La medicina scopre la mistica (e intuisce la tomistica)

from pixabay

Come accennavo nel blog dei blogs di giorni fa, mi accingo ora a sintetizzare la lunga chiacchierata dedicata al fallimento dello scientismo in medicina, avvenuta fra i dottori Erica Poli, Maurizio Grandi e il videoblogger Claudio Messora, integralmente resa disponibile presso la sua pagina YouTube “ByoBlu“. Nel farlo passerò anche a sbobinare alcune delle parti che reputo più illuminanti e, forse, anche più controverse. Le stesse cercherò di metterle in relazione alla visione antropologica propria del blog – anche se in effetti estranea alla metafisica implicita dei medici intervistati, più olistica e di moderato panteismo – e, dove possibile, di proporre riflessioni o critiche in tema alla luce del tomismo e del Magistero della Chiesa. Per quest’ultime ragioni la sintesi della trasmissione sarà necessariamente ridotta ai minimi termini, per cui reinvito i lettori più interessati ad un ascolto completo di questa ottima chicca.

Dopo la presentazione del CV degli ospiti, fatta dagli ospiti stessi con parole che fanno già capire la cifra di chi abbiamo davanti, Claudio chiede cosa si intende oggi per malattia. Risponde la psicoterapeuta Erica Poli che per prima cosa spiega benissimo cosa sia l’ideologia positivista,

Secondo questa ideologia capito il funzionamento dei singoli pezzi, ho un potere e un controllo sull’insieme. Peccato che l’organismo umano e la natura in sé e per sé è più dei suoi pezzi. Non è possibile sommarli e pensare di raggiungere il funzionamento di questo grande mistero che noi siamo. Il punto è che non è solo l’insieme, ma la comunicazione fra i pezzi.
Pertanto la malattia è qualcosa che ha a che fare con una perdita, una alterazione o una disarmonia fra diversi elementi di cui noi siamo costituiti. Elementi certamente materiali, noi siamo incarnati e abbiamo una fisicità dalla quale non si può prescindere togliendo farmaci o rinunciando ad operazioni chirurgiche, in questo caso si scadrebbe in uno spiritualismo grave tanto quanto il suo opposto che stiamo denunciando. Entrambi gli estremi sono difese che si prendono nei confronti della complessità e del mistero della vita. E’ per questo che quando andiamo a studiare gli aspetti relazionali di una persona si scoprono elementi che hanno a che fare con la sua biologia, perché la sua relazione con la vita, te stesso, il mondo, si traduce e dialoga con quella che esiste nei tuoi sistemi biologici. […] Come a dire che la disregolazione immunologica ha fortemente a che fare con la storia precoce delle tue relazioni con il mondo. D’altra parte il sistema immunitario cosa fa? Gestisce la tua unicità rispetto all’esterno, all’ambiente. La malattia dunque deve essere intesa come una alterazione di questa orchestra. L’orchestra è unione di più suoni e noi siamo più suoni: abbiamo una fisicità, ma anche una mente, abbiamo emozioni e aspetti animici che alcune scienze di frontiera cercano di esplorare. […] La malattia è segnale di disarmonia di questi piani; qualcosa è accaduto in questa orchestra e andrebbe ricercato quel qualcosa, ma non il “perché” come causa eziologica che è avvenuta prima e che dà sintomi, che è quel che fa la medicina oggi! Oggi si scambiano cause e effetti, cioè definisce una diagnosi a partire da un insieme di sintomi. […] Questo ribalta l’ordine delle cose e mistifica il lavoro del medico, il quale si occuperà di sopprimere gli effetti (i dolori) di un processo che rimane in gran parte oscuro, ignoto.
La malattia è il segnale che qualcuno in quell’orchestra non sta suonando più come si deve e che ci sono delle comunicazioni alterate. Per quanto riguarda la mia area di competenza posso dire che le emozioni e i vissuti emotivi hanno un grande impatto in tutto questo. Le emozioni sono un giano bifronte, sono fisiche e psicologiche e come tali – sotto il mio punto di vista – aiutano a dialogare con questa orchestra.
Non si dovrebbe nemmeno più parlare di “disturbi psicosomatici” perché ritengo che un medico dovrebbe di suo essere uno psicosomatista, dovrebbe essere qualcuno che indaga le relazioni fra i vari piani che esistono in chi ha di fronte.

