“Checos’èità”, chatGPT e Intelligenza Artificiale

A volte mi capita di partecipare nel blog di Edward Feser [qui] in quanto vi sono spesso presentati soggetti che mi interessano. Quel che a volte è un poco sorprendente è vedervi utenti che non hanno assolutamente nessuna idea circa la nozione di forma, di atto e di potenza (o di meccanica quantistica), ma che insistono con commenti fuori luogo piuttosto imbarazzanti per i loro autori. Tra questi trolli ce ne sono che vorrebbero dimostrare “scientificamente” che l’ilemorphismo di aristotelica memoria sarebbe una teoria errata: il nocciolo del problema, messa da parte la loro malafede intellettuale, è che, volontariamente o per crassa ignoranza e incomprensione, hanno una concezione bambinesca della “forma” quasi questa fosse come uno “spiritello” che si sovrapporebbe ad una specie di realtà informe, in realtà una versione, diciamocelo chiaramente, rincretinita del platonismo di più bassa estrazione alla quale potremmo riferirci.

Allora cercano di immaginare esperimenti, “quantistici”, ovviamente, visto che se uno non ha per davvero studiato la meccanica quantistica estensivamente, intensivamente e con gli strumenti matematici e logici adatti, non si hanno i mezzi intellettuali per controbattere le illazioni che tali trolls della riflessione filosofica proferiscono. La meccanica quantistica, come la fisica in generale, per essere discussa sensatamente necessita una reale competenza operativa come condizione sine qua non, anche se tale necessaria competenza operativa è di gran lunga non sufficiente per capirla profondamente. Però, alla fin fine, sempre veniamo al punto che cercano di dimostrare che una sedia ha una forma di sedia smontandola, che un cane ha la forma di un cane dissecandolo, che un umano ha una forma di umano (anche chiamata anima) esaminandone le budella, e non credete che io esagero visto che quel genio (lo dico ironicamente) di un Cartesio credeva che il seggio dell’anima umana fosse nella ghiandola pineale.

Vi è un termine affascinante in inglese che non ha un vero corrispettivo in italiano o in francese e che, secondo me, ben dice come potremmo riproporre la nozione di “forma” aristotelica in un linguaggio moderno dove questa parola fin troppo usata ha perso senso per chi non si è dato la pena di davvero capire l’aristotelismo ed il tomismo: la nozione di “whatness“, che potrei tentare di tradurre con un neologismo di mia invenzione la “checos’èità“; esiste comunque un vocabolo italiano rarissimo e che è la “cosità” e rassomiglia molto all’uso che ne vorrei fare in queste righe ed in questo blog; vi è anche la nozione scolastica di quiddità, che però torna ad una parola latina e, forse, non ci aiuta a capire al meglio nozione di “forma” in quanto tale. Ci sarà sempre gente che vorrà trovare la nostra quiddità, alla stessa stregua che la forma, nella nostra ghiandola pineale, mentre il ridicolo di questa ricerca diventa subito appariscente, anche al neofita, quando si volesse pretendere di localizzare la “checos’èità” in un organo corporale specifico.

Quel che mi affascina con questo barbaro vocabolo di “checos’èità” è che ha la forza concettuale della quiddità ma con in più una relazione esplicita alla domanda che pone lo spirito conoscente rispetto alla cosa che desidera conoscere: “cosità” si riferisce, secondo me, troppo alla “cosa in sé“, inconoscibile ed il porsi cosa essa sia già mostra che è una domanda mal posta e che tal concetto si riferisce ad un’impossibilità epistemologica; la “checos’èità“, come la “forma” o la quiddità, si presenta invece come ponte epistemologico tra l’oggetto conosciuto ed il suo conoscente e ne identifica i due termini, in quanto la “checos’èità” è compartita tra i due termini e li identiifca. La “checos’èità” dell’oggetto conosciuto è la stessa dell’idea che ne ha il soggetto conoscente

La “checos’èità” esprime l’individualità (cioè in quanto distinto dagli altri), l’unità (cioè in quanto finalizzato), l’organicità (cioè l’armonica coordinazione delle sue parti), la natura (cioè le qualità) e la finalità (il “per cosa” o il “per che“) propria dell’oggetto conosciuto che è così identificato in quanto tale dal soggetto conoscente.

