È Tempo Di Azione Concreta, Pratica, Effettiva – Parte 8

L’economia che Dio voleva per l’Uomo è un’economia del dono: di questa economia ne vediamo traccia portentosa e tutt’altro che archeologica nell’ecologia familiare. È l’economia del Regno di Dio che rappresenta nella nostra finita Realtà il traboccamento della Divina Essenza iscritta nella nostra natura di uomo e donna assieme fatti a Sua immagine.

La nozione di denaro per rispondere ai bisogni umani appare solo come una medicina permessa da Dio come paletto all’akrasia umana dovuta al peccato originale: essa permette di alleggerire un poco il bieco individualismo egoistico ed egotistico della natura umana decaduta facilitando scambi che sennò sarebbero soppiantati da ladrocini e dalla legge del più forte, il furto e l’omicidio e la prevaricazione, essendo questi l’esatto opposto del dono.

Ma il denaro, benché allevia la situazione umana, è come una medicina palliativa che solo diminuisce gli effetti sintomatici dell’umana akrasia ma non la guarisce: Dio sopporta questo epifenomeno nella Sua Creazione ormai corrotta in quanto, se ben usata, ne potrebbe addolcire la situazione ma la salvezza dell’uomo e della donna fatti a Sua immagine non vi trova la sua radice.

Gesù stesso non è mai visto toccare soldi sebbene li lascia utilizzare come mali necessari: bellissimo vedere quando è in un pesce appena pescato che trova la moneta per pagare il dazio, come abbiamo già visto più sopra, mentre Egli sempre sottolinea che bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, e che certamente non è la moneta che va a Cesare.

La risposta di Dio, in Gesù, per sanare la natura di ogni singolo uomo che lo desidera è ancora il Dono, questa volta della Vita stessa, sulla Croce sorgente di infinità di Grazie, cioè di Doni.

Un’ecologia ontologica degna di questo nome deve tendere, per quanto razionalmente possibile in questo contesto di corruzione del Creato, a vivere concretamente un’economia del dono nella cerchia la più larga possibile, come nella propria famiglia, ma anche raggiungendo, per quanto razionalmente possibile, le altre realtà umane.

Lì dove c’è il dono, non c’è, ovviamente, il debito e dove non c’è debito per definizione con c’è quell’epifenomeno chiamato denaro: il dono caccia il denaro come il denaro caccia il dono, onde per cui non si possono adorare Dio e Mammona al contempo. Dio è Reale, Mammona è un epifenomeno, un idolo umano inventato artificialmente, come il vitello d’oro ai piedi del Sinai, a causa della durezza della cervice e del cuore dell’umanità decaduta.

Le banche e gli uomini di affari un po’ astuti ben lo sanno: non si presta mai denaro ai poveri, ma solo ai ricchi. Solo a chi possiede già qualcosa si può prestare denaro contro garanzie e ipoteche: a chi non ha niente non si presta, si dà, se si può.

Il denaro, in fin dei conti, è una semplice riconoscenza di debito di un’istituzione, come una banca centrale ai giorni nostri, o di una comunità, come lo stato, ad esempio: quando qualcuno presta denaro trasferisce une riconoscenza di debito a suo favore, garantita da un terzo supposto solvente come una banca centrale,  ad un debitore che ne ha bisogno per investire, mentre, in cambio, il primo esercita un diritto di prelazione su un risorsa reale del secondo. Da un punto di vista ontologico è problematico, e solo solvibile sul piano simbolico, il fatto che si possa equiparare una risorsa reale ad una risorsa epifenomenica, in quanto non sono della stessa natura.

Ma oltre ciò, è chiesto al debitore di rimborsare il creditore a termine aggiungendo un montante che paghi il servizio reso per la messa a disposizione del capitale più il “rischio” preso dal creditore sul recupero della risorsa prelevata, se fosse necessario, montante chiamato interesse. Tutto ciò ha senso se, e solo se, il prestito avviene per l’acquisizione di risorse generative (al minimo) e rigenerative, le sole che permettono, grazie al lavoro del debitore, di produrre di che rimborsare e di che salvaguardare la propria famiglia.