Erica Poli

Entra nel discorso il prof. Grandi che dice chiaramente qualcosa che a me è sempre sembrato di comprendere durante alcuni momenti di malattia e che si potrebbe benissimo ascrivere nei momenti bui delle “notti oscure” di noi peccatori.

La malattia spesso non è che l’unico metodo per mettere in discussione un ordine costituito: “sono malato, non posso, mi fermo”. Non ho la possibilità di scappare ma in quel modo, in realtà, scappo. Il medico è stato incaricato di riportare alla situazione di partenza, ma se la malattia è espressione di crisis in senso nobile del termine, cioè mietitura del grano maturo, allora la malattia è il momento in cui muore il vecchio e nasce il nuovo. Approfittiamone. […] Nulla sarà come prima! Ed è quello che facevano i grandi medici di una volta. […] Il mio compito non è portarti a quell’originale che ha originato la crisi e la malattia, ma dirti: “cosa vuoi fare da grande” ora che sei libero, senza sovrastrutture? […]

Maurizio Grandi

Naturale la domanda di Messora: “ma questi pazienti guarivano oppure no?”. Al che risponde Grandi con una risposta alquanto particolare e che potrebbe farci rizzare le antenne

Una guarigione nei termini in cui io la metto avviene o grazie al paziente o grazie ad un Dio, se esiste. Il medico al massimo “cura”. Anche questa è una pretesa della medicina di oggi, convinta di diventare onnipotente, prende in giro le pratiche magiche dei paesi in via di sviluppo e pratica essa stessa la magia a causa di pretese assurde.

Maurizio Grandi

Immagino che lui intenda con il termine guarigione anche (e soprattutto) quel superamento della crisis insito in ogni malattia; aspetto questo che una medicina scientista – per altro – nemmeno prende in considerazione, ma che implicitamente potrebbe ritenere di aver compiuto poiché i sintomi che la Poli parlava sono spariti e con essi anche le lesioni fisiologiche e fisiche da cui nascevano. Ma è solo quello guarire oppure no? E per noi cattolici? Confrontiamo questa visione con l’idea di peccato e di Grazia. In fondo non è quello che si va da sempre dicendo, cioè che è Dio che salva sempre e comunque e l’uomo non è che un “servo inutile” (Luca 17, 5)? Al massimo con l’accesso ai sacramenti noi possiamo curare, ma la guarigione è solo di Dio. A me pare che il discorso fili e che questo parallelismo sia interessante.

Torniamo al filmato. Interviene la Poli:

Dicono alcuni filosofi “la malattia non chiede di essere sconfitta, ma di essere vissuta”. […] Essa contiene il germe della possibile trasformazione. Nei sistemi biologici, anche da un punto di vista evolutivo, questo accade: il sistema si trova in una situazione di ordine che non è più idonea all’ambiente e ha due chance: o si distrugge o trova un altro ordine, magari più complesso e più differenziato.

Erica Poli

Subito mi sono ricordato degli articoli di Simon nei quali scrive come il procedere della creazione in senso sincronico sia caratterizzato da un passaggio da un ente semplice (poco composto) ad uno complesso. Attenzione: questo “movimento” non è da intendersi in senso positivo (cioè positivista), come potrebbe apparire dai discorsi dei medici qui riportati, quanto piuttosto – in senso tomista – come un allontanamento dalla perfezione propria della semplicità iniziale. La qual cosa in effetti demolisce in parte l’ottimismo del discorso che qui i medici intraprendono, ma d’altra parte è Verità assodata per un cattolico credere alla caduta e al peccato originale che “sporca” qualsiasi cosa in questo mondo. Non è male sapere che comunque la malattia da un lato è prova del peccato nel mondo (non atto di un Dio maligno…) e insieme possibilità di cambiamento, o meglio di redenzione.
Prosegue la Poli:

