La Famiglia Shtisel: Identità Accattivante

La colpa è tutta di Minstrel. Mi ha detto: “guarda questa serie e dimmi cosa ne pensi”. Una serie su Netflix? Figuriamoci, il media il più propagandista di tutte le deviazioni umane… Ma mi sono fidato, complice l’amicizia e la reciproca conoscenza, e ho iniziato questa serie – davvero unica – che racconta la vita quotidiana di una famiglia di Haredim, Ultra-Ortodossi, che vivono a Gerusalemme.

Durante la visione mi è capitato spesso di parlarne in privato con Minstrel stesso, cercando dei paralleli con le nostre famiglie e con il nostro essere cattolici. Alla fine abbiamo deciso di proporre anche sul blog il risultato di queste nostre brevi, ma intense, riflessioni private. Buona lettura.

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Sono quattro le generazioni trattate nel plot della serie: dalla bisnonna ai suoi pronipoti. Due i personaggi centrali, che si stagliano fra i tanti: il truculento patriarca Shulem e l’estroso beniamino di una fratria di sei figli, ottimo artista, Akiva, soprannominato Kive.

Tre stagioni per un totale di 33 episodi che tengono gli spettatori avvinghiati agli avvenimenti e alle circostanze che vive questa questa famiglia nella quale si riconosce, senza alcuna difficoltà, una vera e propria metafora archetipale delle nostre piccole e grandi realtà umane.

Non ci sono crimini da risolvere e cattivi da identificare, non c’è violenza gratuita per provare brividi sensazionali, non c’è lussuria per fare i voyeurs a buon mercato, non ci sono super-eroi per evadere dalla realtà; per questo (e non a suo dispetto) la serie è interessantissima! Non solo, essa opera una sorta di catarsi, ci fa cioè sentire migliori, all’unisono con una realtà umanamente vissuta con decenza, nel rispetto di Dio, all’interno di una propria identità vissuta come strumento di felicità umana e non come peso logorante.

Questa è la chiave di volta di questa finzione televisiva: l’identità. E la scelta degli sceneggiatori è perfetta poiché l’identità è proprio la chiave di questa comunità che da sola rappresenta il 15% della popolazione israeliana. Discendenti diretti degli askenasi che già abitarono quella parte della Palestina chiamata Yishuv, ben prima della formazione dello stato di Israele nel 1948, gli Haredim vivono in uno Stato sionista che essi non riconoscono, ma dal quale vengono sovvenzionati.

Grazie a “Shtisel” siamo catapultati nella loro “straordinaria” dimensione umana, cosi lontana dagli accenti iperproduttivi orientali e dalle sciocche istanze pseudogiuridiche occidentali. Fin dalla prima inquadratura ci ritroviamo in un vero e proprio ghetto nel quale questi Ierosolomitani vivono, per proprio volere, gran parte del loro tempo. I quartieri come quello di Mea She’arim, dove vivono i protagonisti, sono infatti un ghetto geografico, ma anche sociale e culturale. In essi gli uomini non lavorano in senso classico, non producono, ma vivono solo per studiare la Thora, la Mishna, il Talmud e altri libri di commenti nelle scuole da loro gestite. Tocca quindi alle donne accudire i numerosi figli, gestire le limitate finanze familiari, avere una patente per guidare le poche macchine a disposizione e, se serve, lavorare concretamente. Le donne sono coloro che portano i soldi in casa e questo spesso porta anche tensioni concrete in una società patriarcale in quanto, si sa, chi paga comanda.

All’interno di questo contesto generale, della realtà cioè che caratterizza l’identità di questo popolo (e quindi dei nostri protagonisti), il filo conduttore di tutte le tre stagioni è la loro relazione a Dio, cioè il modo in cui la realtà divina si intreccia felicemente con quella umana.

