A Dio Joseph Aloisius Ratzinger: Te Deum laudamus, te prophetárum laudábilis númerus!

In queste ore di cordoglio per la scomparsa del Papa Emerito, ricordiamo Benedetto XVI con quello che davvero sembrava essere il suo stile e la sua vocazione: l’insegnamento e la profondità della riflessione. Rileggere oggi queste sue parole forse troppo poco lette, ma a nostro avviso davvero interessanti, danno la cifra di chi abbiamo avuto a capo della Chiesa e di quanto siamo stati spesso sordi, pessimi allievi. Oremus, buon anno a tutti, ne avremo bisogno.

“[…]Ritorno alla mia domanda di partenza: che cosa può e deve dire il Papa nell’incontro con l’università della sua città? Riflettendo su questo interrogativo, mi è sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da sé alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: qual è la natura e la missione del Papato? E ancora: qual è la natura e la missione dell’università? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato.

Basti un breve accenno. Il Papa è anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtù della successione all’Apostolo Pietro, ha una responsabilità episcopale nei riguardi dell’intera Chiesa cattolica. La parola “vescovo” – episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a “sorvegliante”, già nel Nuovo Testamento è stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli è colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all’insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell’insieme.

In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l’interno della comunità credente. Il Vescovo – il Pastore – è l’uomo che si prende cura di questa comunità; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesù – e non soltanto indicata: Egli stesso è per noi la via. Ma questa comunità della quale il Vescovo si prende cura – grande o piccola che sia – vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunità umana nel suo insieme. Quanto più grande essa è, tanto più le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull’insieme dell’umanità.

Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa – le sue crisi e i suoi rinnovamenti – agiscano sull’insieme dell’umanità. Così il Papa, proprio come Pastore della sua comunità, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità.

Qui, però, emerge subito l’obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validità per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perchè si pone qui la questione assolutamente fondamentale: che cosa è la ragione? Come può un’affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi “ragionevole”? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione “pubblica”, vede tuttavia nella loro ragione “non pubblica” almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono.

Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato.

Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee.

Ritorniamo alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica.

Ma ora ci si deve chiedere: e che cosa è l’università? Qual è il suo compito? E’ una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità.

In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: “Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti ? Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?” (6 b – c). In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore.

Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera. Poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università.

E’ necessario fare un ulteriore passo. L’uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theorìa, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra “scientia” e “tristitia”: il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene.

Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perchè ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa.

Nella teologia medievale c’è stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire – una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l’università medievale con le sue quattro Facoltà presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facoltà che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata più come “arte” che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell’universitas significava chiaramente che era collocata nell’ambito della razionalità, che l’arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all’ambito della magia. Guarire è un compito che richiede sempre più della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facoltà di giurisprudenza.

Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo?

A questo punto s’impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo. E’ la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell’umanità. Jurgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti.

Riguardo a questa “forma ragionevole” egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un “processo di argomentazione sensibile alla verità” (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). E’ detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico “processo di argomentazione” sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme.

La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico.

Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla “ragione pubblica”, come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza.

Torniamo così alla struttura dell’università medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c’erano le Facoltà di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e con ciò il compito di tener desta la sensibilità per la verità. Si potrebbe dire addirittura che questo è il senso permanente e vero di ambedue le Facoltà: essere custodi della sensibilità per la verità, non permettere che l’uomo sia distolto dalla ricerca della verità. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente.

Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda – in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verità, che rimanda continuamente al di là di ogni singola risposta.

Teologia e filosofia formano in ciò una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due può essere distaccata totalmente dall’altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identità. E’ merito storico di san Tommaso d’Aquino – di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico – di aver messo in luce l’autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilità propri della ragione che s’interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verità; che la fede è il “sì” alla verità, rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine.

Ma poi, al momento della nascita dell’università, in Occidente non esistevano più quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e così bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovò ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralità; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca.

Così il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facoltà di filosofia che, come cosiddetta “Facoltà degli artisti”, fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facoltà vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa.

Non possiamo qui soffermarci sull’avvincente confronto che ne derivò. Io direi che l’idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro “senza confusione e senza separazione”. “Senza confusione” vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identità. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità.

La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al “senza confusione” vige anche il “senza separazione”: la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione del cammino.

Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo è vero che la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di ciò che dicono la teologia e la fede può essere fatto proprio soltanto all’interno della fede e quindi non può presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile.

E’ vero, però, al contempo che il messaggio della fede cristiana non è mai soltanto una “comprehensive religious doctrine” nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere più se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verità e così una forza contro la pressione del potere e degli interessi.

Ebbene, finora ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell’università e del suo compito. Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell’università sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalità della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l’uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso.