Quindi appare ovvio che i prestiti per l’acquisizione di risorse degenerative non possono essere contemplate nel quadro di un’ecologia ontologica in un ottica di padre (povero) di una famiglia numerosa: in questo caso si distruggerebbero, per definizione, le risorse generative o rigenerative possedute. In questi casi, se ci fosse oggettiva necessità, cioè nel caso dei poveri, il solo modo di aiutarli è il dono.

Fondamentalmente, un’ecologia ontologica emula il comportamento di Dio: essa deve produrre “troppo”, proprio come la natura. “Troppo” per avere qualche riserve per i tempi duri, ma soprattutto “troppo” per le prossime raccolte, e “troppo” per poter sempre donare: per giunta producendo “troppo”, si rendono i frutti prodotti dalle risorse meno scarsi, quindi meno cari, quindi accessibili a più famiglie con meno risorse.

La sovrabbondanza è quel che caratterizza l’economia divina come, a contrario, la gestione della penuria caratterizza l’economia umana che si gongola nella propria “akrasia” e che permette un arricchimento contro-natura manipolando prezzi e quantità di denaro circolante a sfavore della maggioranza dell’umanità.

A nostro livello individuale e familiare non possiamo cambiare il sistema globale attuale che stritola le famiglie e, alla fin fine, gli individui che non sono più protetti da essa: ma già possiamo creare uno spazio concreto, con un’economia ecologica sensata a livello della nostra famiglia, del cerchio di amici, del clan, dei vicini.

Questo è reso possibile dal fatto che l’economia mondana, quella che “governa” il mondo attuale, è sempre più distaccata dal reale: il suo denaro non irriga che parzialmente la società e non è capace di far germogliare risorse lì dove non c’è lavoro perché non c’è denaro sufficientemente a buon mercato per innaffiarlo, perché debbo pagare il pane che compro con soldi che includono il costo di produrre vestiti nel Sud-Est asiatico, con cotone prodotto in Egitto, ma che a me in realtà non servono davvero perché questi vestiti me li posso fare da me stesso nel quadro della mia famiglia o vicinato. In questa economia bislacca e contro-natura, vediamo persone che preferiscono andare “lavorare fuori”, cioè mettendo a disposizione altrui la propria risorsa generativa per eccellenza che è il lavoro, fuori casa, fuori famiglia, fuori villaggio, fuori paese, fuori continente, pur di avere soldi carissimi, magari anche a scapito della felicità familiare, clanica, comunale, pur di poter comprare risorse degenerative troppo care per definizione perché pagate con denaro troppo caro.

Vi è, però, tutto un sottobosco di risorse umane, di capacità di lavoro, di beni generativi e rigenerativi che non sono più valorizzati e che non interessano nessuno: è in quel sottobosco, sotto il radar dell’economia mondana, che è possibile ricostruire una vera ecologia secondo i principi enunziati nella prima parte di questa serie di riflessioni e non v’è bisogno del permesso di nessuno per cominciare a metterla in opera adesso. Il solo ostacolo è l’akrasia, questa assenza di forza di volontà di voler scegliere quel che è bene e non lasciarsi andare nel facile, nel solo piacevole, nell’usuale, nello snervato, nel pessimismo, nella dolce disperazione che ci esenta di qualunque sforzo.

Per farlo il meglio è cominciare a riflettere in famiglia su quegli elementi che sono chiave per la propria felicità a breve, medio e lungo termine, per poi decidere su quali risorse precise puntare, sviluppare, acquisire e sempre ricordandosi che è nella fertile sovrabbondanza della coppia che risiede ontologicamente il fulcro della questione ecologica. La tappa seguente è quella di riferirsi a un livello inferiore nel quale la famiglia è innestata: famiglia allargata, clan, amici, vicini e vedere con loro come le complementarità potrebbero giocare e a che livello.

Qui subentra un’altra riflessione circa quelle realtà come le società per azioni o altri meccanismi giuridici destinati a raccogliere grandi quantità di capitale necessari per investimenti troppo pesanti da sostenere a livello di una sola famiglia.

