Pape Satàn Aleppe. Sugli inganni satanici dell’arte contemporanea (e su come ingannarla)

Behausung di Romana-Menze-Kuhn. Gettata (per sbaglio?) nella spazzatura nel 2016

“il titolo sarà “Pape Satán Aleppe”,
citazione evidentemente dantesca
che non vuole dire niente e dunque
abbastanza “liquida” per caratterizzare
la confusione dei nostri tempi.”
(Umberto Eco, Pape Satàn Aleppe.
Cronache di una società liquida
)

Complice la lettura del bel libro “Ars Attack, il bluff del contemporaneo” del critico Angelo Crespi, ho passato giorni ad approfondire la questione artistica nel mondo occidentale contemporaneo. Ritengo ne siano usciti argomenti interessanti, anche per i lettori di questo blog.

L’idea generale del libro è semplice: l’arte contemporanea non è morta, è nata morta: “Oggi niente ha più senso se non il marchio di fabbrica dell’artista che genera, al di là del risultato”. L’artista sta all’arte come il melo alle mele. Non esiste l’opera, esiste la star che produce una qualsiasi opera (fisica o virtuale) che un mercato (chiamato “dell’arte”) considera “arte”, obbedendo al cieco verbo della produzione e del guadagno. Una tautologia.

Chiunque abbia a cuore la ricerca dell’uno, del vero, del bello, (quindi) del reale, non credo si scandalizzi per questa banale affermazione. Eppure tanto banale non suona ai soloni di oggi che la tacciano da sempre come ignorante eresia. Non potrebbe essere altrimenti: “non esistono elementi critici interni al sistema in grado di giustapporsi al linguaggio tecnico che lo giustifica e sostiene”. Come ogni tautologia che si rispetti, queste inutili e risibili urla, dimostrano palesemente il corto circuito appena denunciato.

Questo non vieta a coloro che (sopra)vivono all’esterno di questa macchina da soldi un tentativo di critica dettagliato, nonché la proposta di nuovi linguaggi. Lo stesso autore elenca le discipline critiche che potrebbero aiutare i novelli inquisitori: estetica, etica, teologia. Come dicevamo qualsiasi critica risulta inaccettabile per il sistema mercantile artistico autoreferenziale di oggi, figuriamoci queste tre contro le quali il sistema stesso è nato: “le critiche della prima, come si sa, sono escluse a priori non essendo previsto un approccio estetico all’arte concettuale; le critiche della seconda vengono bollate come frutto di ira e incomprensione da parte di chi le mette in campo; le critiche della terza sono derise come pretenziose e fuori tempo”.

Dunque in una società nella quale in massima parte non esiste più alcun concetto del bello, nessun valore oggettivo da perseguire e nella quale si vive Etsi Deus non daretur, si difende l’“arte” anti-estetica, anti-etica, a-tea.

È la dicotomia che si presenta a chiunque rifletta sul tema oggi: l’arte contemporanea occidentale riflette senza fallo, perfettamente, la società contemporanea occidentale incarnandone, in un meltig pot di idee pseudo innovative desacralizzanti, tutto ciò che di satanico essa contiene: nichilismo estremo, scientismo allucinato, delirio relativista, strapotere neoliberista.

È lampante che la narrazione più apodittica di una società narcisistica, morta da decenni ed in putrefazione, sia compiuta da manufatti di necrofila sovraesposti, soggetti essi stessi alla putrefazione.
Al contempo è altrettanto chiaro che il presunto valore di illustrare banalmente il nulla col nulla, la morte con la morte (ah, che grande genio…), acquista valore solo e soltanto perché (r)esiste un’idea di bello, di infinito, di vero in coloro che sono chiamati a fruire di tali presunti “capolavori”.

A pensare ottimisticamente infatti l’unica possibile qualità attribuibile a questa spazzatura, al di là della speculazione finanziaria, deriva soltanto dal valore di quello che non mostrano, cioè di quel che vorrebbero mettere in discussione. Dice bene il Crespi: “come dei parassiti, vivono di quello che attaccano”. E se da un lato, come tutti i parassiti, risulta necessario che essi non uccidano del tutto il corpo che attaccano per non morirne, dall’altro è necessario che il corpo non si accorga di essere infestato da un parassita e l’unico modo è far pensare che si celi, per contrasto, della vita (della bellezza) nel parassita stesso. Ingannarlo.

Una riflessione teologica aiuterà a comprendere: il male in quanto tale, insegna Sant’Agostino, è sempre relativo ad un bene che risulta assente in un momento dato. L’arte concettuale contemporanea, inutile girarci intorno, è sotto questo profilo male oggettivo, colpisce l’astante come una brutta notizia colpisce un malcapitato, cioè solo e soltanto perché carente del bene che vorrebbe citare o criticare. L’arte provoca e colpisce soltanto perché dimostra in modo estremo la presenza del bene, “mostrandone” l’assenza nel suo nulla maligno.

Molta arte contemporanea è quindi, sotto questo aspetto parassitario, teologicamente perfettamente satanica.

