Con qualche settimana di ritardo rispetto alle previsioni è finalmente uscito il quinto volume della serie “ControCorrente, Saggi contro la deriva antropologica”. Raccoglie saggi di
Curatore dell’edizione è il filosofo Massimo Maraviglia a cui cediamo la parola riportando stralci della sua relazione introduttiva al tomo stesso. Buona lettura (e buona lotta) a tutti.
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Paolo Guzzanti ha recentemente parlato, del tutto a proposito, di una guerra che lo stalinismo del politicamente corretto ha dichiarato contro le persone libere e che, se nessuno si muove, rischia di essere persa: “Questa guerra razziale contro la gente libera è intorno a noi ed è contro di noi. Se nessuno si muove, è persa” (Quella crociata contro le persone libere, “Il Giornale” 2/9/2017). Chi sono gli amanti della libertà che si devono “muovere”? Usciamo dal luogo comune: non serve nessuna ideologia, né una particolare consapevolezza morale o civica per amare la libertà. E la libertà non è nulla di trascendentale, almeno a prima vista. I classici dicevano che la sua forma più immediata, intuitiva ed evidente consiste nel non essere ostacolati nelle proprie azioni. Poi viene tutto il resto: il libero arbitrio propriamente detto, la facoltà di dare un’impronta alla propria vita, la capacità di fare il bene piuttosto che il male, la forza per resistere alle tentazioni del disordine interiore, cioè, in sostanza la prerogativa di essere legge a se stessi. Ma rimaniamo sul primo e più elementare livello. Lo stalinismo del politicamente corretto costruisce una serie di precetti cui intende dare valore legale e civile, costringendo i dissenzienti ad adeguarsi in forza della violenza della riprovazione sociale e istituzionale.
Il precetto regola non solo i modi di dire e di fare, ma ambisce anche a determinare irresistibilmente le opinioni, ossia il pensiero. I temi sono quelli tipici della convivenza civile: diritti individuali, relazioni tra i sessi, educazione e relazioni pedagogiche, rapporti tra le diverse componenti etniche, linguistiche culturali della società, comunicazione attraverso i media, opinioni politiche e orientamenti culturali. In tutti questi campi il politicamente corretto intende imporre una visione del mondo fondata sull’uguaglianza e la cosiddetta “inclusione”, opponendosi a quelle che vengono chiamate le diverse forme di “discriminazione, odio e sopraffazione”. Insomma per uomini del nostro tempo, nati e cresciuti nel circuito storico-culturale dell’illuminismo e dei suoi sviluppi novecenteschi, sembrerebbe un viaggetto nell’ovvio e nel consolidato.
Purtroppo non è così. […]
[Insomma] v’è un insieme di dispositivi linguistico-ideologici in grado di occultare la natura del sistema sociale, politico e culturale in cui viviamo per neutralizzare le spinte centrifughe che ancora periodicamente si manifestano, significativamente proprio laddove i contesti culturali degradati e le particolari condizioni di vita delle persone le rendono parzialmente impermeabili all’influsso della propaganda e delle istituzioni di integrazione socio-culturale come la scuola.
La scommessa di un’altra strada possibile, quella di una contrapposizione efficace allo spirito dei tempi che passi non attraverso le zone d’ombra della cultura e le necessarie aporie della propaganda, condannandosi alla rapsodicità e alla marginalità, bensì attraverso un più profondo ed efficace rinnovamento delle coscienze e la riscrittura dei programmi predefiniti ai quali si vuole omologare la nostra vita, tale scommessa è via obbligata per chi aspira alla riacquisizione di un senso autentico del concetto di libertà. Riacquisizione che deve essere linguistica, teoretica e al tempo stesso etica; che inizia nel discorso, nella riflessione e finisce obbligatoriamente nell’azione.
A un simile inizio puntano complessivamente i volumi di Controcorrente e in particolare quello che presentiamo dedicato in modo diretto e indiretto alla questione della libertà.