Qualunque associazione per mettere in comune le proprie risorse con terzi deve sempre avere come fine ultimo la felicità della propria famiglia, in precedenza al suo benessere: qualunque attività deve seguire i principi dell’ecologia ontologica e sviluppare un’economia che ne sia congruente; è per il bene spirituale, culturale, piscologico, materiale di tutte le famiglie coinvolte, che siano investitrici, lavoratrici, fornitrici, clienti che una tale associazione trova il diritto naturale di essere messa in opera.

Tale attività deve puntare ad essere sovrabbondante e se si svolge aldilà della sfera naturale del dono, a causa dell’oggettiva realtà dell’akraisa originale, essa ha da svolgere le sue attività nel quadro della moneta di sussidiarietà ad hoc per la comunità nella quale essa opera: se a livello comunale, userà della moneta comunale, se provinciale di quella provinciale, se tra amici con moneta “amicale”. Questo gli permetterà sempre di valorizzare il lavoro disponibile nella comunità in questione. Non presterà ai poveri, ma, casomai, donerà il sovrappiù della propria sovrabbondanza. Investirà solo in risorse generative e rigenerative disponibili in vicinanza nella moneta di sussidiarietà la meno cara possibile.

Concretamente possiamo immaginare un gruppo di amici, o di cittadini di un comune, che decide di investire per una dighetta per produrre elettricità più in alto in valle sul terreno di uno degli amici: ci sono il macellaio del villaggio, il panettiere, la scuola privata, qualche contadino e muratore, il meccanico, l’avvocato, il cantautore di turno. Tutti hanno interesse ad avere elettricità supplementare prodotta se non altro per diminuire i propri costi familiari e/o professionali in energia e si mettono d’accordo (semplificando) di mettere un decimo della loro produzione o lavoro in questo progetto: sommano il totale e creano un migliaio di certificati di debito contro di loro e/o contro l’eccesso che si spera sovrabbondante della futura elettricità prodotta e che si ingaggiano a rimborsare alla loro ricezione. Poi vanno a comprare se necessario lavoro e risorse necessari tra di loro o solo presso terzi che accettano questi certificati di debito come pagamento. L’elettricità prodotta è venduta contro i crediti emessi, il che spinge terzi a vendere il frutto del loro lavoro o delle loro risorse in cambio di questi crediti, in quanto sanno che potranno acquisire elettricità. Questo mobilizza forze di lavoro e risorse che la società liberal mercantilista contemporanea non è più capace di mobilizzare per un bene comune, dando accesso ad un potere di acquisto rinnovato e necessario: alla fine, si festeggia il successo dell’operazione grazie alla contribuzione del cantautore alla felicità generale.

Con questo esempio ci è adesso possibile concepire un’ecologia realmente basata sul principio di sussidiarietà, in quanto favoreggiando economie di sussidiarietà basate su monete di sussidiarietà.

Mi si permetta di illustrare il concetto usando dell’analogia dei casinò. Come ben sappiamo quando andiamo giocare al casinò alla lunga sempre si perde contro di esso: più si gioca a lungo più la probabilità che tutto sia ripreso dalla “banca” è alta. La saggezza dice che è meglio non giocarci i propri soldi ma se per akrasia lo vuoi proprio fare, allora appena vinci, se vinci, smetti di giocare, incassi e te ne vai.

Il problema è che, a priori, non si è sicuri di vincere ad ogni colpo, eppure, se si è pronti a giocare abbastanza a lungo fino a quando si vince scommettendo sempre di più a ogni volta per coprire le perdite precedenti, si finirà pur per vincere una volta, guadagnare e incassare e partire: questa è la martingala sempre vincente.