Solo una cosa che è può, potenzialmente, interagire con un’altra cosa che è: tale affermazione è ovvia in quanto la sua formulazione opposta non ha senso, “quel che non è qualcosa potrebbe interagire con quel che è, o non è, qualcosa” (equivalente a “il niente interagisce con qualcosa o con niente”), ma questo scioglilingua esprime un paradosso come la nozione del cerchio quadrato, e cioè che ci sarebbe qualcosa che non è qualcosa eppure interagirebbe con qualcosa.

Se solo qualcosa può interagire con qualcosa, ne consegue anche che solo qualcosa che sa esser qualcosa può conoscere se altro che sé è qualcosa: questa condizione è necessaria in quanto se qualcosa potesse conoscere le altre cose senza sapere che è essa stessa qualcosa allora vorrebbe dire che non sa riconoscere la “checos’èità” in quanto tale; ed è anche una condizione sufficente, in quanto, conoscendosi in quanto “checos’èità“, può dunque riconoscere quel che non è un elemento della propria “checos’èità” e quindi riconosce altre “checos’èità” che la sola propria.

Ricordiamoci cos’è la definizione di “checos’èità” :essa è il principio che fa che una cosa è e che è quel che è e non altro. È una nozione corporale? No, perchè nozioni come quelle di spazi di Hilbert o di Banach, ad esempio, sono cose ben identificate; perchè il canto 33 del Paradiso di Dante non ha nessuna materialità eppure è cosa ben identificata. È una nozione temporale? Neanche, quando mi riferisco al mio trisnonno materno, la sua “checos’èità” è ben definita eppure è morto più di un secolo fa, pace alla sua anima. È una nozione spaziale? Ovviamente no, visto che non possiamo identificarne la posizione spaziale neanche nel corpo fisico di un oggetto qualunque.

Cosa può riconoscere la “checos’èità” è solamente quella cosa che si può conoscere in quanto “checos’èità“: chiedere quindi ad una chiave inglese, ad un bisturi, ad un microscopio, ad un telescopio, ad un programma informatico di interagire con il principio stesso della “checos’èità” di un motore, di un arto, di un bacillo, di una galassia, di un insieme di dati codificati, è un errore epistemologico crasso e, probabilmente, avvinghiato in una spessa coltre di malafede intellettuale.

Per ben capire la differenza tra questi differenti livelli, prendiamo il caso di una calcolatrice, sia essa uno strumento ad hoc, od un programma informatico sul nostro PC: abbiamo tutti imparato a fare moltiplicazioni e addizioni, sottrazioni e divisioni, elevazioni al quadrato e estrazioni di radici fin dall’asilo per i più precoci e fin dalla prima classe della scuola elementare per i più tardi. In fin dei conti queste operazioni sono assolutamente meccaniche e di poca o nessuna utilità in sé, salvo per esercitare una certa ginnastica mentale e affinare le capacità di ragionamento: ma quel che conta è quel fine per il quale le compiamo: calcolare il prezzo della merce al mercato, una superficie di terreno da vendere, la portanza di un ponte da costruire, la traiettoria di razzo nello spazio, le probabilità quantistiche di una radiazione particolare, le tasse….

Il nostro bravo programma informatico manipola dati, zero e uno in grandissima quantità, li allinea, applica porte logiche, e produce altri zero e uno: non ha nessuna idea di cosa significhino, anzi, proprio non ha nessuna idea “tout court“, non hanno nessuna finalità dal suo punto di vista, finché non si inceppa a causa di un “bug” esso continua impeterrito a produrre zero e uno in un modo tale che un occhio inesperto vedrebbe solo sequenze aleatorie di zero e di uno.