Questa consapevolezza già ci conduce ad una prima riflessione che dovrebbe apparire oggettiva: un oggetto/simbolo/performance che pretenderebbe di richiamare a valori benevoli per antitesi è un parassita degli stessi; l’unica cosa che potrebbe dimostrare è la plastica esistenza del bene lì assente e lo fa in modo sterile.

Non vorrei passasse l’idea che si stia difendendo il sistema finora attaccato. Pur riconoscendo che il concetto stesso di “arte” sia sfuggevole e labile nel tempo, nessuno che si dice realista può negare questa ovvia affermazione: un parassita resta un parassita. Pertanto, come con un parassita si usa prevenzione e si tenta l’allontanamento, la cura, l’eliminazione, così deve essere il sentire di un uomo di fronte ad un opera parassitaria di un suo simile: va allontanata per prevenzione, curata per pietà, sconfitta per lucidità e, se sotto nostra responsabilità (ad esempio si è critici o artisti o mecenati), eliminata per un ritorno all’umano. O forse no? Se non fosse, allora nasce una semplice costatazione: se davvero l’arte di oggi è considerabile un parassita per i motivi citati, a chi non importa vivere con un parassita in corpo? Le risposte non sono molte: un pazzo? Un morto? Il parassita stesso? Resta una buona domanda derivante dalle premesse, tale la lasciamo.

Questa dunque è una chiamata alle armi? Non lo è, per lo meno non in senso pieno: non si sta dicendo di distruggere presunte opere d’arte con azioni illecite (o buttarle via per sbaglio). Non solo perché potrebbe succedere che successivamente tali azioni potrebbero essere definite “artistiche” (ridete, ridete, intanto ci sono operatori ecologici senza agganci nel mercato che hanno pagato fio, ma altri hanno tentato di cavalcare l’onda), ma ovviamente perché non si combatte il male col male.

Lo scritto è allora una esortazione ad abbandonare ogni esternazione di violenza presente in un qualsiasi prodotto della società di oggi? Nemmeno. Uno degli articoli ad oggi più letto del blog è quello dedicato all’analisi metafisica di un capolavoro seriale: la prima stagione di True detective. Migliaia di persone potrebbero quindi elevare la giusta critica: se l’arte deve essere sempre tesi e mai antitesi, perché questa serie tv è tacciata da te come capolavoro? Rispondo step by step. Innanzitutto chiariamo che le serie tv non sono considerate arte dai soloni dell’arte, ma dal sottoscritto e non solo per estensione semantica: “”Se uno fa un video bene con un inizio e una fine, magari una storia, è chiaro, fa del cinema o un documentario. Se lo gira male, trasmettendo immagini a caso, magari prese da una telecamera montata su uno skateboard, allora, siatene certi, sta facendo arte” (Crespi). Pertanto potrei rispondere che non essendo arte per chi parla di arte, la domanda non è pertinente. E sarei un sofista. E allora chiudo dicendo che la serie tv in questione – per seguire l’esempio – non procede solo per antitesi, ma sul finale dimostra (con le lacrime del protagonista) proprio la presenza del bene mai rappresentato durante le puntate precedenti. C’è moltissima antitesi e grazie a questa la presentazione della tesi (esistente!) è ancora più forte. Nulla di tutto questo ho mai trovato in un Hirst basato totalmente sull’assenza di tesi.

Torniamo alla Dicotomia: l’arte “satanica”, si diceva, “non è”, per questo risulta perfetta per il nulla odierno. Prevengo un’altra domanda: l’oggi dunque è perfettamente inquadrabile nel satanico? Si, ma – attenzione – solo nei suoi aspetti satanici, che non sono la totalità dell’esperienza contemporanea. L’uomo e il mondo sono da sempre sotto il giogo del peccato originale, pertanto non cadiamo preda di facili apocalismi. Fa impressione – questo si – che venga considerata arte (quasi solo) quella che fa rima con il malefico: sesso sparato in faccia e blasfemia estrema, scatologia e coprofilia, zoofilia e altre manifestazioni d’odio. Fa riflettere.

Soprattutto se si pensa che in realtà la più facile provocazione possibile (e forse davvero quella più scandalosa) non sia mai stata fatta…

I più subdoli infatti si chiedono spesso perché non si sia mai pensato di fare “arte” colpendo nelle consuete modalità viscide e sfacciate lo stesso mondo artistico. Qualcuno ha mai visto esposte copie di artisti ad oggi più in voga, magari rappresentati come anziani malatissimi nell’atto di essere puliti in bagno da una flaccida infermiera scontrosa? Non sarebbe una splendida riflessione sul tempo, la caducità umana e la fragilità di coloro che oggi sono lo star system artistico? Ah no? Ma il  “vero compito della creazione artistica” odierna non consisterebbe “nello sfidare le illusioni confortanti e mostrare la vita così com’è” (come ironizza Roger Scruton)? Avrò capito male.
Oppure qualcuno ha mai pensato ad una scultura che rappresenti un critico famoso nudo nell’atto di frustare un curatore famoso nudo che frusta un collezionista famoso nudo che frusta un artista famoso nudo che frusta il primo critico citato, in un loop che rappresenti la tautologia del mercato di oggi? Ah no? Ma è mai possibile che a tali (banali) provocazioni non ci sia ancora arrivato nessuno? Non voglio crederci; sarà certamente una mia ignoranza o perché sono idee più banali del dito medio a Piazza Affari, non certo il fatto che anche in questo sistema “cane non mangia cane”.