Ad esempio supponiamo che si gioca alla roulette su 36 valori differenti: se all’inizio gioco un euro sul valore 3 e perdo perché è un altro valore che appare,  la volta seguente se voglio guadagnare l’euro che ho appena perso ed in più desidero sempre guadagnare qualcosa debbo giocare un euro più un altro euro, cioè due euro, sullo stesso o un altro colore o numero, se perdo di nuovo, posso ritentare ma avendo perso già un euro la prima volta e due euro la seconda volta, stavolta dovrò mettere tre euro più uno per guadagnare cioè quattro euro, se riperdo stavolta avrò perduto in tutto 1+2+4 euro e dovrò rigiocare questa somma più un euro per guadagnare quel che si è perso cioè otto euro, e se riperdo la volta seguente sedici, poi 32, 64, 128, 256 e coi via di seguito mentre nel frattempo avrò perso 7, 15, 31, 63, 127, 255 euro il che cumulato vuol dire che saranno usciti di tasca mia, nel frattempo, 502 euro all’ottava partita, ma se ho un’ingente quantità di denaro potrò sempre giocare 36 volte per avere in principio un speranza di vincere e finché sarò sempre in grado di raddoppiare la posta in gioco, più un euro, avrò sempre la speranza di vincere contro il casinò e partire vincente.

Il modo che hanno i Casinò di evitare questo rischio è di definire il valore minimo e massimo che possono essere giocati ad ogni tavolo: ad esempio possono dire che ad un tavolo si può giocare tra 1 e 100 euro, ad un altro tra 100 e 10’000, ad un altro tra 10’000 e 1’000’000, in quanto nessun giocatore potrà mai raddoppiare più di sei volte la posta in gioca senza sorpassare il massimo consentito e sei probabilità di vincere su 36 in tutto , cioè 16.6% contro 83.4% per la banca può essere considerato un rischio accettabile.

Quando giochiamo con una moneta troppo cara è come se giocassimo al tavolo tra 100 e 10’000 di posta avendo solo 150 euro in tasca: la probabilità di perdere è quasi certezza. Meglio andare al tavolo tra 1 e 100 euro dove avrò 6 volte più probabilità di vincere qualcosa se incomincio piccolo cioè con un euro. Se ci si lancia in affari in un ecosistema dove la posta in gioco è di 10’000 al minimo ed è quel che si ha su per giù in tasca siamo praticamente sicuri di andarsi a schiantare.

Chiedere in prestito soldi cari a livello internazionale per rilanciare un’economia che dovrebbe invece rivalorizzare le economie locali, comunali e provinciali è quindi pura temerità.

In questo senso le imprese familiari o le strutture economiche basate su un’ecologia ontologica, saranno attente di “giocare” solamente nel proprio ecosistema, al tavolo giusto del casinò, quello della moneta di sussidiarietà corrispondente: se sono famiglie che si associano in un dato comune, con la moneta del comune; se sono famiglie di vari comuni allora con la moneta della valle o della provincia e così via di seguito. Forzare la propria impresa a giocare ad un tavolo con poste più alte vuol dire perderla a termine. Il che è anti-ecologico per l’ecosistema familiare.

È il momento di cominciare ad agire concretamente, con convinzione e visione, mettendo in moto queste micro-rivoluzioni positive a cui non importa niente di quel che avviene sugli altri tavoli inferiori con costi eccessivi, esattamente come a questi ultimi non importa niente se lavoro, risorse generative e rigenerative siano utilizzate oppure no ai livelli a loro superiori comme quelli familiari.

In Pace

(Continua)

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Categories: For Men Only, Simon de Cyrène

8 replies

  1. Bella riflessione, molto condivisibile. L’esempio del Casinò è azzeccato.

  2. Finalmente sono arrivato anche io a questa puntata con la dovuta concentrazione, almeno lo spero. C’è una cosa che non comprendo a pieno, ma sicuramente perché sono legato ad una concezione del denaro (o carta di debito che dir si voglia) di stampo capitalista e non “ecologista”, diciamo.
    E’ pur vero che, in ambito italiano, alcuni sostengono che sia possibile per i Comuni battere moneta locale (https://blog.rodigarganico.info/2016/politica/i-comuni-possono-stampare-moneta-propria-per-legge/), è altrettanto vero che esperimenti di vere e proprie monete locale in Italia sono state fatte, con tanto di denuncia penale e sequestri delle monete da parte della GdF (poi disequestrati, http://www.simec.org/index.php/notizie-essenziali/97-dissequestro-del-simec.html) e con esiti combattuti (per alcuni con un successo per altri per fallimento). Sto parlando del SIMEG di Auriti. La sentenza di dissequestro è particolarmente interessante poiché sottolinea come la problematicità della creazione della moneta è che in qualche modo si unisce all’autorità della moneta esistente e alla questione del risparmio della stessa (che fa capo solo alle banche 11 comma 1° e 130 D. L vo 385/93), ma – in un certo qual altro modo – se ne sottrae. Davvero un bel casino, non riesco in poco a farne un sunto degno. Ma qualcosa si può dire.