In questo sviluppo si è aperta all’umanità non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignità dell’uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell’uomo non può mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanità non è mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale – per parlare solo di questo – è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo.

Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande.

Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma.

Con ciò ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro”

Ratzinger, Joseph – Benedetto XVIDiscorso del Santo Padre che avrebbe dovuto tenere alla sapienza di Roma a gennaio 2008, Vaticano, 17 gennaio 2008



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23 replies

  1. Dumnezeu să-l odihnească în Pace ! 🙏

    • «L’esperienza ha mostrato come il ripiegamento sull’unica categoria del “comprensibile a tutti” non ha reso le liturgie davvero più comprensibili, più aperte, ma solo più povere.» (Joseph Ratzinger, “Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger”, cap. IX, 1985, edizioni San Paolo)

      Dedicatissima.

      • La sola cosa da capire è che non c’è niente da capire. È una translocalizzazione del nostro essere in Dio, un rapimento nell’apocalisse celeste che si sperimenta senza sforzo, un’estasi che si vive senza doversi convincere.
        In Pace

    • “Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l’altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina”
      Questa affermazione è un po’ ambigua, se non nel senso nell’effetto.
      Cosa è infatti l’effetto del cristianesimo nella storia occidentale ?
      La crescita economica ed etica dell’intera Europa ed a seguire dell’ intero mondo oppure , al suo opposto , una dottrina che non ha impedito la deriva in dittature di fatto atee che traevano dal cattolicesimo la propria base ? Come è concepibile che popoli cristiani, al di là della indicazioni del governante di turno , non si siano rifiutati di combattere l’uno contro l’altro in sanguinose guerre fino alla 1 e 2 guerra mondiale ?
      La religione cattolica è stata motore del progresso o rallentamento del progresso ? Gli 8 miliardi di abitanti vivi della terra , 7 miliardi dei quali venuti dopo il 1800 (quando la popolazione era appena 1 miliardo) sono frutto del cattolicesimo o delle scoperte scientifiche , e le scoperte stesse sono state favorite o rallentate dal cattolicesimo ?
      Queste sono le grandi domande storiche che andrebbero analizzate con cura per dare una risposta dalla quale si evinca che la tradizione e non la rottura della stessa siano stati i motivi della indubbia moltiplicazione della popolazione degli ultimi secoli , e dell indubbia diminuzione delle disuguaglianze generali , rispetto ad una storia fatta di strati sociali impermeabili l uno all’altro.

      • Guarderei piuttosto all’effetto della non-applicazione degli insegnamenti cristiani nella storia: non si può, salvo incancrenati pregiudizio e disonestà intellettuale, attribuire al cristianesimo eventi che sono il risultato della sua non-ricezione.
        In Pace

        • Concordo . Ma allora bisogna ammettere che quella mitizzata « generazione cristiana » , legata alla tradizione pre-concilio, in realtà era solo formata da tante adesioni formali ma solo da qualcuna sostanziale.
          A esser onesti intellettualmente e conseguenti nel ragionamento.

          • Certamente.
            Vi è però una gran differenza con la situazione attuale: mentre all’epoca il problema era quello di individui che peccavano sapendo di peccare e quindi, in linea di principio, potevano pentirsene e salvarsi, oggigiorno la situazione è ben peggiore, perchè il problema è quello dell’istituzione ecclesiale umana stessa che pecca pretendendo, contro lo Spirito Santo che anima la Chiesa di Cristo, che nel suo peccato troverebbe lapropria redenzione, dannandosi, così, con certezza.
            In Pace

            • Dubito che governanti e generali che scagliavano le truppe contro altri popoli cristiani in lotte fratricide, per interessi economici/territoriali in nome di una patria (che non a caso dei morti veniva prima della famiglia ) , fossero consapevoli che farlo era un peccato. Così come dubito che i vari cappellani dell’epoca si siano resi conto che anche dall’altra parte c’era un cappellano che benediceva la truppe perché restassero in vita , ben sapendo che in guerra la vita di uno spesso passa per la morte dell’altro.
              Insomma….dubito che Gesù Cristo avrebbe approvato la guerra per conquistare l’alto Adige (non parliamo poi di quelle coloniali). Spero che mi venga permesso questo dubbio.