Per altro, se esistessero, non cambierebbero di una virgola il discorso finora fatto: sarebbero pessime antitesi sataniche.

Queste ultime considerazioni, insieme a quella – altrettanto lucidamente ovvia – che l’arte contemporanea è contemporanea a sé stessa da troppo tempo (“per la prima volta nella storia si è sedimentata la categoria del “contemporaneo” che dura ormai da mezzo secolo e di cui non si prevedono i limiti, che impone un’adesione ideologica al presente istantaneo”), può aiutare a comprendere come essa sia nulla come ricerca, tutto come sistema: “l’arte, un tempo luogo del meraviglioso, è oggi, al massimo, smalto sul nulla. Che essa dopo un secolo di nonsense indugi ancora nella provocazione è la prova della sua attuale impotenza. Anzi della sua schiavitù al nulla. L’artista è il sociologo che sfrutta le debolezze del sistema, il pubblicitario che lucra sulle manie dei consumatori, è un ingranaggio funzionale al grande meccanismo della distruzione”. (Crespi)

Ma come questo “smalto sul nulla” sarebbe illustrazione del nichilismo, dello scientismo, del relativismo imperanti? È la conclusione ovvia delle premesse finora date.

Sul nichilismo credo sia chiaro: la voluta assenza di princìpi estetici (nessuna estetica), l’impossibilità di fondare valori (nessuna etica) e l’ateismo implicito (nessuna deità) è la precisa rappresentazione della posizione filosofica che concepisce la realtà nella sua nullità, senza valori etici, senza credenze religiose, senza verità, senza esistenza. Poeticamente parlando (astenersi neoparmenidei alla Severino) il concettuale è nato rinunciando al tutto per pretendere di richiamare il tutto dal suo nulla. Il perfetto nichilista in fondo vive per poter criticare colui che con il suo antinichilismo gli permette di sentirsi critico (e quindi vivo). Un simile “smalto sul nulla” non è nemmeno rimproverabile o esecrabile, muove piuttosto la sensazione di disgusto pietoso e spaventato che prende Dante negli ultimi gironi infernali. Scomparsa l’umana pietade verso Paolo e Francesca, rimane la fastidiosa sensazione di dover forzatamente passare dal Cocito per andarsene finalmente (e per sempre) dall’inferno. Quasi una perdita di tempo che nulla insegna se non il pentirsi di non saper sempre contemplare – per contrasto – la bellezza di quelle stelle che chiuderanno le tre cantiche dantesche.

Sullo scientismo è il Crespi stesso che approfondisce, chiarendo come uno “sintomi del nichilismo più manifesto” sia “il tratto della riduzione”. E il riduzionismo, lo sappiamo, è una delle pecche nel metodo scientifico che lo trasforma in un antimetodo scientista. Così è l’arte, la quale pretende presunta scientificità poiché “per i suoi strenui sostenitori sarebbe una “macchina di comprensione del mondo” e, al pari della scoperta scientifica, essa non può che approssimarsi alla verità delle cose in modo sempre più preciso, affinando via via i propri strumenti di indagine”. In un delirio di continentalismo kantiano progressista, si avanza di opera in opera, di spazzatura in spazzatura, riducendo l’analisi artistica all’unica prospettiva satanica del rimando a contrasto, richiamando il bello per assenza mediante l’atroce, rinforzando il sistema che si autoalimenta di continue merde (dette) d’artista. Ma Robert Hughes ci ricorda che l’arte “non progredisce, non trionfa o fallisce alla maniera della scienza sperimentale” bensì ferma l’attimo dell’unico eterno. “Non dimostra cose” bensì mostra la potenza del simbolo e dell’intuizione immediata.

Sul relativismo, infine, faccio mie le parole del filosofo Roger Scruton: “Quanto all’ipotesi che esista una critica in cerca di valori oggettivi e dei monumenti duraturi innalzati dallo spirito umano, viene liquidata senza esitazione come discendente da una concezione dell’opera d’arte che è stata eliminata senza tanti complimenti nello scarico della “fontana” di Duchamp. L’argomentazione è facilmente condivisibile, in quanto dà l’impressione di emancipare le persone dal fardello della cultura, sostenendo che tutti questi venerabili capolavori possono essere impunemente ignorati, che le telenovelas sono “valide” quanto lo è Shakespeare, e che i Radiohead sono al pari di Brahms, dal momento che nulla è meglio di qualsiasi cosa e che tutte le rivendicazioni di valore estetico sono vuote. Dunque l’argomentazione è in sintonia con le forme del relativismo culturale oggi di moda”. Anche in questo campo, vi è in atto una dittatura relativistica che rende impossibile definire la bellezza in modo oggettivo e che scambia “l’oggettività della cosa bella in sé con la soggettività del giudizio di bellezza” (Crespi).