[…] Tutti i guariti parlano di un momento di “cuspide” dal quale o si distruggevano o cambiavano; un punto parabiotico nel quale davvero gli elementi della vita si sono modificati per arrivare ad un’essenza. Essenza che non può essere scandagliata dalla sola scienza perché tocca l’individuo nella sua interezza e va al di là di ciò che è puramente oggettivo. La scienza ha necessità di avere un oggetto, ma in questo caso si dimentica che il suo oggetto sia colui che indaga il suo oggetto sono soggetti. E come tali impossibili da comprendere in toto dalla scienza.

Erica Poli

Si torna insomma ai motivi che portano alla condanna senza appello dello scientismo, lanciata da Adriano Virgili nel suo libro “Incontro a Gesù” e reperibile in questo “quaderno di Croce-Via”.
Occorre, a quanto pare, ritornare ad un aspetto di ars medica, cioè pensare che il medico è colui che ha anche competenze scientifiche, ma non solo. Medico e paziente sono in un qualche modo “complici” di un processo di cambiamento, non di risoluzione. Si tratta cioè di accompagnare il processo della malattia attraverso la cura. Come dice il vecchio adagio insomma: medicus curat, natura sanat! Il medico dunque, a detta della Poli, dovrebbe essere insieme al paziente colui che “custodisce” il processo della malattia, il processo di una nuova gestazione di cambiamento che la malattia in qualche modo costringe a fare, pena la fine. Qui la Poli entra in un discorso di fede:

Stiamo parlando in termini di ricerca individuale e curata sul soggetto che è sempre individuo a sé. Aspetto che non può essere esaurito dalla scienza e nemmeno da una certa spiritualità che in realtà ripropone la stessa cosa che fa la scienza: dà protocolli di perdono, fornisce modalità per gli esercizi di meditazione… ma non comprende questo l’aspetto misterioso di cui parliamo.

Subito dopo Maurizio Grandi parla dell’ideologia del “farmaco” e delle cosiddette linee guida facendo considerazioni davvero interessanti, soprattutto quando si addentra nei numeri statistici di quelli che paiono essere i farmaci pressoché inutili. A tale proposito parlano poi degli “assensement” dei fattori emotivi introdotti nei pronto soccorsi del Canada: figure professionali (medico, psicologo) che si occupano di fare un triage emotivo/emozionale dei sintomi dei pazienti e che hanno di fatto abbattuto la spesa sanitaria degli accessi al PS, di visite ripetute per dolori sconosciuti e, appunto, assunzione continua di farmaci inutili. Una simile figura professionale in Italia, con l’enorme quantità di avvocati solertissimi a fare il loro lavoro, temo non potrebbe mai prendere piede…

Più il dialogo procede comunque, più ci si rende conto che i medici stanno cercando di dire in tutti i modi come la realtà dei sintomi di una malattia sia legata a doppio filo a tutto quello che investe una persona immersa nella realtà e contemporaneamente a come l’individuo stesso risponde a questi stimoli. E questo forse non è che puro buon senso.
Mi sovviene ora la prima parte della poesia “I due orfani” di Pascoli. Poesia terribilmente meravigliosa. I due orfanelli, nei loro letti, circondati dal buio, guardano la loro solita camera da letto che ora – dopo la morte della madre – appare paurosa. La realtà oggettiva, sempre uguale, ora spaventa. 1

Questa prospettiva di soggettività, se da un lato pare dia cibo al relativismo, cosa non vera in quanto è necessario per questa soggettività un fondamento oggettivo fisso che è l’esistenza del reale in quanto tale, in realtà demolisce senza appello lo scientismo nella scienza. Dice il dott. Grandi a riguardo:

Intorno c’è un mondo che non viene analizzato. […] Quale è la realtà? Quale è quella che a noi sembra la realtà, ma non è che un aspetto pulviscolare? Quando le è capitato di innamorarsi cosa le è cambiato a livello molecolare? Nulla, però è cambiato tutto. Cosa abbiamo noi di diverso come concentrazione di carbonio e ossigeno rispetto alla sua scrivania? In noi c’è vita, là forse c’è un altro tipo di vita, ma di sicuro non la nostra […] bevi un vino ascoltando musica classica oppure musica rock, con tutto il rispetto, le molecole del vino sono le stesse, ma i rapporti fra le stesse e le mie… no. […] Abbiamo bisogno di sensorialità per vivere. […] Si pensi anche solo che la massa atomica del nostro corpo non è che il 4% del volume che occupiamo. Noi siamo per 96% “vuoto”… ma è vuoto davvero?