              • Infatti non era, e non è, sempre peccato.
                A volte bisogna uccidere, sia per non essere uccisi, sia per non avere innocenti uccisi.
                Benedire le truppe è un grande atto di carità, perchè difendere le persone amate, le terre amate, la religione amata quand’è quella Vera , è cosa buona in sé.
                La Chiesa, in quanto istituzione umana, è sempre stata maestra nello sbagliarsi pastoralmente (penso alle prime comunità cristiane “comuniste”): il Suo “successo “non è mai stato il Suo, ma sempre e solo quello dello Spirito Santo che La guida e La anima.
                In questi tempi, però, (diciamo dal CVII ma comunque il problema era comincitato ben prima specialmente in Francia, anche se non unicamente) vediamo una “struttura umana ecclesiale” che, non solo erra pastoralmente, ma non essendo ormai più sostenuta dalla stessa lex credendi e orandi in vigore fin dal tempo degli Apostoli sotto forme diverse, ormai anche insegna l’errore trascinando innumerevoli anime alla dannazione dell’inferno in quanto chiaro peccato contro lo Spirito Santo stesso.
                in Pace

                • Le prime comunità hanno attinto lo spirito direttamente dagli apostoli ed alcuni avevano visto anche Cristo direttamente. Non credo che la loro interpretazione della vita cristiana possa essere considerata un errore , mentre quelle successive un successo dettato dallo Spirito. Non penso che san Paolo o San Pietro che le guidavano ed ispiravano possano essere tacciati di comunismo perché semplicemente avevano riportato nelle comunità quanto direttamente ricevuto dal Signore . Può non piacere , può dar fastidio, può sembrare pauperistico , può sembrare incomprensibile, ma la loro organizzazione era il frutto della convivenza con Cristo stesso. Una perla preziosa quindi, che non h eguali ne paragoni. Siamo cristiani prima che cattolici .

                • Penso che la Storia stessa abbia giudicato della giustezza pastorale di quelle scelte primitive vista la rapidità colla quale sono sparite.
                  Ma lo Spirito Santo vinse nonostante quelle scelte umanamente incerte, permettendo ad alcuni, forse molti, l’accesso alla Santità di Cristo in quel frangente, come lo fa da 2000 anni.
                  In Pace

                • Be …qui sopra hai parlato di generazioni dove c’è stata la non-applicazione dei valori cristiani, che ha portato a guerre globali anche fratricide.
                  Non mi sembra quindi che l’aver interrotto lo stile di vita delle prime comunità abbia dato degli effetti mirabolanti.
                  Solo 2 persone su 9 , al mondo , sono cattoliche. E di questi , come hai detto tu, i tiepidi sono l stragrande maggioranza.
                  Chi può dire che invece proseguendo quello stile di vita delle prime comunità , i risultati non sarebbero stati migliori. Non possiamo prendere le lettere di Paolo come a »parola del Signore » ed il suo stile di vita come se fosse fidel castro. C’è bisogno di equibrio dei giudizi.

                • Con dei “se” e dei “ma” si potrebbe racchiudere Parigi in una bottiglia.
                  In Pace

                • Sante parole. Ma vanno applicate sempre , non solo quando conviene.

                • Ha ha! Ma certamente almeno quando conviene! 😉
                  In Pace

                • Farlo soprattutto quando conviene è un atteggiamento pagano,, seppur diffuso. La vera differenza i cristiani la fanno con le parole , opere , non omissioni ed (anche) i pensieri. Pensar male non è cristiano anche quando ci si prende. Se poi non ci si prende nemmeno allora diventa diabolico 🙂

                • Qui nessuno pensa male.
                  A parte tu, che pensi male di quel che pensiamo.
                  In Pace

      • Domande lecite a cui Stark cercò spesso di rispondere meglio che potè. Consiglio questo libro https://amzn.to/3vsjnHg oppure questo https://amzn.to/3WS25yO
        Qui una recensione “interessata”, diciamo cosi, ciao
        https://www.uccronline.it/2012/11/17/nuovo-libro-di-rodney-stark-il-trionfo-del-cristianesimo-e-il-motivo-del-suo-successo/

        • Peraltro bisogna ricordarsi che il messaggio cristiano non è né politico, né economico, né, strictu sensu, culturale, ma è il doveroso perdurare di quell’Evento che è la Morte e Resurrezione, unica nella storia, di Cristo come perfetto Sacrificio al Padre.
          Niente nella dottrina di Cristo si riferisce a comportamenti politici, economici, culturali da seguire in quanto tali, Egli Re, non lo è di questo mondo e questa è la Verità della Sua Persona.
          È nel sacerdozio e nel culto al Padre che si risolve la Sua e la nostra traiettoria.
          Il di più sono costrutti ideologici, essenzialmente creati di sana pianta dall'”Illuminismo” in qua.
          In Pace

          • Vero, ma quando l’uomo (per)segue la Verità, la bellezza del creatore, (o si lascia “trasportare” da essa), segue soprattutto la sua Natura di creatura e quindi i frutti che ne conseguono sono altissimi, in ogni campo. Questo per lo meno è la prerogativa filosofica implicita forte che muove studiosi di scienze più particolari e epistemologicamente deboli come la sociologia o l’analisi storico politica di Stark e simili. Io, quanto meno, le ho sempre trovato interessanti per questa premessa implicita.

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