In questo contesto a dir poco “straordinario” per noi occidentali, si stagliano – si accennava prima – delle figure iconiche, sfaccettate, reali. In ogni character si troveranno mescolate insieme molte caratteristiche dell’animo umano, senza generalizzazioni di bassa lega o forzature. Gli avvenimenti difficili della vita, siano essi “simpatici” (come la moglie che dimentica il marito in macchina sotto il sole cocente mentre va al lavoro) che tragici (le morti non mancheranno), metteranno i protagonisti di fronte a scelte che ne chiariranno sempre più il carattere peculiare, senza mai perdere la consapevolezza – anche essa tragica – della necessità di mantenere l’identità e perseguire la volontà della “Parola di Dio”.

La cosa per altro è davvero disorientante per noi abituati ai supereroi americani: gli avvenimenti narrati sono davvero di per sé banali, non di rado ci è capitato di sentire conoscenti dire che sembra “un meraviglioso e coinvolgente Beautiful“. E il fatto di non riuscire come occidentali ad esprimere un parere preciso (e confortante) è forse la prima grande caratteristica che ci deve spingere a vedere questo capolavoro israeliano contemporaneo.

Attraverso una narrazione unica nel panorama odierno, ogni figura diviene titanica, gigantesca, acquisendo caratteristiche ben superiori a quelle che siamo abituati nelle serie TV moderne: ogni evento, riletto nella prospettiva di identità e ricerca di Dio, diventa pertanto, in un certo senso, umanamente identitario e fatalmente divino.

E’ per questo che i personaggi diventano in pochissimo tempo cosi cari, cosi intimi, cosi veri. Nella loro quotidianità, intrisa di identità e abbandono al Dio di Israele, ogni minima azione diventa meraviglioso ringraziamento (ogni sorso d’acqua è accompagnato da una lode!) e coraggiosa consapevolezza di essere creature nelle mani di Dio. Ogni decisione, ogni azione, diviene pertanto enorme, quasi eroica: dall’entrare in una porta baciando la Mezuzah, al decidere se rischiare la propria vita affidandosi alla sorte, tutto in Shtisel è immenso, come solo una vita totalmente realista e totalmente affidata a chi la realtà l’ha creata sa essere.

Ci concediamo dei piccolissimi spoiler, per esemplificare come sia facile innamorarsi dei personaggi, anche quelli di contorno.
Basta, ad esempio, una sola occhiata agli occhi lucidi della madre Giti Weiss – intenta sia a salvare la famiglia dalla povertà, dopo l’abbandono del marito scappato all’estero, sia al contempo a non rovinare la reputazione del marito stesso, non parlando a nessuno della sua condizione – mentre piange da sola, senza far rumore, nel suo letto.
Basta il comportamento quasi infantile del patriarca Shulem che tenta di essere ad ogni costo “padre ed educatore”, come la sua segretaria lo ha definito un giorno, cercando nello stesso giorno i figli e quasi “implorando” loro di aprirsi a lui, confidandogli i loro problemi.
E basterà il modo in cui egli, nella stessa puntata, capirà che questo atteggiamento da un lato era infantile e dall’altro lo ha smosso da una modalità egoistica antieducativa, portandolo ad accorgersi di precise problematiche e ad agire paternamente per delle belle soluzioni.
Bastano gli occhi curiosi e sempre un pò confusi del protagonista Akiva, cosi desideroso di gettarsi nella mischia della vita come i suoi fratelli e sorelle e insieme cosi testardamente spaventato. Basta il sentirlo ancora un bambino orfano di madre per sentircelo vicino e insieme per rimproverargli la codardia. Come basta osservare un suo dipinto per comprenderne il talento e insieme la difficoltà di vivere in un mondo dove non solo non c’è cultura artistica dell’immagine, ma la stessa anzi viene osteggiata.
Bastano le spalle di una felice Ruchama Weiss che si allontana, leggera come solo le ragazzine sanno essere, dopo aver lasciato anonimamente un poco da mangiare (preparato con le sue mani) ad un giovane studioso di Torah di cui lei si è innocentemente innamorata.
O le lacrime finali – amare, decisive, liberatorie – di uno strepitoso Lippe Weiss, il marito di Giti.

Tutto in Shtisel diviene smisurato poiché ogni vita narrata è unica nel suo richiamare costantemente, ognuno nel suo proprio modo e con la sua propria virtù, l’identità della tradizione, le radici dei Padri appunto, e la Parola performatrice, il Dabar, di YHWH.