All’interno di questo desertico universo nel quale si innalza ad archetipo edificante il nulla satanico, niente sfugge. Come il nulla della Storia Infinita devasta il regno di Fantàsia e con esso tutte le creature meravigliose e spaventevoli che ivi abitavano, cosi nulla sfugge al nichilismo fatto arte e al suo unico imperativo dittatoriale (degno di ogni relativismo): desacralizzare il sacro. E siamo al tema del blog.

Senza richiamare il solito devasto odierno delle messe rock nelle astronavi o dei crocifissi postpunk, basterebbe capire quanto il cosiddetto “gusto” artistico verso l’eterno sia sempre più inesistente nei fedeli e nelle commissioni artistiche delle istituzioni sacre. Gusto che esiste ancora e sempre esisterà in chi si lascia smuovere dalla tesi e non cerca solo il chiacchiericcio stantio dell’antitesi! Un breve episodio personale. Quando fummo selezionati per un famoso Festival di teatro Sacro italiano, grazie ad una pièce teatrale classica nella forma e centrata nel tema, assistetti ad una scena interessante: mentre una maschera del teatro si lasciava andare a lacrime di commozione a fine della mera presentazione, sentivo la giuria bisbigliare “finalmente, questo ci vuole!”. Lo so che è questo che ci vuole. Il bello è che lo sanno tutti.

Dunque a quali conclusioni si giunge? Ma soprattutto, quali le soluzioni che si potrebbero adottare per contrastare tutto questo?

Primo: non va mai dimenticato in soffitta il proprio diritto di critica. Pur sapendo di non sapere, esso va sempre esercitato senza timori. Cerchiamo di comprendere bene le esplicazioni formali dei critici di un’opera, ma facciamo attenzione di non essere raggirati dalla forma. Spesso dietro ad arzigogoli forbiti si nasconde l’assenza di forma di quello che vanno narrando! È un inganno. L’assenza di “forma”, tipica modalità in cui il male si presenta nel reale, non può essere descritta se non con sofismi che nascondano, dietro ampollose formalità, tale assenza! Come per la filosofia contemporanea più becera, come nella teologia zoppicante dell’#ascoltasifasera, non si abbia paura di apparire semplici ingenui alzando la mano dicendo “lei lo sa che il suo Re è nudo, vero?”.

Secondo, la soluzione agli inganni che ci vengono perpetrati: Realismo. Perché? Rileggiamo lo straordinario Gilson con il suo vademecum: bisogna in primis “rendersi conto che si è sempre stati realisti. Il secondo passo è rendersi conto che, qualunque sforzo si faccia, non si riuscirà mai a pensare in modo diverso. Il terzo passo è prendere atto che tutti quelli che pretendono di pensare in modo diverso si rimettono a pensare da realisti non appena si dimenticano di star recitando una parte. A questo punto, se uno di questi si domanda il perché, la sua conversione è cosa fatta”. Domandiamoci, come Gilson comanda, del perché di questa “arte” e con realismo ci ritroveremo ad accettarla. Con l’accetta, si intende.

Altro consiglio? Perseverare nei primi due consigli. In questo modo si procederà nello studio personale che aiuterà contro chi tenterà di tacciarci d’ignoranza. Ma non solo: si avanzerà nella più generale comprensione ontologica della struttura del reale, contro chi dichiarerà la sua assurda insussistenza. E infine si comprenderà in modo intimo (cioè quasi interiormente emozionale) il linguaggio mitico-simbolico proprio dell’arte, contro chi proporrà la sua continua disgregazione nichilista.

Per altro la comprensione quasi fisica della potenza comunicativa e attrattiva del simbolo aiuterà anche chi, come noi, si ostina in questo mondo a cercare Dio attraverso quelle che potremmo definire (poeticamente) le poetiche dei sacramenti cattolici. Ci farà combattere contro la demitizzazione delle formule, il cui esito non può che essere una riduzione della fede in mitologia, buona solo (forse) per l’esame di antropologia delle religioni.

D’altra parte la stessa demitizzazione nell’arte, ce lo ricorda Stefano Zecchi, “impedisce di beneficiare della forza del simbolo che è, invece, uno degli strumenti dell’arte stessa per gettare ponti tra le cose, collegare l’universale al particolare, creare liaisons tra una cosa presente e una distante, irriducibili poiché nel simbolo si esaltano non la cosa presente o quella assente, bensì l’eterno rimando dell’una all’altra, non il significato o il significante, bensì il presentarsi immediato e simultaneo di entrambi.”

Così la non-arte sacra e la continua demitizzazione di una non-teologia senza estetica ed etica (vi ricorda qualcosa?), impedisce di beneficiare del collegamento dell’Uno con la parte che si vive, del Vero con l’adeguazione dell’intelletto alla cosa, del bello con il suo rimando all’eterno, della ricerca di Dio attraverso le sue opere.

Da qui poi si potrà comprendere senza eresie e senza fraintendimenti cosa si intenda per simbolismo quale espressione estetica della partecipazione ontologica, quale atto di umiltà di una creatura che comprende d’essere espressione simbolica reale del divino creatore nonché strumento di quest’ultimo, sfruttato per altre creazioni che ne sono solo un ulteriore strato simbolico di realtà esistenti e distanti.