    La questione fu famosa ai tempi e dipende tutto, come dicevo a Simon in privato, da cosa si intende con “moneta” e chi le da “valore”.
    Per Auriti la moneta è unità di misura del valore e come tale accettata convenzionalmente da chi la usa come mezzo di scambio, divenendo così uno “strumento” dello scambio di beni. Così chiese al Tribunale che la Lira venisse specificatamente indicata come “proprietà dei cittadini italiani”. La Banca di Italia non fu dello stesso avviso e boccio la sua teoria (e cosi anche le varie interrogazioni del Parlamento non andarono a buon fine) con queste motivazioni: “La visione della moneta e delle funzioni monetarie che l’attore intende accreditare è palesemente distorta e completamente infondata” … “l’accettazione da parte della collettività, lungi dall’essere causa del valore della moneta, ne rappresenta in realtà solo l’effetto, sicché il sillogismo deve essere rovesciato: non è vero che la moneta vale in quanto è accettata, ma semmai, come la storia e la cronaca stanno a dimostrare, che essa è accettata solo in quanto abbia un valore. Di qui la necessità che tale valore, rispondendo ad un fondamentale interesse pubblico, sia difeso e garantito dalle Pubbliche Autorità, funzione nei moderni stati affidata alle banche centrali.” (https://docs.google.com/document/d/1xIp1zGcy-N4cwhymvD3nRCMe-6wyl0v0bJLXhOuvuPU/edit?hl=it&pli=1)
    E continua: “Il batter moneta, continua la Banca d’Italia è espressione della sovranità statale, e quindi “il valore della moneta trae il proprio fondamento solo ed unicamente da norme dell’ordinamento statale, che, per solito, disciplinano minutamente la creazione e la circolazione della moneta, ne sanciscono l’efficacia liberatoria, ne sanzionano la mancata accettazione in pagamento e tutelano la fede pubblica contro la sua falsificazione ed alterazione.”
    Al che qui si ha proprio una distinzione, mi pare, che fa il paio con quella fra diritto positivo e naturale. La moneta è un epifenomeno/mero contratto fra privati che la accettano (come fosse un baratto più comodo) oppure uno strumento che ha valore perché lo impone d’autorità lo Stato? Non è in fondo la prima volta che io sento questo da parte degli economisti: una moneta ha valore perché lo Stato accetta di essere pagato con quella per le sue tasse. E questo è dare ragione alla Banca d’Italia.
    La tua visione Simon mi pare invece simile a quella di Auriti. Al che ti chiedo come risponderesti a questa idea di moneta propria della Banca di Italia (e quindi del diritto bancario italiano) che negli anni mi pare si sia acuita, non certo smorzata. D’altra parte non ha tutti i torti lo Stato a temere che una simile impresa intacchi la questione monetaria da un punto di vista del risparmio e dei valori di cambio fra monete.

    Ti dirò che, con le poche conoscenze di oggi che ho, mi sembra che Banca Italia abbia da un lato detto cose giuste per il tempo, dall’altro non accettato la banale realtà dello strumento in questione. O forse non capisco la sua risposta. Ma allora mi chiedo: e i Bitcoin? Non hanno un certo valore? E allora perché Facebook e altri vorrebbero creare moneta loro? E ancora: non è la stessa cosa delle monete virtuali presenti nei videogiochi online “gratuiti” per cui con soli 20€ puoi ricevere 4.000 monete d’oro con cui comprare vestiti e skin per il tuo personaggio?