Maurizio Grandi

Subentra quindi un discorso di identità. Pare infatti che l’identità di una persona, sia essa legata al territorio, alle sue tradizioni, ai rituali propri, ai legami, che si creano con le proprie radici e al proprio ambiente, determina anche la radice biologica della persona.

Chi è in conflitto o chi perde la relazione con la propria radice, perde un potenziale di autoguarigione.

Erica Poli

Sarebbe interessante sottolineare questi aspetti a chi (s)parla su quanto sia brutto, assurdo, disumano il cosiddetto movimento sovranista, o meglio quanto sia “brutta” e poco politicamente corretta la difesa delle proprie radici, anche culturali. Ma procediamo.

Il discorso sulle tradizioni porta direttamente al tema dei ricordi e al tema del tempo. Tralascio l’accenno sulla fisica quantistica, anche in questo caso a mio avviso troppo spesso citata a sproposito, ma quel che resta di buono è l’idea di una medicina basata sul tempo non newtoniano. Sul finale però la dottoressa scivola indicando la via per una idea di tempo a mio avviso ancora lontana dalla realtà, lo vedremo.

Iniziamo chiarendo degli aspetti ignorati da moltissimi:

Quando una persona viene da me, siccome è immersa e vive nel paradigma meccanicista, […] ha una idea lineare del tempo e che esiste un principio che regola la nostra vita: causa e effetto. Qualcosa che esisteva prima, genera qualcosa dopo. Questo produce grossi danni. […] Tutti, quando cercano i motivi del malessere, li cercano nel passato e ritengono che una volta trovati i motivi passati staranno bene. Per altro vogliono che in qualche modo i motivi passati glieli trovi tu! Chiedono in breve: “sollevami dal carico di essere un essere umano”. Toglimi dal mistero, sollevami dalla mia complessità, sciogli il mio segreto! Il che è una cosa terribile perché vuol dire toglierti la tua originalità. Succede anche nelle religioni diciamo “positiviste”, dammi la ricetta che mi faccia stare tranquillo, in cui io mi acquieti; non succede invece nelle religioni più mistiche, quelle cioè che va a cercare il “legame con le cose”, che è l’etimo stesso della parola “religione” per altro.

Erica Poli

Su questo punto finale rispondo che, ovviamente, il cattolicesimo romano va a nozze con l’idea di “religione come ricerca del legame fra le cose” e con il misticismo. Al massimo è la visione ideologica portata avanti da alcuni gruppi o singoli, oppure è la visione distorta dei media o di singoli che non hanno approfondito certi aspetti oggettivi del cattolicesimo, a creare una idea di religione cristiana “positivista”, cosa naturalmente assurda per chi questa fede tenta di approfondirla oltre che viverla. Il discorso è ampio perché per altro qui bisognerebbe distinguere fra religione e fede, ma andiamo avanti.

La professoressa viene al dunque e dichiara che a lei non interessa sapere il perché iniziale e ne spiega il motivo, che è scientifico! Lei cita degli studi di un allievo di Joseph Ledoux (neuroscienziato) che ha studiato, attraverso le cavie, il ricordo. L’esperimento era così combinato: delle cavie erano sottoposte a impulso sonoro e contemporanea scossa elettrica. Dopo un pò, si capisce, bastava lo stimolo sonoro per scatenare nelle cavie la medesima impronta fisiologica della scossa. E’ una memoria pavloviana: stimolo=effetto. Ebbene, a quel punto – con una memoria creata ad hoc – lo sperimentatore inietta nella cavia, al momento preciso del nuovo impulso sonoro, una sostanza che blocca gli enzimi che servono a richiamare delle traccie emnesiche. Che succede?

