Sofia Vanni Rovighi – Dal divenire la contingenza, dalla contingenza… Dio.

“Conviene guardare a quel divenire che siamo noi stessi, perché il nostro divenire lo possiamo toccar meglio con mano; possiamo ritenere illusorio il divenire delle cose esterne a noi, ma non possiamo ritenere illusorio il nostro divenire, non fosse altro quel divenire che consiste nell’illuderci e nel diventar poi consapevoli dell’illusione. Io sono oggi come non ero ieri e sarò domani come non sono oggi. Quel che sono oggi non mi apparteneva ieri, e non mi appartiene ancora quel che sarò domani; se mi appartenesse, il domani, dico il mio domani, dipenderebbe da me; e invece non dipende da me: non so come sarà, non so neppure se sarà. Donde viene, dunque, questa nuova fase, questa nuova attuazione del mio essere ? Non dal nulla, perché il nulla non è, e quindi non può dare né far nulla. Per affermare che il nulla crei qualche cosa bisogna aver rinunciato al principio di contraddizione, e quando si è rinunciato a tale principio non si può più affermar nulla. Mi verrà dunque da qualche cosa, da un altro. Ma se questo altro fosse a sua volta in divenire, porterebbe in sé la medesima contraddizione da sanare, il medesimo problema da risolvere. Se debbo uscire da me, diveniente, per trovare la ragion d’essere del mio divenire, non posso fermarmi finché non abbia trovato una realtà che non porti più in sé una contraddizione da sanare, che non abbia bisogno di un altro per essere, ma sia autosufficiente e quindi, indivenibile.”

Vanni Rovighi, SofiaElementi di filosofia volume 2, La Scuola, 1964, pag. 132



Categories: Aforismi, Filosofia, teologia e apologetica

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8 replies

  1. Una riproposizione esistenziale del classico problema del cambiamento. L’incudine di Parmenide e il martello di Eraclito. L’essere è immutabile o l’essere scorre? Se fissiamo lo sguardo sull’Essere è come guardare direttamente il sole, ci acceca. Saggiamente Sofia ci ricorda di guardare noi stessi,prendere coscienza, prendere cognizione del nostro cambiare, accorgendosi che il cambiare è una dinamica possibile solo se c’è qualcosa che persiste (esiste per?) nel cambiare.

    • Esattamente.

    • Beh, appunto ..è il nostro “io” che non cambia e ch eci permette di osservare i cambiamenti.
      Se il nostro “io” cambiasse allora non sapremmo che ci sono cambiamenti, perché cambieremmo assieme e non avremmo la possibilità di osservarlo.

      In Pace

      • Si, è una meravigliosa banalità ma, paradossalmente, è quello che la filosofia “divulgata”, per non parlare di certe posizioni scientiste passate per scientifiche, nega. L’io è ridotto a un epifenomeno, nel migliore dei casi è trasfuso in una non meglio precisata “psiche”, in ogni caso è sempre un fenomeno mai una cosa in sè. Fino a negare, anzi ignorare l’evidenza dell’agere sequitur esse.

    • A ciò aggiungerei che tra Parmenide (la stabilità del mio io che non cambia) e Eraclito (il fatto che tutti gli esseri finiti sono composti di atto e potenza) il legame è un semplice epifenomeno inesistente in sé e di per sé e solo percepito in quanto tale dall'”io” che osserva dalla sua intrinseca stabilità il cambiare da potenza ad atto degli esseri finiti: il tempo.

      In Pace

  2. Eppure sono io, da sempre, ora e per sempre….
    In Pace

  3. Più rileggo il testo della Vannini più esso mi disturba, devo ammetterlo.
    Infatti, il mio io è perfettamente stabile: sono lo stesso di quando avevo 3 anni, 20 anni, 50 anni: questa frase « o sono oggi come non ero ieri e sarò domani come non sono oggi« , non si riferisce ad « io » in quanto realtà ontologica, dalla quale non mi distacco mai, ma al mio « Io » in quanto entità psicologica, il cui percepito cambiamento temporale è, esso sì, epifenomenico.
    Sò che io sono e io sono quel che sò: l’essere che sa di essere e che è saper essere è proprio la definizione di « io » nel senso il più ontologico che sia. Non è che c’è un divenire alcuno in questo atto: non c’è evoluzione, è una certezza assoluta nel momento stesso in cui si attua per chi lo attua. Non c’è nessuna composizione o possibile partizione in questo pormi: il mio « Io » è quindi indistruttibile, immortale in quanto insecabile.
    Quel che mi è disturbante in questo testo è che sembra esserci come un mescolarsi della certezza assoluta della propria esistenza, che è eminentemente a-temporale, e di una ricerca di oggettività quando si pretende osservare il propio divenire, cioè i propri passaggi dalla potenza all’atto come se fossero osservati da terzi nel quadro dell’epifenomeno temporale.
    Orbene sè è assolutamente sicuro che io sono ontologicamente, è altrettanto incerto che il mio divenire oggettivo, cioè osservato da me E da terzi, corrisponda al mio io in quanto tale, in quanto quest’ultima è conoscenza mediata (da altri), mentre la prima è immediata. Sul piano della conoscenza oggettiva il mio io è perfettamente circostanziale e potrebbe benissimo non essere, mentre sul mio piano ontologico che conosco in prima persona, sò perfettamente che non posso non essere.
    La Vannini sente il bisogno di « uscire da sé per trovare ragione del suo divenire » ed in questo ha ragione:il divenire del proprio io è osservabile solo da un punto di vista oggettivo, ma non è fondato su nessuna certezza immediata. Questa contraddizione che lei chiama « insanabile » proviene solamente dalla natura corrotta dal peccato originale persa nella sua percezione epifenomenica e temporale della realtà. La conoscenza oggettiva e al contempo assolutamente certa è possibile solamente per chi « vedesse » se stesso con gli occhi di Dio.
    L’io è già « indivenibile e autosufficiente » per via della sua ontologica semplicità: di per sé non ha nessun « bisogno » di Dio. In questo senso l’ »io » di Lucifero non vive nessuna incoerenza sul piano ontologico: è sufficiente a se stesso.
    L’esistenza di Dio non potrà mai essere l’oggetto della stessa certezza che abbiamo dell’esistenza del nostro io (salvo se Lui ci dà di far parte della Sua esperienza di Sé stesso, ovviamente). Però possiamo provare che Egli sia « oggettivamente » necessario senza provarne nessuna certezza: l’oggettivo non è mai certo. Quindi non concordo più di tanto con l’affermazione della Vannini che « non posso fermarmi finché non abbia trovato una realtà che non porti più in sé una contraddizione da sanare, che non abbia bisogno di un altro per essere, ma sia autosufficiente e quindi, indivenibile« : non ne avrà mai la certezza ma solamente l’oggettiva conoscenza.
    In Pace

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