Per dare senso, cioè significato, alla produzione di detti uno e zero, bisogna essere capaci di individuarne gli elementi, di capirne la finalità in un contesto più globale, di valutarne la coerenza in relazione a tale scopo, di capirne la natura, cioè di stabilire quale ne sia relazione colla “checos’èità” che si desidera conoscere: cioè di dare contesto al contesto, cioè essere contesto in quanto tale. In fin dei conti la “checos’èità” è l’incontro del contesto in quanto tale con i contesti degli elementi.

Quel che definisce in proprio la nostra specificità, cioè la nostra “checos’èità” in quanto enti conoscenti, è proprio la capacità di essere contesto per tutte le “note” (“patterns”) che interagiscono con le nostre note ma anche per noi stessi: non abbiamo bisogno di un contesto “terzo” per definire il nostro che è proprio quello di essere contesto finale di tutti i contesti incluso il proprio.

Tutto questo non c’entra niente con il nostro cervello: in questi in effetti quando un’idea è pensata si “accende” come una trama specifica di neuroni corrispondenti, ma, anche in questo caso, come nel caso degli stati elettronici in una pulce di silicio sottostante a qualunque intelligenza artificiale, non ha significato senza un contesto che da senso a questa specifica struttura di campi elettrici, contesto di contesti che non può essere a sua volta una struttura superiore di campi elettrici, che anch’essi avrebbero bisogno di essere contestualiizati e il numero dei nostri neurioni essendo finito, il contesto di tutti i contesti chiaramente non è dell’ordine delle “note” (“patterns“) specifiche che attua il nostro cervello in un punto dato, ma , chiaramente, vi si situa completamente a priori e a prescindere.

Note che corripondono ad altre note non ci ottengono la conoscenza della “checos’èità“: esse sono necessarie, ma non sufficienti: vi è bisogno di questo principio primo di contestualità capace di accogliere le varie “checos’èità“, come anche la propria, in quanto tale.

In cosa dunque vi sarà sempre una radicale differenza tra l’agire di un’intelligenza artificiale da quella nostra? Certamente non nella “patterns’ recognition” che può anche essere più efficace quando sviluppata specificamente artificiosamente, ma proprio nel fatto che la nostra natura è quella di definire la “checos’èità“, cioè dare contesto, incluso al nostro proprio contesto. In questo senzo dare “nome” alle cose, azione adamitica per antonomasia, è quel che definisce l’umano in quanto tale: dare nome è sapere cos’è cosa, distinguere, “assorbire” e compartire cosa sia una cosa sia senza togliergli quel che è.

Quel che fa che una cosa è, è accolta nel contesto della “checos’èità” conoscente mentre sempre definisce l’ente terzo che ne attua il principio. Per definizione è quindi “non corporale” (o, volgarmente, “non materiale”). Identificare cosa una cosa è, e non è, non è la stessa cosa che semplicemente paragonarne le note: un animale che reagisce nel suo contesto di vita distinguendo prede da predatori, agisce semplicemente e solamente paragonando note con altre note, (ad esempio tale corpo, tale odorie, tale suono uguale pericolo, indi scappare) ma non sa cos’è (ad esempio una tigre) in modo sempre più sofisticato secondo la specie considerata. Un’intelligenza artificiale non andrà, intrinsecamente, mai aldilà del comportamento di un’animale: tale “pattern” di differenziati potenziali elettrici nella pulce di silicio corrisponde a tal’altro, indi implica tale azione o tal’altra, mentre la “checos’èità” di quel che fa gli rimane inconoscibile: una intelligenza artificiale non conosce, ma solo paragona “patterns” (quindi “note“) e opera in funzione.

