è “pensa positivo e vedrai che tutto andrà bene”, queste cazzate le lascio volentieri a Jovanotti e agli inutili arcobaleni anti-covid. L’esperienza mi dice che non c’è forza in noi che permetta tutto quel che qui vado narrando senza una speranza in altro oltre noi. D’altra parte che senso ha questa sofferenza senza Dio?

“Ma questa è un’altra storia e si dovrà narrare un’altra volta” scriveva Micheal Ende. Penso tu riconosca la fonte.

Chiudo così: non vantarti di quel che hai fatto grazie alla forza della speranza in Dio; e non biasimare subito gli errori altrui, spesso è solo disperazione dovuta alla perdita della fede nell’esistenza di un Dio che “è con noi” sempre, l’Emmanuel.

Forse per qualcuno, con questa mia missiva pubblica, ho già contravvenuto a quanto appena detto: mi sono vantato di quel che ho fatto e biasimato scelte altrui.

Sento che è una preoccupazione futile:

“Queste cose te le dovevo dire, le sentivo nel cuore, ce le avevo sulla lingua, te le ho dette. E adesso fanne pure quel che ti pare! Ma senti Stefanino, a proposito… pensi che la spengano quella luce lì?”

Credo sia inutile chiarire anche l’autore dell’ultima citazione, no?

Grazie della lettura, continua a darci dentro!

Papà



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6 replies

  1. Scusa, Mistrel ma quanti anni ha tuo figlio?Si capisce che e’ un liceale? E allora francamente mi pare una lettera piu’adatta a un adulto filosofo bioeticista che a un liceale . Tutto a suo tempo !
    a 15-17 anni una lettera cosi’lunga e complicata e profonda da mio padre avrei letto le prime dieci righe e poi sinceramente l’avrei accantonata….
    Tutto giusto ok ti credo papa ….ti credo sulla fiducia…

  2. Scusa, Mistrel ma quanti anni ha tuo figlio?Si capisce che e’ un liceale? E allora francamente mi pare una lettera piu’adatta a un adulto filosofo bioeticista che a un liceale . Tutto a suo tempo !
    a 15-17 anni una lettera cosi’lunga e complicata e profonda da mio padre avrei letto le prime dieci righe e poi sinceramente l’avrei accantonata….
    Tutto giusto ok ti credo papa ….ti credo sulla fiducia…

    • So già che questo rischio può essere concreto, ma quel che dovevo dire l’ho detto, non faccio come la TV che non dice o dice poco per paura di perdere odiens. A mio avviso un quattordicenne a cui piace leggere e pensare può tentarne la lettura ben sapendo che a casa può eventualmente chiedere delucidazioni all’autore. Ovviamente senza voglia nemmeno San Tommaso arriverebbe alla fine dello scritto, ma quella non è colpa mia anche se la mia sintassi a volte può istigarla.

    • Ok, lo ha letto durante il lungo ritorno col bus, ho la certezza perchè ho immesso alcune esche nello scritto che lui a prontamente citato ad hoc quando me l’ha detto. 😉 Ovviamente non mi ha detto nulla dell’argomento in sè, ma quello lo davo per scontato. E avanti.

    • Gian Piero,
      personalmente conosco “L.” e ti posso garantire che può benissimo capire quel che suo padre gli ha scritto.
      E avrebbe anche potuto scrivergli due o tre anni fa e già fa avrebbe capito.

      I giovani, fin dall’età cosiddetta della “ragione” (7 anni) capiscono benissimo quel che si dice loro: ricordo, ad esempio, che all’età di anni otto, al catechismo impartito dalle suore della parrocchia dove vivevo, avevo capito benissimo che Dio era uno e Trino, e che non bisognava confondere Padre, Figlio e Spirito Santo, benché le Tre Persone fossero un solo Dio, ad esempio.

      E qui Minstrel non ha neanche parlato di misteri teologici, ma di semplice umano buon senso: è quel che questo documento scritto dalla CdF, e permesso di pubblicazione dal Papa attuale, è.

      Non c’è nessuna utilità umana o spirituale a fare dei figli e nipotini nostri dei minorati: più diamo loro il più presto possibile più si sviluppano, più li lasciamo nell’ignoranza o nell’imbecillità (in senso etimologico) più diventano come rachitici sul piano intellettuale, spirituale, fisico.

      Non so se hai letto gli scritti del giovane Gian Battista Montini a undici anni: già scriveva come poteva scrivere 44 anni fa uno che finiva la sua maturità classica (figuriamoci oggi). Tutto questo per dire che non dobbiamo allinearci sul pensiero unico dominante che vuole lasciare le giovani generazioni disinteressate dai veri problemi e solo focalizzate su quel che hanno tra le gambe e diventare come dei Stanley/Vincent/Antonio, senza dominio su loro stessi, oppure alla mercé dei venticelli di moda e senza idee proprie come ML65: hai voglia, Gian Piero, che i tuoi discendenti siano come costoro? Onestamente?

      In Pace

  3. La vita è sempre da tutelare e da proteggere, ed è sempre piena di significato. E’ brutto quando ci sono situazioni in cui manca l’assistenza, io mi sono trovata a gestire mio padre morente, mia madre ammalata di cancro e mia sorella disabile psichica contemporaneamente, pur presentando anche io problemi di salute. E’ stato difficile, è stato un incubo. Forse la società dovrebbe aiutare maggiormente le famiglie, senza lasciarle sole a gestire situazioni drammatiche. Il problema della disabilità è un problema dei parenti, la società non ti aiuta in niente. Dovrebbero esserci strutture, assistenti sociali, operatori sociosanitari, volontari. Noi non abbiamo avuto niente.

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