    Il punto è che la sentenza chiarisce che non ci sono presupposti di legge per quale dichiarare il SIMEG e il suo creatore colpevoli di reati penali, ma restano i problemi in sede civile e di scontro fra autorità. Fra l’altro a quanto pare un giudice stesso disse ad Auriti: “lei ha dimostrato l’elemento materiale del reato (cioè che la moneta non è del popolo). Manca il dolo perché… è stato sempre così”. In quegli anni infatti si consumò proprio questo oltre ad uno scontro in sede scientifica che però portò ad un nulla di fatto. Non esistono teorie economiche che riprendono Auriti e la cosa mi puzza. Infatti le critiche non mancano e a questa dò tutte le ragioni http://www.notiziedabruzzo.it/le-idee/l-utopia-del-simec.html
    Soprattutto qui: “Gli anelli deboli della catena si presentavano in due punti: al cambio iniziale ed al cambio finale. Se è valore indotto deve essere valore indotto, non può essere valore derivato. Il cambio effettuato con la lira (oppure oggi con l’euro) rinnega di per se il principio stesso di valore indotto. Se la proprietà della moneta appartiene al popolo non può essere erogata a fronte di uno scambio con moneta emessa sul debito dalla banca centrale. Così come non può essere ricambiata in uscita. Questa pratica ha reso di fatto il Simec dipendente dalla Lira ed ha di fatto annullato la teoria del valore indotto.”
    Come gestiresti il problema, certamente non secondario, che questa nuova moneta locale in fondo tiene valore perché scambiabile con moneta che valore ne ha per autorità statale?
    L’articolo che ho riportato dice testualmente: “Si potrebbe ad esempio partire dalla retribuzione dei dipendenti la quale per la sua interezza verrebbe erogata in moneta corrente e per una parte corrispondente erogata in Simec. Nessun cambio all’origine dunque, solo la possibilità di utilizzare la moneta all’interno delle attività che, sempre per convenzione, riconoscono ad esso un valore di scambio. Nessun cambio neanche alla fine dunque ed in questo modo, la moneta nascerebbe e vivrebbe per circolare.”
    Che ne pensi?

    Detto questo: mi rendo conto che tu probabilmente indichi per “moneta” il vero e proprio lavoro gratuito. Il punto è che per fare una cosa del genere, magari sulla diga del tuo esempio, servirebbe che tutti ne capissero l’importanza, ne comprendessero l’idea, accettassero di fare quella e non altro ecc. tutte cose che – per mettersi d’accordo – servirebbe uno che di lavoro fa quello: il leader di comunità, magari votato in maggioranza dai soci. E questa cosa in Italia esiste da secoli e si chiama “comune”, quella realtà che lo Stato ha accettato come esistente da prima dello Stato stesso e che ne ha dato importanza e valore (e quindi potere). Ma oggi come oggi quella tipologia di Comune esiste forse (e dico forse) sulla carta.
    Boh, Simon… forse la questione è da approfondire, forse devi solo conlcudere questo tuo saggio e risponderai a tutto o forse è solo una splendida utopia. O forse le mie sono solo scuse perché non ho nemmeno voglia di iniziare a fare il primo passo che potrei benissimo fare.

    Intanto grazie per gli spunti, i rilanci, le provocazioni, le riflessioni!

    • (A) Tanto per cominciare, e ti prego di rileggere fin dall’inizio la serie di articoletti, il mio punto di vista è l’opposto di quello di Auriti: il denaro trova la sua funizione, compresa quella di strumento di misura, nel suo valore.

      (B) Quindi sono d’accordo con l’argomentario della Banca d’Italia che hai presentato qui: “non è vero che la moneta vale in quanto è accettata, ma semmai, come la storia e la cronaca stanno a dimostrare, che essa è accettata solo in quanto abbia un valore.

      E il valore intrinseco della moneta è garantita dal credito che essa rappresenta: cioè ogni lira che tu hai è una riconoscenza di debito della Banca d’Italia a tuo favore, che vale quel che valgono gli averi di tale Banca d’Italia e di chi la garantisce, stati, altre banche. eccetera. Ma questo è il suo valore “intrinseco“: il suo valore “attuale” è all’incrocio tra l’offerta che ne fa la banca d’Italia e il desiderio/capacità di possederla che ne hanno i suoi potenziali utenti.