Non è quindi nell’osservazione del comportamento di un’intelligenza artificiale che possiamo distinguerla da un essere umano, cioè nell’interazione tra i nostri “patterns” di interazione fisica con i suoi patterns di interazione fisica che saremo capaci di stabile una distinzione, ma solamente con la nostra propria capacità di contestualità di “checos’èità“: ad esempio la nozione di figliazione, dove un essere umano è tale in quanto discendente di un essere umano, in quanto è capace di accogliere la “checos’èità” di terzi, come della propria, nella propria “checos’èità“o , altro esempio, in quanto è lo specchio della “Checos’èità” divina che è quella di dare “checos’èità” alle cose che poi sono riconosciute e integrate nella propria “checos’èità” conoscente.

Ne consegue anche , quasi a modo di lemma, che voler eliminare il divino impedisce di essere capaci di radicalmente distinguere un uomo da un’animale o da un macchinario qualunque: e questa assenza di distinzione diventa come una certezza epistemologica cortocircuitandone il piano e facendolo erroneamente coincidere con un contesto dei contesti superiore, quello divino. Un macchinario rotto è rotto, può essere riparato, ma non può essere funzionale in quanto rotto: mentre l’uomo il cui corpo è morto è vivo, in quanto se egli è quel che definisce il contesto e la “checos’èità” del proprio corpo, non è quest’ultimo che ne delimita la “checos’èità” e, quindi, la sua scomparsa al momento della morte fisica, in quanto questo non implica il mancare alla propria caratteristica di essere la “checos’èità ultima che può contenere tutte le “checos’èità” che il divino crea, anche se viene a mancare del meccanismo fisico e corporale di poter paragonare “note” con “note“, “patterns” con “patterns“.

Il definire la “checos’èità” vuol essenzialmente dire definire il fine delle cose: in altre parole, questa capacità a capire e conoscere la finalità delle cose è tipica proprio di un’ente che sia realmente capace di accogliere la “checos’èità“. La ricerca del per che cosa una cosa esista è specifica dell’umano: la necessità di conoscere il proprio fine è quel che definisce l’umano e che mai sarà condivisibile da un ente artificiale o animale (o vegetale o inanimato) in quanto il loro fine è sempre definito univocamente e tendono a metterelo in atto anche se non lo conoscono.

L’umano è capace di definire la propria finalità: esso sarà quindi sempre distingibile dal resto del creato, naturale o artificiale che sia, quando stabilisce, o ristabilisce le proprie finalità: è proprio quindi nella sua capacità di dare senso, di riplasmare la contestualità nella quale inserisce la “checos’èità” propria e di terzi e che, per natura, sempre si distinguerà da qualunque artefatto, il quale sempre sarà, per definizione, limitato alla “patterns’ recognition” e conseguente azione.

L’umano dà senso, crea nuovi contesti, concepisce e perseguisce nuove finalità: l’avvento di strumenti sempre più sofisticati, come chatGPT, dovrebbe quindi aiutarlo a liberarsi dallo sforzo di dover elaborare lui stesso delle “patterns’ recognitions” e concentrarsi su quel che fa di lui quel che è in proprio: identificare il proprio fine e perseguirlo, per diventare sempre più se stesso, mentre un’intelligenza artificiale è già se stessa. E diventare se stesso, vuol dire realizzare nella propria esistenza la propria “checos’èità“, cioè essere colui che riceve peinamente le “checos’èità” che il divino fa sorgere nel reale, incluso se stesso.

Il Dio di un’Intelligenza Artificiale in fin dei conti non può essere che l’uomo che gli dà accesso a tutte le note: il Dio dell’Uomo è Colui che gli da accesso, creandole, a tutte le “checos’èità” in quanto tali.

Il pensare “out of the box“, la creatività nella definizione o la creazione di nuove finalità sarà sempre il discrimine tra l’umano ed il resto del reale “materiale“.