Così si comprenderà quel che un caro amico amava dire della musica di Bach e io amplificavo a qualsiasi espressione artistica sublime: “limite estremo in cui ogni cosa sembra soltanto un gioco che Dio concede a sé stesso”.

Così si comprenderà l’immensità dantesca di saper esprimere anche quando nulla viene espresso. Si comprenderà come il sommo poeta – con le urla sguaiate di Pluto all’inizio del cammino infernale – diede i natali e contemporaneamente soffocò nella culla l’arte concettuale del nulla sul nulla. Non serve nient’altro per comprendere questa miseranda attività mercantile ancora in atto, che ha fatto sprecare troppe parole.

Ne basta(ro)no tre.

Tre suoni che sono, insieme, raffigurazione più vera della disperazione umana nella società d’oggi e rappresentazione del valore universale dell’arte mitopo(i)etica, della potenza del simbolo a contrasto e della straordinarietà di quel tempo che fu il Medioevo, oggi più che logicamente odiato proprio per una manifesta vicinanza alla natura umana rispetto al contemporaneo mortifero.

Tre parole inutili, disperate, folli, fini a sé stesse e soprattutto uniche ed irripetibili poiché racchiuse, brevissima antitesi, in un poema di tesi artisticamente straordinario che le trascende, le nullifica e insieme le innalza a inizio e fine dell’unica arte concettuale (nichilista, relativista e satanica) possibile ed accettabile di tutti i tempi.

Tre vocaboli, dopo di che il resto (del nulla) è e sarà nulla come arte in senso pieno:

“PAPE
SATÀN
ALEPPE”.



Categories: Filosofia, teologia e apologetica, Sacra Arte

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11 replies

  1. Affiancare “Arte” a “contemporanea” non dev’essere stato facile.
    Complimenti per il sangue freddo😁

  2. Caro Minstrel, grazie per questo articolo di alta levatura rispetto al soggetto ma anche per la lingua da te utilizzata.

    Abbiamo discusso, “Telegram-ato”, “Zoom-ato”, abbastanza alla lunga quandi eri nella lettura del saggio qui sopra citato, quindi ben sai quanto ritengo benvenute queste tue riflessioni. Vorrei aggiungere ulteriori approfondimenti miei al tuo seguito.

    L’arte, anticamente, era un “savoir-faire” un “know-how”: c’era l’arte della guerra, l’arte del come si deve celebrare, l’arte del comando degli uomini, l’arte degli “art-igiani”, oltre l’arte degli “art-isti”. L’arte è, da sempre, una commistione di conoscenza (che oggi diremmo “teorica” ma che non sempre era formulata intellettualemente) e di competenza tecnica (tramandata con l’esempio personale da padre in figlio, o dal maestro al seguace).

    La competenza tecnica era, ed è sempre, ottenuta con l’infinita ripetizione degli stessi atti che si perfezionano fino a giungere al grado, illimitato, della virtuosità: abbiamo così virtuosi della guerra, virtuosi dell’ars celebrandi, virtuosi della leadership, virtuosi della vinificazione, virtuosi del violino, del canto, della pittura, della scultura.

    Il pubblico che osserva la creazione dell’arte del virtuoso si sente attratto dalla sua virtuosità in quanto tale, a prescindere: può essere l’eleganza di una dimostrazione matematica altamente sofisticata, o l’appassionante romanzo al quale si rimane “scotch-ato” fino all’ultima riga e che si vuole leggere e rileggere.

    Vi è quindi una connotazione morale nell’attrazione che si ha per una data opera d’arte, in quanto è il virtuosismo dell’artista/artigiano che interpella in primis: vi è però una differenza fondamentale, anche se apparentemente “piccola” tra virtù e virtuosismo, la quale consiste nel fatto che, quando si pratica una virtù e si decide deliberatamente di non metterla in opera, chi lo fa dimostra, nei fatti, che non possiede tale virtù mentre quando un artista virtuoso fa apposta di commettere un errore la sua virtuosità è ancora più appariscente. (Il contrario mostra la stessa differenza: chi commette un atto non virtuoso involontariamente non può essere considerato senza virtù, mentre chi manca di virtuosismo involontariamente di certo non può essere considerato come possedente questo virtuosismo).

    La questione fondamentale che mi piacerebbe dibattere con te, il saggista, i nostri utenti, in fin dei conti sarebbe questa: chiediamo all’arte virtù o virtuosismo?

    Dobbiamo renderci conto che da quando l’Occidente, da, diciamo (tanto per dare un data, non importante di per sé), 5 secoli ha scelto la via culturale della “tecnica”, esso ha fatto una scelta fondamentale a favore del virtuosismo, piuttosto che della virtù: il fatto che questa scelta implichi che sia proprio l’esercizio di errori voluti da chi è un virtuoso nella propria arte che ne mette in risalto il virtuosismo, mostra solamente quanto attraente (proprio nel senso fisico) sia l’akrasia del peccato originale. E, ti concedo che ci sia qualcosa di satanico: come Lucifero era il più perfetto degli angeli creati da Dio, così anche chi esercita oggettivamente un vero virtuosismo nella propria ars, rischia di fare la fine dello stesso diavolo per assenza di virtù, ma proprio a causa dell’esercizio volontario dell’errore, alfine di evidenziare a tutti la sua propria virtuosità e, dirimpetto, la propria assenza di virtù.