Non avendo più quella capacità legata all’inibitore enzimatico di riattivare la rete neurale, le cavie non rispondono più allo stimolo sonoro come se ci fosse la scarica elettrica. Cioè hanno dimenticato l’associazione. E, cosa più interessante, non la ricordano più. Cioè una volta che è stato interrotto quel link, la traccia amnesica è perduta.

Cosa dimostra questo esperimento? Dimostra che quando ricordiamo qualche cosa, noi non andiamo a prendere il ricordo da qualche parte, ma lo riviviamo, cioè lo ricreiamo in quel momento. Non esiste prima, non è in una biblioteca dove lo si va a prendere. Tu ricrei l’esperienza in quel momento e la rivivi, tant’è che una sostanza te la può bloccare a tal punto che non la ricordi più. Cioè se tu smetti di riviverla in quel momento, la traccia amnesica non c’è più. […] Se fosse un ricordo fissato, una volta “riattaccato il cavo” il ricordo ci dovrebbe ancora essere e invece non c’è più. Questo cambia il paradigma anche dello psicoterapia. Significa che ripensare a te significa che tu stai rivivendo un “modo di funzionare”, un modo di essere del tuo organismo, un continuo suonare una musica che crea la tua identità. Se vieni nel mio studio io ti chiedo di suonare un’altra musica […], questa esperienza interrompe il “suono precedente” e quindi quel suono non esiste più. Il tempo prima non c’è prima, ma è sempre creato adesso sulla base di una abitudine neurale, di un funzionamento ripetitivo, ma non è che esiste prima, il prima non ci compete, ci compete l’adesso. Certo, è facile suonare quel che già c’è, ma se aiutati è possibile suonare modificando quel “Prima” e quel qualcosa dopo sarà necessariamente diverso. Quindi non è necessariamente vero che le memorie traumatiche abbiano un preciso peso nel determinare la tua psicopatologia! Ce l’hanno il funzionamento immagazzinato nelle tue strutture rispetto ad una esperienza che ha lasciato un imprinting. E tu continui a ripetere questo imprinting.

Enrica Poli

Fin qui tutto abbastanza bene. Poi la Poli tira una staffilata metafisica sulla quale non sono d’accordo. Ma onore al merito: almeno lei si accorge di star facendo metafisica, non scienza pura…

Questo a pensarci bene, da un punto di vista metafisico, va a confermare quel che Robert Lanza dicono del tempo. Il tempo è un tempo circolare, non lineare. E’ un ciclo che si ripete a loop a meno che… tu non cambi musica. Cambiando musica, tu hai in un certo qual modo, modificato il passato.

Elena Poli

Muovo alcune critiche, in primis su quest’ultimo – fin troppo poetico – punto. A me pare piuttosto che quanto detto dalla dottoressa provi, da un punto di vista metafisico, che l’uomo vive il solo presente e passato e futuro non esistano affatto e quindi si rientri perfettamente nell’idea temporale aristotelica.

Altre critiche, la prima banalissima: non siamo cavie. Non è forse una idea meccanicista che il funzionamento del cervello di una cavia debba per forza corrispondere in toto al funzionamento del cervello umano che per altro fa capo ad un “mistero” proprio dell’uomo legato a doppio filo con aspetti animici e razionali che la cavia evidentemente non ha? Secondo: non si capisce se alla fine lo sperimentatore ha riprovato a usare il suono unito alla corrente elettrica e che cosa ha osservato. Poiché qualora i topi abbiano riattivato l’effetto pavloviano, chi dice che è un nuovo ricordo e non invece una riproposizione del vecchio? Chi ci dice che le cavie, mentre vivono questo nuovo ricordo (qualora ci sia), non sentano comunque che quella sensazione… non è nuova? Che non è la prima volta che la sentono? 2