      (C) Quanto alla tua domanda: “La moneta è un epifenomeno/mero contratto fra privati che la accettano (come fosse un baratto più comodo) oppure uno strumento che ha valore perché lo impone d’autorità lo Stato? ” ovviamente la prima risposta è la buona, la seconda non essendo mai sufficiente da sola, come la storia ha ampiamente dimostrato in situazioni dove lo stato imponeva una moneta che nessuno voleva e quando la popolazione ricorre a valori di rifugio come l’oro o monete straniere reputate stabili.

      (D) “una moneta ha valore perché lo Stato accetta di essere pagato con quella per le sue tasse“: concordo pienamente. La sola cosa che dico è che lo stato è l’ultima delle mie preoccupazioni se penso in termini veramente ecologici. Se lo stato vuol essere pagato solo con i crediti che ha emesso (la sua moneta) ben venga: si comprerà la quantità di denaro statale strettamente necessaria a questo pagamento.

      (E) Concordo per dire che la moneta statale non è del popolo, e , aggiungo, che non ha da esserlo

      (F) Concordo con quest’affermazione : “Gli anelli deboli della catena si presentavano in due punti: al cambio iniziale ed al cambio finale. Se è valore indotto deve essere valore indotto, non può essere valore derivato. Il cambio effettuato con la lira (oppure oggi con l’euro) rinnega di per se il principio stesso di valore indotto. ” Infatti, e l’esempio della dighetta era lì per illustrarlo, ogni sistema monetario (tavolo di casinò) è chiuso e non puô essere scambiato con altri e non ce n’è bisogno. Se, nell’esempio di chi abita nella valle spende l’80% nel prorpio villaggio: non ha bisogno di altra moneta che quella valida nel proprio villaggio per l’80% dei suoi bisogni. Se ha bisogno di 16% di moneta usata nella valle, non deve scambiare la propria moneta contro quella della valle o degli altri villaggi della valle: ma giusto vendere servizi e beni in cambio di quelle monete lì, ma al massimo per 16%. E non ha bisogno del franco svizzero se non per 1,6% dei suoi bisogni. Quindi, concordo: questi anelli sono davvero deboli e vanno da essere eliminati alla radice, il che avviene in modo naturale

      (G) La legge non può, senza contraddizione, impedire il battere moneta tra privati senza vietare le vendite a credito tra gli stessi privati: ogni volta che fai credito, crei un riconoscimento di debito, che è moneta tra privati. È quel che vogliono fare gl Amazons di questo mondo che hanno bilanci superiori a certi stati: loro funzionano da banca centrale privata, garantita dai loro patrimoni. Quanto a Bitcoin ben vediamo che hanno un valore puramente sociale, gestito da una penuria di bitcoins calcolata e previdibile. Monete comunali, provinciali, regionali, statali, interstatali potrebbero benissimo essere costruiti su modelli simili, anche se la loro blockchain non dovrebbe essere basata sul mining di computers ma sulle reali risorse aggiunte da ogni comunità specifica. Un’idea come un’altra.

      (H) Sì, il lavoro puro potrebbe essere, in teoria, usato come moneta, visto che è una risorsa`e sarebbe nobile: però è sempre senza tener conto che dopo il peccato originale, c’è chi utlizzerebbe la propria pigrizia per renderlo più raro e aumentarne il valore 😉

      (I) Non è un’utopia, nel senso che non c’è bisogno di cambiare il sistema nel quale siamo ma che spazia aldisopra di noi inetragendo sempre meno con la nostra realtà: basta che ognuno di noi lo decida e lo faccia, adesso. Saranno micro-sistemi ecologici all’inizio: ma è così che la sovrabbondante natura si comporta.