    In Pace

    • Vado piuttosto di fretta, ma sappi che da sempre gli artisti combattono – per così dire – una battaglia infinita fra l’estro (chiamiamolo) “naturale” e i binari dell’artifizio tecnico. E’ fondamentale saper dire e aver qualcosa da dire, pertanto si abbisogna dell’alfabeto per comunicare e di solidi argomenti da trattare. Se esistono entrambe le prospettive, il virtuosismo dunque diviene quell’ornamento in più che trasporta meglio la comunicazione, diventa la miniatura nella lettera iniziale del manoscritto, diviene scuola di prassi artistica e maestro di costanza.
      Ma quando è da solo diventa paranoia, buio, freddezza micidiale, come i vocalizzi sterili della Regina della Notte. Non è più virtuosa costanza, ma viziosa droga.
      A tale proposito una analisi delle vocalità nei protagonisti dello Zauberflote, ad esempio, chiarirebbe bene la dicotomia di cui parlo.
      Volevo tentare uno sviluppo della questione musicale nel contemporaneo, ma – parrà strano – mi servirebbe ancora più studio. In questa analisi mi sono permesso alcune considerazioni basandomi anche sull’auctoritas dell’autore del libro e sui suoi numerosissimi esempi presenti nell’opera e di altri filosofi, oltre che della logica e delle mie conoscenze teologiche. Per una questione musicale si dovrebbe fare una ricerca a sé stante, poiché finora non mi risultano dei libri di analisi critica delle composizioni contemporanee. E forse perché in realtà – diciamoci la verità – la musica mi pare messa molto meglio (forse perchè non dominano solamente i curatori o i critici o i marchi di fabbrica degli artisti, ma il pubblico che riempie o non riempie il teatro).
      Ne voglio parlare con Franz ovviamente. Vedremo a cosa porta. Grazie delle tue analisi!

    • Sto leggiucchiando qua e la. Diciamo che siamo messi malino ovunque in arte…

      • Per una semplice ragione: senza virtù non è possibile ( secondo me).
        In Pace

      • Da Introduzione on-line alla critica della musica: http://www3.unisi.it/ricerca/prog/musica/sapere/critica.htm

        “Di cosa parla la critica oggi

        Che la critica musicale parli di musica non è un dato né scontato né universalmente accettato. Ne è indicazione evidente lo spostamento delle recensioni musicali dalle pagine culturali dei quotidiani (le vecchie “terze pagine” ormai diventate “penultime”) a quelle dedicate agli “spettacoli”, trasloco che sembra voler indicare una progressiva valorizzazione del carattere di evento dell’esecuzione musicale a discapito dei contenuti che questo vorrebbe veicolare. Buona parte della critica musicale di oggi parla di star, di finanziamenti pubblici, di sponsorizzazioni, di restaurazioni, di politiche culturali e di grandi valori sociali. E anche di musica, ma in modo quasi surrettizio. Le richieste che spesso pervengono alle testate giornalistiche sembrano invece testimoniare un desiderio di tornare a concentrarsi sull’offerta delle stagioni concertistiche e, soprattutto, sull’esecuzione, sulle qualità artistiche sprigionate dagli interpreti e sulla loro capacità (o, eventualmente, incapacità) di fornire agli ascoltatori un’esperienza musicale degna di essere ricordata e commentata. In questo senso, non fa differenza se si tratti di musica “colta” o “popular”, se il concerto si sia tenuto in un prestigioso teatro settecentesco o in uno stadio gremito da una folla urlante: ogni esecuzione trasmette sensazioni, messaggi e idee passibili di essere recepite, meditate, verbalizzate e lette, in un circuito virtuoso tanto per gli addetti ai lavori quanto per il pubblico, effettivo o potenziale.

        Dal canto suo, chi scrive per un quotidiano, per un settimanale o per una rivista di larga diffusione deve tenere in debita considerazione le esigenze e la preparazione dei destinatari del suo lavoro: abbiamo già notato come un linguaggio troppo denso di tecnicismi, se non corredati da un’opportuna spiegazione, rischia di sortire l’effetto di disorientare e allontanare i lettori. D’altra parte, un’esposizione esclusivamente metaforica e costellata di aggettivi generici tende ad appiattire le specificità delle opere seguite e della qualità dell’esecuzione. Di un concerto caratterizzato da esecuzioni “impeccabili”, assoli “mirabolanti”, e “superbi” arrangiamenti, si può forse intuire che è stato apprezzato, ma non si capisce perché. La critica che si pone come obiettivo la veicolazione di un’idea maturata su un’esperienza musicale sarà piuttosto chiamata a focalizzare pochi elementi delle composizioni e dell’esecuzione, anche uno solo, e attraverso essi aprire al pubblico il proprio punto di vista sul tutto, addentrandosi nei dettagli soltanto nella misura necessaria a rendere evidenti le motivazioni e gli obiettivi delle proprie osservazioni. D’altra parte, non è possibile individuare uno stile peculiare della critica musicale, un modello perfetto che raggiunga e coinvolga in ugual modo l’erudito, l’appassionato, il musicologo, il curioso e il musicista di professione. È stato infatti più volte affermato che ogni buon critico inventa ed esaurisce il proprio stile personale, che potrà essere di stampo prevalentemente letterario o cronachistico, indulgente o severo, eppure sempre efficace e apprezzato.”