Con questo in mente, il punto cardine che mi sembra sfugga nel confronto: i ricordi non sono né i fatti che avvennero (e va bene, è ovvio), né la verità oggettiva di quel che avvenne (il fatto è un fatto, il ricordo del fatto è sempre soggettivo) e nemmeno la verità storica oggettiva ( se mai epistemologicamente possa esistere) di quel che avvenne. Questo comporta per prima cosa che i ricordi stessi non risultino sempre uguali, non siano sempre gli stessi libri che vengono tolti dallo scaffale, ma risultino come “libri diversi” che cambiano in base a chi in quel momento li sta rileggendo, rivivendo. I cambiamenti dunque sono di tipo soggettivo, personale. I ricordi sono interpretazioni soggettive di memorie parziali di fatti oggettivi vissuti SOLO in prima persona, per questo malleabili da spazio e tempo, anche questi ultimi soggettivamente intesi e vissuti dal soggetto.

E qui tutto il discorso fatto dai professori finora sta in piedi ed è puro buon senso! Se ripenso alla morte di mio padre in un momento di solitudine o crisi, mi appare in un certo modo; il medesimo episodio in un momento di riflessione con un amico, mi appare in un altro modo; di fronte ad un sacerdote in un altro ancora. Non è forse il prof. Grandi stesso che in precedenza diceva: “lo stesso vino rosso bevuto ascoltando Mozart non è uguale se bevuto sotto una musica rock”? Appunto! Con i ricordi è la stessa cosa: non sono immagini sbiadite di quel che fu, ma storie che viviamo oggi in base a come e chi siamo oggi. La professoressa stessa infatti dichiara che il ricordo viene rivissuto al momento presente perché solo il presente esiste. Ed è così effettivamente, altro che tempo circolare. Tutta la presentazione della dottoressa mi pare perfettamente inquadrabile nella visione metafisica di tempo aristotelico tomista.

Il discorso è che oggi il portato soggettivo è diverso comunque da “ieri” dunque anche il rivissuto del ricordo non può che essere cambiato e quindi con esso cambia anche il ricordo. Per citare la Poli, “è cambiato il passato”. Ma il passato non è, pertanto non si può cambiare. Diremo pertanto che rivivere un ricordo è sempre come pensare ad un fatto vissuto per la prima volta.
Pertanto non mi pare importante sapere se il ricordo cessa di esistere qualora si tolgano i collegamenti fra causa ed effetto che producono quello stesso ricordo, bensì riconoscere come il ricordo sia un moto dell’anima personale variabile nel tempo, movimento che – se variato – praticamente modifica completamente il ricordo e trasforma nell’oggi colui che lo rivive. E di questo credo che tutti abbiano fatto esperienza. Non vi è mai capitato di trovarvi con un problema che un giorno sembra insormontabile e il giorno dopo, magari con altro umore, con altra situazione, altro contesto, appare in una luce più tenue o addirittura un non problema?
Per i ricordi, uguale. Entra nel discorso il prof. Grandi che cita Sant’Agostino e, in lontananza, richiama -come un eco- la grande ricerca dell’arché dei primi grandi filosofi e sale, con uno sguardo teologico, verso un trascendentale tomista e a un richiamo ad un certo Giovanni Evangelista…

Circa il tempo Sant’Agostino c’era già arrivato. Chiamatela fisica quantistica, circolarità del tempo… ognuno è figlio del proprio tempo e degli etimi che vengono usati in quel momento, il punto è cosa stanno cercando le persone che fanno ricerca? Cosa è quella cosa che sotto intende tutte queste forme, quella cosa che chiamare “energia” è riduttivo? Che è… lo stesso criterio della bellezza.

Chiudo con quello che sosteneva Henri Laborit di cui sono stato assistente tanti anni fa. Lui si proclamava ateo, poi bisogna discutere se dentro lo fosse davvero, però riteneva che esistesse il cosiddetto “sistema dei sistemi”, il suo flauto magico lo definiva semplicemente: Amore.