Tutto in Shtisel diviene Assoluto poiché in ogni fotogramma appare chiaro come l’intento sia chiarire che nei protagonisti tutto è benedizione, tutto è Baruch Hashem.

È l’identità che salva! Questa realtà giubilatoria, che le nostre società vogliono cancellare, è l’unica cosa che salva l’uomo; “Shtisel” non fa che ripeterlo ad ogni fotogramma. Tutti sappiamo che è nella realizzazione di chi siamo davvero che troviamo il cammino verso la felicità: la stessa piramide di Maslow ci indica come la nostra realizzazione non sia che l’apice della nostra motivazione economica e sociale: eppure, malgrado quest’evidenza, siamo martellati da messaggi contrari, i quali – opponendosi al buon senso – dichiarano che ogni differenza (di genere, di religione, di cultura ecc) deve essere cancellata in nome di un fraintendimento della nozione di convivenza pacifica e per conto di chi potrà giocare piacevolmente con una docile melassa indistinta. L’acqua, si sa, prende sempre la forma del recipiente in cui si mette…

Ebbene, nella famiglia Shisel tutte le esperienze umane sono descritte in modo totalmente opposto, una vera boccata di aria fresca.

Come tanti piccoli quadri di un artista ortodosso, esse si distribuiscono su più episodi a volte anche a sé stanti. Ognuno di questo quadretti può apparire felice, triste, intrigante o ovvio, da prendere alla lettera o in un secondo grado leggermente autoironico come solo lo humour ebreo è capace, ma la soluzione delle vicende si ritrova sempre nella realizzazione della propria identità. Lo stesso Akiva, da artista che potrebbe sembrare oppresso dalla cultura ultra-ortodossa, non fugge dalla sua comunità, ma passa, in modo mirabile da una prima ottima stagione ad una terza strepitosa, in un percorso tesi, antitesi, sintesi che lo porterà ad essere pienamente se stesso, realizzando, alla lunga, la sua propria identità personale, umana, culturale e religiosa.

A prima vista la serie potrebbe dare l’impressione di una relazione con Dio un po’ troppo “farisaica”, nell’accezione negativa che diamo superficialmente noi cattolici. Questo a causa del suo aspetto a volte un po` troppo formale della ritualità quotidiana e quindi dal carattere apparentemente impersonale del Dio pregato. Soprattutto durante la prima stagione. Ma nella sua mirabile scrittura, la serie nel tempo cresce anche sotto questo aspetto; come una piccola Bibbia, essa impara episodio dopo episodio come meglio narrarsi, e nella seconda, terza stagione, vediamo le giovani generazioni alle prese con una relazione con il loro Dio più personale, vigorosa, vitale, che alla fine coinvolge tutta la famiglia, dimostrando nei fatti quanto sia proprio quest’identità specifica ad aprire loro la via al pentimento e alla redenzione, alla morte e alla vita che si rinnova. In una parola: alla felicità.

Noi, da blog, non diciamo “cattolico” in quanto non rappresentiamo la Chiesa cattolica, ma “di cattolici” (cioè persone che si identificano all’insegnamento della Chiesa come proclamato nel nostro “Credo”), riteniamo che la questione dell’identità sia centrale e ci interpelli enormemente, diremmo addirittura “con passione”.

Questi ebrei ultra-ortodossi, pur essendo quel che sono, che siano tristi o gioiosi, confusi o decisi, in buona o in cattiva salute, ricchi o affamati, ai nostri poveri occhi appaiono sempre felici, perché esercitano la loro propria identità con una preghiera costante, una benedizione di Dio sempre rinnovata, usando una serie di tecniche millenarie per ricordarsi le promesse di Dio ed il proprio dovere di adorazione e di benedizione dell’Altissimo. E non di rado potremmo sentire sorgere in noi un moto di strana invidia nei confronti del loro modo di vivere, delle loro tradizioni, della loro prospettiva, della loro fede.

Come se a noi mancasse modalità, tradizione, prospettiva, fede. Ma è davvero cosi? Davvero la modalità del catechismo, la tradizione bimillenaria, la prospettiva di essere divinizzati, la fede in un Dio che è creatore e abba allo stesso tempo, è poca cosa?