        Limiti….

        In Pace

  3. Come noto, la nostra percezione del mondo avviene tramite i due emisferi del cervello, uno deputato all’elaborazione logico-razionale e l’altro all’elaborazione simbolico-metaforica o onirica. L’emisfero “onirico” è il primo ad attivarsi e custodisce l’esperienza esistenziale ancestrale. Fino a quando non raggiunge un sufficiente grado di sviluppo razionale, il bambino percepisce il mondo attraverso questo emisfero nel quale il reale e l’immaginario si confondono e si identificano (se un neonato vede la mamma, la mamma c’è, se non la vede, la mamma non c’è, è morta, e lui piange disperato, la rivede, e lui sorride). Solo con l’uso della ragione il bambino è poi in grado di ordinare il caos separando la realtà dal sogno, la notte dal giorno.
    La crescita della dimensione razionale è il risultato di una dura lotta per la conquista, metro dopo metro, dello spazio occupato dal caos, fino al prevalere della coscienza sull’inconscio, della verità sull’ignoto, dell’io morale sulle pulsioni istintive, della fede sulle paure. La Creazione fu infatti tratta dal caos solo per la potenza della Parola, e per l’ordinamento del Logos (“Dio disse sia la luce. E la luce fu”).
    La ragione nasconde alla coscienza il caos incomprensibile, motivo per cui il caos non è indagabile a livello cosciente. Nel caos infatti non c’è spazio per la vita, il caos vuole sempre fagocitare la vita. Senza seguire il sottile filo di Arianna della ragione la vita si dissolverebbe nel caos della ψυχή.
    Solo nel sogno (quando mi rituffo nel caos primordiale) ho la possibilità di essere un’altra persona, di sposare mia madre e uccidere mio padre, di volare dall’ultimo piano di un grattacielo, o piombare a terra senza farmi male, di respirare nuotando sott’acqua o di separarmi dal mio corpo, ecc, ecc. Queste esperienze non possono essere vissute sul piano cognitivo-razionale senza sprofondare nella follia e, tuttavia, costituiscono la parte preponderante di noi stessi, che, a nostra insaputa, in qualche modo modellano la nostra vita e condizionano le nostre scelte coscienti.
    L’intelletto onirico infatti presiede l’intuitività (simpatia-antipatia, bello-brutto e tutto ciò che non è mediato dalla ragione) e ha la caratteristica di non mentire e di non poter mentire; esso attende anche alla creazione artistica – e qui veniamo al punto – che è poi il motivo per cui l’arte gioca un ruolo così importante, anzi essenziale, nella comprensione della realtà. La funzione dell’arte è infatti proprio quella di far emergere al livello dell’io cosciente gli elementi di questo caos sul cui abisso galleggiano le instabili fondamenta della nostra esistenza.
    Questa lunga digressione in premessa è solo per significare che, in linea di principio, non sarei d’accordo a definire tout court un’arte “satanica”, almeno nella misura in cui l’arte è l’espressione simbolico-metaforica dell’elaborazione onirica del mondo dell’artista; nella misura in cui rende accessibile al piano cognitivo quella parte maggioritaria del mondo che rimane oscura e indicibile, e che, se vissuta a livello cognitivo senza la mediazione della ragione, diventa esperienza esistenziale disperante, l’arte ha una sua funzione e una sua missione creativa e conoscitiva.
    Secondo me, se si escludono i casi (pur numerosissimi) di plateale provocazione morale/intellettuale, o di volgare speculazione commerciale a scapito di gonzi danarosi, la bruttezza fondamentale di gran parte dell’arte contemporanea (in tutte le sue forme, dalle arti figurative, all’architettura, alla musica, ecc) non deriva dalla sua origine satanica, ma dal fatto di riflettere (non può non riflettere) l’inquietudine esistenziale introdotta dalla post-modernità col suo naufragio nel caos nichilista, ateo e anticristico che ha privato di ogni senso la vita e la vita dell’uomo nel Creato. Questo naufragio può dirsi, sì, a buona ragione, di scaturigine satanica, in quanto, oltre ogni evidenza, mostra i tratti della dissoluzione e dell’avversione all’opera del Creatore. Si pensi solo all’inganno di una liberazione perseguita attraverso lo sfogo indiscriminato di ogni pulsione istintiva, come se l’uomo si potesse liberare attraverso la decompressione del caos interiore, piuttosto che attraverso il dominio di sé con cui controllare la fuoriuscita indiscriminata di ogni pulsione e di ogni demone dagli inferi del proprio cuore (“Non ciò che entra nell’uomo inquina l’uomo, perché va nel ventre e nella fogna, ma ciò che esce dal cuore dell’uomo lo rende impuro. Dal cuore infatti escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo” – “Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato.” – “Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”).
    In ultima analisi, mi pare, anche in parziale sintonia con Minstrel, che forse non c’è da recuperare un’arte più bella, buona e vera, cioè più umana, ma un nuovo umanesimo, un umanesimo che non può non essere cristiano, il solo umanesimo capace di mettere la sordina al chiasso del mondo per recuperare le antiche e sempre nuove note dell’Amore Divino. Allora anche l’arte tornerà a risplendere e a primeggiare tra le attività umane.