In Pace



Categories: Cortile dei Gentili, Filosofia, teologia e apologetica, Simon de Cyrène, Transumanesimo

6 replies

  1. Ok, oggi è troppo tardi, ma continuo domani sicuro. MI sono fermato a quando mi hai risposto ad una controreply che mi stava nascendo, direttamente con il tuo scritto poche righe sotto. “Ehi” dicevo “ma c’è: cosità!” ed ecco che poche righe sotto… boom. AHahah, fantastico, per stanotte mi accontento e chiudo qui.
    Un abbraccio e a presto risentirci 😉

  2. Grazie di questa interessante riflessione.
    Mi vengono in mente i Padri del deserto che interrogavano ogni pensiero per capire dove questo voleva andare a parare. Purtroppo ci sono tante persone convinte che i loro pensieri siano « loro », cioè, che siano loro a generarli (così come sono convinti che il loro corpo sia un loro possesso) e così diventano ottusi, impermeabili alla trascendenza (e permeabili a qualsiasi manipolazione).
    A me pare che, soprattutto negli ultimi tempi, questa corsa allo sviluppo della cosiddetta IA faccia il paio con una parallela corsa alla « robotizzazione » dell’uomo che lo vorrebbe un essere intento a fuggire il dolore e cercare il piacere, come qualsiasi altro animale, privandolo di ogni capacità di « considerare la sua semenza », di perseguire la finalità per cui è stato creato (come dici tu, diventare sempre più se stesso, oppure, si potrebbe dire anche, amare come Dio ama). Questa è la menzogna: « eliminare » Dio per « liberare » l’uomo affinché possa « essere sempre più se stesso ». Ma se Dio non esiste l’uomo non esiste, ciò che rimane è appunto un automa capace solo di « reagire », una stupida « Intelligenza Animale ».
    Buona Settimana Autentica e buona Pasqua di Risurrezione a tutti.

    • Carissima!
      Hai perfettamente colto il nocciolo di questo mio articolo, ma tu ed io abbiamo questo in comune e cioè troviamo la nostra felicità nella contemplazione della Realtà nella Sua semplice essenzialità.
      Realtà che ci è data da Dio e che, Tutta, ci porta a Dio: non una sola idea, non un solo essere, non ci sono dati e non sono creati da Lui.
      Ti ringrazio anche di aver svelato la chiave del mio modo di pensare: con altre parole, ma esprimendo la stessa cosa, mia moglie dice che interrogo il pensiero sempre a mo’ di una spirale, per cerchi concentrici rimuginandolo fino alla sua causa finale, “centro” intangibile, che sempre spero essere il Divino. A volte lei preferirebbe che facessi un ragionamento più lineare, ma personalmente, da sempre, preferisco contemplare un pensiero e vedere dove va pa parare, come ben dici, proprio perché non ne sono proprietario ma solamente un contemplante degustatore e che ciò mi rende più affine al Logos e più intimo alla Realtà creata.
      Grazie per questo tuo commento che è un vero regalo.
      Buon Triduum pasquale!
      In Pace

  3. Ciao, ho appena iniziato a seguire il tuo blog! L’IA è un argomento che mi sta a cuore e di cui scrivo spesso, di solito in positivo! La uso per quasi tutte le mie immagini. ad esempio. Capisco però che per chi scrive blog può anche essere una minaccia, ne ho parlato qua: https://popinarsapienza.wordpress.com/2023/04/09/adelmaide-dematossi-contro-lia-nei-blog/

    • In realtà, se ben leggi larticolo, sono 100% a favore dell’uso delle IA in tutti i campi, in quanto, per l’appunto, non sostitusicono in niente quelle attività specificamente umane ma, come tutti gli strumenti inventati da millenni dagli essere umani, ci aiutano a focalizzarci su quel che fa il proprio del nostro valore aggiunto umano a scanso di quel che è “para-umano”.
      Quindi evviva l’arrivo di IA efficienti ed efficaci!

      In Pace

      (Interessante il tuo blog!)

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