Vi leggerete in primis un inquadramento ontologico della questione, nel denso articolo di Brachetta, che riporta la riflessione al tema del primato della verità, da interpretarsi anzitutto teologicamente. Dalla verità è stabilito che proceda teologicamente, mediante un’accorta disanima delle relazioni trinitarie, la libertà. Quest’ultima viene interpretata in modo molto diverso e distante dal semplicistico e confusionario libertarismo liquido e irrazionale dei nostri contemporanei. La libertà nel suo paradigma trinitario procede dal logos divino e mai ne può risultare sganciata: la libertà è insomma pregna di ragione, cui si accede non tanto mediante il procedere deterministico della dialettica profana, ma agostinianamente per via illuminativa: non sei tu che trovi la verità, ma è la verità che trova te… e ti fa libero.
Tale verità liberante è l’antidoto al relativismo e al nichilismo della modernità, sottolinea Benigni. Essi, lungi dal rappresentare una forma di emancipazione, costituiscono assieme un potente strumento di dominio, espressione di una radicale volontà di potenza. È, infatti, estremamente facile dominare colui che non crede in niente. Ma chi è il nichilista e il relativista? È un soggetto che vuole essere misura di tutte le cose. E in quale recesso emozionale si situa tale aspirazione all’onnipotenza? Nei vicoli tortuosi dell’invidia, di quell’invidia denunciata magistralmente da Nietzsche come pilastro della visione del mondo della modernità egualitaria. È un’invidia che in modo onnipotente nega ogni riconoscimento a tutto quanto si eleva al di là della sfera del controllo individuale. L’individuo, presupponendo la dipendenza financo ontologica di tutte la realtà dal suo rancoroso giudizio, crede di poter nullificare quelle che lo sovrastano. Questo è relativismo nichilista, un errore logico, ontologico ed etico su cui si è costruita la decadente civiltà dell’eguale e dell’uniforme, in cui nessuno può distinguersi, né sollevarsi dalla massa anonima del gregge oclocratico.
È chiaro che, al di là delle intenzioni di Nietzsche, l’uccisione dell’Elevato per eccellenza, cioè di Dio, rappresenta un eccezionale volano per l’ultimo uomo, contro il quale il filosofo pur si scaglia. Infatti, quando avveleniamo Dio con la nostra invidia, ci chiudiamo ad una relazione fondativa per la nostra identità e per il senso del nostro esistere condannandoci a una vita priva di grandezza e segnata dalla schiavitù. La Brighenti, con il suo breve excursus sui concetti di persona e di uomo, ci avverte di questo pericolo, in perfetta coerenza antirelativista con gli orientamenti Benigni e Brachetta, sottolinenando al tempo stesso come la propensione della persona alla relazione col trascendente sia condizione della libera espressione dell’umanità.
Tra i fattori che, viceversa, puntano in direzione dell’ultimo uomo, v’è il cedimento alle seduzioni del costruttivismo antropologico liberal (una delle più insidiose merci di importazione anglosassoni), che costringe dentro la gabbia d’acciao dell’anomia e della anonimato. Senza nomos e senza nome non si è nessuno. Questo diventare nessuno è lo slogan di tutti coloro che promuovono la distruzione dell’identità psicosessuale del maschio e della femmina attraverso le politiche sociali ed educative improntate al cosiddetto genderismo. Gobbi spiega l’enorme rilevanza della presenza di entrambi i genitori per la felice crescita psicosessuale dell’individuo e rammenta che la castrazione dell’identità psicosessuale con la sua riduzione della libertà a puro capriccio rappresenta una delirante falsificazione sessuale dell’identità umana. Tale delirio si manifesta come una prigione psicologica prima ancora di diventare un carcere fisico. Infatti, mistificando il rapporto tra biologia e libero arbitrio, esso illude sulla manipolabilità infinita del dato naturale, producendo mostri mentali e disastri esistenziali mentre apre al culto effimero, vuoto, nichilistico e liberticida dell’ibridazione fisica.