    • Avrei molto da dire, ma sarebbe un darti ragione quasi su tutto quello che hai ben delineato, come fosse ideale proseguimento del mio scritto. Spero di riuscire comunque a dir la mia più avanti. Grazie (a tutti) per ora!

  4. GIusto perché mi piace farmi del male ho iniziato il libro della Thornton dal titolo “33 artisti in 3 atti”.
    Prime righe, secche:
    “Gli artisti non si limitano a fare arte. Creano e tengono in vita miti che accordano prestigio al loro lavoro. Mentre i pittori del diciannovesimo secolo affrontavano problemi di credibilità, Marcel Duchamp, il nonno dell’arte contemporanea, ha fatto della convinzione una questione centrale per l’arte. Nel 1917 ha dichiarato che un orinale appeso al contrario era un’opera d’arte, intitolata Fountain. Così facendo, avocava a tutti gli artisti un potere quasi divino di trasformare qualsiasi cosa in arte. Conservare questo tipo di autorità non è facile, ma oggi risulta essenziale per gli artisti che vogliono avere successo. In una sfera in cui qualsiasi cosa può essere arte, non esiste alcuna misura oggettiva della qualità, perciò gli artisti ambiziosi devono fissare i propri canoni di eccellenza. Generare questi canoni non richiede solo un’immensa fiducia in se stessi, ma anche capacità di convincere gli altri. Come divinità in competizione tra loro, gli artisti oggi devono esibirsi in modi tali da ottenere un seguito fedele.”

    Non so se è chiaro abbastanza: chi potrebbe far saltare il banco siamo semplicemente noi! Se molti vogliono continuare a farsi prendere per il culo, liberi, sappiate che il gioco è palese a tutti gli attori in campo, mi chiedo quanto lo sia al pubblico pagante.
    Ora continuo la lettura che da questa vetta di cristallina chiarezza si farà, temo, più scaltra e più incline alla vaghezza inutile per tentare di giustificare l’inganno. Vedremo.

  5. Mi correggo, il libro forse forse è una chicca perché l’autrice pare che voglia proprio mostrare gli inganni dei sedicenti artisti (che ovviamente si ostina a considerare tali forse perché considera l’arte oramai schiava della loro produzione). Ma soprattutto ha il merito di mostrare come l’artista oggi non è che un grande influencer di sé stesso e delle sue presunte idee imprenditoriali.

    Prova ne sia questa descrizione dell’opera “Sunflower seeds” di AI, imprenditore cinese, ops, artista cinese.

    “Il tema del lavoro commissionato ad Ai è rimasto un segreto ben custodito fino alla visita privata di ieri sera. Avvicinandomi all’installazione, potevo sentire lo scricchiolio dei passi della mezza dozzina di persone che erano entrate nel museo prima di me e già stavano esplorando l’opera. Sono entrata in un oceano rettangolare di sabbia grigia… o forse erano sassolini? Solo quando sono arrivata al centro mi sono chinata a raccogliere una manciata di quelli che sembravano semi di girasole. Erano così realistici che ho dovuto portarmene uno alle labbra per assicurarmi che fossero di porcellana. Intitolata Sunflower Seeds (2010), quest’opera è costituita da 100 milioni di minuscoli pezzi scolpiti a mano in modo raffinato. L’installazione rappresenta la nazione più popolosa del mondo (un seme per ogni tredici cinesi) in porcellana, nel materiale (china, in inglese) che porta il nome della nazione.

    L’opera è degna della qualifica di “monumentale”, ma l’artista preferisce parlarne, meno pretenziosamente, in termini di “produzione di massa”: per realizzarla è servito il lavoro di 1600 persone per due anni e mezzo. Ai ha salvato dalla disoccupazione un villaggio che realizzava vasellame, ha pagato salari al di sopra della media e ha girato un video durante il processo di lavorazione. Ben consapevole dello sfruttamento della manodopera nel suo paese, l’artista ha attirato l’attenzione sulla durezza del lavoro, facendone un tema esplicito della sua produzione.”

    Ai è un grandissimo imprenditore che gioca con il mercato dell’arte. Di solito l’imprenditore coglie gli umori del mercato e sa trovare il guizzo per rispondere a delle esigenze. Ai crea esigenze inutili, mercato inutile e pure guizzo per risponderne in modo utile all’inutile. A lui il merito di non voler mettere un crocefisso nell’urina per far parlare di sé, ma si accontenta di una inutile buca nel deserto che mercato dell’arte è ben felice di riempire di soldi, tentando al contempo di sfamare gente considerata dal mercato economico inutile.

    PS: scopro ora che Ai Weiwei è colui che ha detto “Coronavirus diffuso dagli italiani”. Ok, capo. Andiamo avanti…

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