      In Pace

      • Due domande: esistono economisti che dicono cose simili? Come si incontrerebbe con l’economia che la Chiesa domanda con le varie encicliche papali (lasciando perdere le ultime che vabbeh)? E’ possibile a tuo avviso pensare la scrittura di un saggio/libro su questa struttura basilare data da questi articoli?
        Capisco benissimo che il tuo discorso qui è: non rompete le palle, muovete le chiappe e fate qualcosa di “ecologico” veramente (che significa questo questo e questo) oggi! Tutti possono qualcosa, se dicono “non è vero” è akrasia. FINE.
        Ma non posso pensare che tutto questo ben di Dio non possa avere A) sbocco scientifico B) confronto con altri “scienziati” (siano essi economisti o filosofi) C) … mera pubblicità attraverso canali ad hoc.
        Per dirti, a mio avviso, un libro scritto chiaro, semplice e – se possibile – con una prefazione di un economista “famoso” (anche criticato no problem) potrebbe quanto meno far nascere movimento e interesse in molti ambiti di informazione, anche solo nei canali web alternativi come per esempio byoblu.
        Non so se ci stai pensando o se questa cosa prenderebbe troppo tempo a noi, con il rischio di non mettere in pratica quel che andremmo a scrivere benissimo…
        Per non parlare dell’immane lavoro di capire dove hai preso ispirazione e qundi fornire una bibliografia, i confronti fra le varie teorie, la questione del metodo che vogliamo seguire, l’interdisciplinarità del tuo pensiero (che praticamente devasterebbe l’idea di iniziare a far qualcosa di pubblicabile a chiunque in questo momento storico iperspecializzato)… mal di testa.
        Eppure, più penso che questi articoli più penso che lo sforzo meriterebbe.

        E anche qui BOH!

        C’è da dire che è davvero un periodo chiaro per il sottoscritto… ahahah

        • Concepisco questo saggetto su più articoli come un seme gettato al vento: dove cadrà produrrà una volta, dieci o cento volte, o morirà.
          Come detto nella puntata nove appena pubblicato: le idee vanno da essere mescolate e arricchite le une colle altre, non tenute per sé.

          In realtà, tra la prima riga e l’ultima, quando la leggerai non c’è distanza nel tempo, anche se c’è distanza nel discorso elaborato: tutti i piani sono co-attuali, quello del Giardino della Creazione, quello del peccato originale, quello delle sue conseguenze, quello mondo in atto, quello delle soluzioni in moto, quello del divin riscatto della Croce.

          È anche una riflessione filosofica di cui abbiamo percorso per ora solo la tesi e l’antitesi e mi accingo a condividere con voi la sintesi.
          È altrettanto un percorso personale spirituale, cioè prassi, nella quale tutte le tappe della mia vita si “canocchialano” a vicenda.
          È una riflessione su tre piani quello umano materiale, quello umano etico, quello umano spirituale.

          Non smetto mai di citare, anche se non do volutamente le referenze: in quanto quel che sto scrivendo rileva più dell’arazzo che dell’articolo scientifico. Non ci sono capitoli e tappe: è un testo volutamente continuo.

          Se avessi tempo lo riscriverei in endecasillabi. In un certo modo è un gioco delle pietre di vetro à la Hesse con la mia salsa, tutte le conoscenze sono invitate piû o meno implicitamente: spero che il tutto alla fine sia bello in quanto vi ho portato del buono e del vero che ognuno può valutare nel proprio foro interno, liberamente.

          Solo se bello potrà germinare: non se avente una gran bibliografia.

          La domanda sarà, una volta terminata la serie: è questo bello abbastanza perché abbia voglia di svilupparlo in un modo ancora piû bello?

          Vedremo o più esattamente, chi vivrà vedrà.

          In Pace carissimo amico.

          P.S.: Riguardo alla dottrina sociale della Chiesa non penso dire niente in contraddizione con le sue affermazioni le più sicure, comprese quelle della Laudato Sì. Detto ciò, quel che mi è sempre mancato nel discorso della Chiesa al soggetto è una reale proattività: cioè una proposta concreta di società e un’emancipazione concreta dalla schiavitù del denaro di questi tempi. Questo saggetto potrebbe essere una proposta, magari.

  3. PS: e comunque io sono sempre pronto a cantare gratis ad un festa! 😀

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