Non chiediamoci quanto ci hanno derubato di questa modalità, tradizione, prospettiva, fede. Chiediamoci piuttosto quanto abbiamo dimenticato di quel poco che ci hanno insegnato e trasmesso!

Quanto siamo gioiosi nell’esercizio della nostra bimillenaria identità? Quanto regolarmente e assiduamente recitiamo giaculatorie, quanto apprezziamo la celebrazione dei Quator Tempora del rito antico, quanto leggiamo la Bibbia ed il Catechismo per assimilarli per davvero, quanto giriamo intorno a Dio affinché Dio possa impregnarci del suo essere?

In un momento davvero epico, un giovane ed eroico protagonista della serie pone al Rabbino della Yechiva che frequenta una domanda di direzione spirituale in un contesto umanamente diffcilissimo. Il Rabbino, per altro con un tono che ai nostri occhi può quasi sembrare menefreghista, semplicemente risponde “tu vivi cosi tanto intensamente la Thora che la decisione finale che prenderai, sarà quella della Thora“.

Quanto ci identifichiamo al Cristo stesso al punto che le nostre decisioni sarebbero quelle del Cristo stesso? Quanto lavoriamo su questa identificazione nel concreto della nostra vita quotidiana?

Questo ci ha lasciato la serie: un forte desiderio di identità, di voler riscoprire la modalità cattolica, tradizione cristiana, la prospettiva salvifica, la fede. Perché dal confronto con la saldezza della nostra identità si può continuamente trovare nuova acqua da cui attingere e bere nel nostro percorso di virtù.

Essere quindi un identitario, uno che si identifica concretamente, come un ebreo ultra-ortodosso, alla הלכה, alla Halakha, alla Via stretta (beninteso), alla Vita e alla Verità: al Cristo stesso.

Auguriamo a tutti una trentina di ore di divertimento profondo e preghiamo affinché possiate trovare, come alla fine della serie, medesima redenzione, felicità, compimento, vita.

Baruch Hashem. In Pace.

((Scritto a quattro mani da Simon et da Minstrel))



Categories: Sproloqui

7 replies

  1. È la conferma che la libertà di espressione promossa da Netflix è un valore che può.essere utilizzato da tutti, perche’ la libertà è una opportunità.
    Il problema, per gli artisti ed autori cattolici è fare serie o film di qualità cinematografica elevata e non opere noiosamente didattiche destinate a non essere viste neppure da chi le condivide.

    • Non è strano che sia stato possibile farlo per degli ebrei ( aspetto negativo ) e non è strano che si potesse farlo solo di loro ( aspetto positivo ).

      Concretamente ho la massima stima per gli haredim e sono convinto che alcuni mali del cristianesimo siano nell’aver dimenticato la radice ebraica, il che non vuol significare che il rabbinismo odierno non sia coevo del cristianesimo.

      Grazie del consiglio

      • Gli ebrei sono, tra tutte le religioni , quelli che più cinematograficamente si prendono in giro. A partire dai fratelli Cohen fino a Woody Allen sono decine i film che trattano la vita da ebreo con ironia ma allo stesso rispetto. Una ironia che manca totalmente agli autori cattolici.

  2. Grazie davvero. Dopo avervi letto ho cominciato a guardare la serie e mi ci sono appassionato. Davvero sono tutti personaggi giganteschi eppure umanamente umili.I luoghi dove abitano sono modesti. Mi ha fatto venire in mente la strana sensazione che ebbi quando visitando i luoghi santi della Palestina , in particolare la grotta dell’Annunciazione a Nazareth , ero colpito da questo pensiero Come e’tutto piccolo,umile non grandioso. Eppure da questi luoghi minimi, da uomini e donne minime quanta grandiosa storia si e’sprigionata.

  3. Dovrò andare a guardarla… 😉 (per inciso, ho grande ammirazione per la Cultura, la Religiosità e la Storia Ebraica, per il sue essere in qualche modo humus se non radice, dello stesso Cristianesimo).

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