Contro tale deriva e le aporie disperanti dell’omoaffettività, Cilia, dal canto suo, propone un’antropologia della padronanza di sé, legandosi all’affascinante ed esigente sfida del messaggio cristiano che libera ciascuno rendendolo padrone e sovrano di sé in Cristo. Ciò avviene, ovviamente nella carità, che accoglie senza nascondere, che rispetta la dignità profonda di chi pure avverte la coattiva emergenza delle pulsioni omoerotiche. Questo disvelamento prudente e sincero di sé a se stessi riconosciuto dagli altri nella verità e nell’amore è la condizione perché ciascuno sia aiutato nel compito che è di tutti: la liberazione della propria vita per la sua piena e completa realizzazione. Ecco allora che la fattispecie dell’omoaffettività diviene un caso particolare di una generale costante antropologica: il dovere dell’uomo di guarire dalle proprie tendenze, non cercando giustificazioni per le proprie pulsioni ma orientandole come un sovrano benevolente farebbe nei confronti di un suddito recalcitrante.
In un ambito diverso, ma analogo per i processi che implica, Boccanera ci avverte di un altro pericolo di un’altra preoccupante cessione di sovranità: quella tecnologica. La padronanza di sé è infatti insidiata non solo psicologicamente ma anche socialmente, soprattutto nell’odierna società della comunicazione e della tecnica. Molto concretamente viene qui presentato il caso di Facebook, mostrando quali e quante strategie di controllo vengono messe in atto per suo mezzo e in generale per mezzo dei social network. Si tratta di un itinerario che affascina, per la competenza tecnica che lo ispira, e al tempo stesso inquieta per le dinamiche incipientemente totalitarie che fa intuire.
Nei processi comunicativi il tentativo di liberarsi dell’oppressione dei potenti ha una storia nobile e una meno nobile. Frecentese ci illustra entrambi i casi con un’interessante riflessione sulla satira nell’era di “Charlie Hebdo”, un periodo complesso in cui l’omaggio al potere e la ricerca di una cooptazione dentro le sue corti, che sono anche mediatiche, passa insidiosamente anche attraverso quella forma di satira comoda che si esercita contro i più deboli, che irride l’indifeso e alza il tiro contro chi non può rispondere. Uccisi dalla follia terroristica alcuni dei redattori della testata parigina, i sopravvissuti non hanno colto l’occasione per una riflessione profonda sul loro operato, ma hanno creduto di aver ottenuto il lasciapassare per l’irrisione distruttiva e fine a se stessa, incurante del prossimo e delle sue disgrazie. Di contro l’autore fa notare quale sia il compito permanente della satira, che si manifesta sempre come sfida ai potenti a difesa dei pauperes.
L’ultimo testo è un congedo particolarmente adeguato di un testo come il presente dedicato alla libertà. Infatti, congedando nostri cordiali lettori, Frecentese insiste sul valore del silenzio come accesso alla meditazione, alla ruminazione della verità, al suo accomodamento mistico che si nutre di pazienza, di attesa e di preghiera. Contro la società del rumore che distrugge nell’insignificanza della ripetizione indefinita il senso dei discorsi, contro la società del tempo consumato ed esaurito nelle dinamiche del lavoro e dell’economia, il silenzio è ripresa di sé stessi sotto la luce della calma accoglienza di una grazia superiore, donatrice di senso e di valore, cui noi dobbiamo ogni nostra liberazione.
Possiamo allora dire che anche questo volume di Controcorrente contribuisca coralmente, con un’armonia di contributi diversi per taglio e a volte anche per orientamenti filosofici, ma vicini per sentimento della vita, alla costruzione di un linguaggio diverso in grado di comunicare pensieri diversi, un linguaggio non strategico, non rassicurante, non mediato da intenti obliqui, che non solo si oppone al politicamente corretto ma è il contrario del politicamente corretto. Mediante questo linguaggio vogliamo, con lavoro umile, preparare il piccolo terreno affidato ai nostri aratri per un giorno, come dice Frecentese, nuovamente poter salutare: “Benvenuta libertà!”
Massimo Maraviglia
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