Maurizio Grandi

Chiude la Poli con una stoccata che dovrebbe far riflettere chi comincia a giustificare robe come “l’utero in affitto”…

Noi siamo passati da un paradigma genetico ad uno epigenetico. Erano gli anni 70 quando il genetista Strohman dichiarava che andava rivista l’idea deterministica di DNA: dalla sintesi proteica alle proteine. In realtà il processo è bidirezionale, vale anche dall’ambiente al DNA. L’ambiente cosa è? Aria, acqua, cibo, caldo, sole, buio, inquinamento… ma anche l’ambiente della nostra vita. L’ambiente uterino ad esempio […] che non è solo l’utero in sé, ma l’acqua dell’utero, il sangue del cordone, i movimenti umorali della madre, umore chimico e umore psichico.

Noi oggi sappiamo, grazie ad una ricerca finlandese di 3 anni fa, che le emozioni della madre sono in grado di modificare la produzione e la sintesi di microRNA che sono dei regolatori del DNA del feto. Sappiamo che ci sono fattori regolatori portati dagli spermatozoi che regoleranno l’espressione genica di quel DNA. Tanto più che si può fare il parallelismo fra la massa e il vuoto di cui parlava Maurizio: di fatto solo il 4/5% del DNA codifica di fatto e il resto cosa è? Vuoto? No, regolazione. E’ orchestrazione della sintesi proteica e su quel 96% agisce l’ambiente che interviene ad indirizzare l’espressione di quel DNA. E le relazioni, nell’ambiente, gioca un ruolo fondamentale.

Ma dove voglio andare a parare con questo discorso finale sui ricordi? In primis in questi argomenti ritrovo il concetto di “vivere il presente” in quanto unico possibile momento di vita per l’uomo, perché passato e futuro sono dimensioni che, qualora non siano sovrastrutture prospettiche date dal nostro modo di percepire il reale, non ci competono (più o ancora). Tutte lezioni che per altro mi pare abbia cercato di far passare Simon nei suoi articoli qui su blog.
Inoltre impatta anche con l’idea che noi abbiamo dei nostri peccati e con il ricordo degli stessi. Questa consapevolezza potrebbe aiutarci a comprendere meglio quando siamo soggetti allo “scrupolo” oppure capire se un peccato che appare orrendo forse non sia da riconsiderare come veniale, oppure – cosa più facile – il contrario.

Infine soprattutto ci fa comprendere quanta fede ci voglia nella confessione. Nella stessa infatti noi non facciamo nient’altro che riproporre una narrazione di un ricordo il quale non è che una personale narrazione dell’atto stesso considerabile peccaminoso. Come si diceva questa narrazione – oltre a non essere ovviamente il fatto stesso ne tanto meno la verità storica (e quindi morale) del fatto stesso – sarà differente nel portato in base a chi abbiamo davanti, a come reagisce, a come stiamo e a tutto quello che si è detto. Se la narrazione è soggettiva pur in presenza di una persona esterna ai fatti, figuriamoci quando essa avviene completamente all’interno di un soggetto che si interroga su di sé e sulle sue colpe. In questo senso si coglie il lungimirante motivo per il quale è giusto che si sia “perdonati” pel tramite di una persona esterna a noi. Si potrebbe arrivare a dire che la “confessione” protestante, fatta fra sé e sé, in realtà non agisce nemmeno “scientificamente” a sanare le ferite. In una battuta si potrebbe dire: confessio curat, Christus sanat. O come direbbe Nembrini: abbiamo tutti bisogno di sentirci perdonati perché nessuno, quando si autoperdona, si perdona veramente. 3

Un ultimo aspetto: il mistero dell’uomo, il “chi siamo noi veramente”, anche nella confessione cristiana, in quel frangente così intimo e segreto persiste intatto.
Bello è sapere che tale sacramento, in barba a quel che pensano i maldicenti, non sia una mera “ricetta di perdono” da religione positivista, bensì un confronto fra pari, entrambi misteri per sé stessi, che si mettono in gioco sapendo (perché fede è conoscenza) che sopra, pel tramite di uno di loro, presiede chi sa scrutare il cuore e il mistero di entrambi e quindi perdonare eventuali racconti distorti da idee fallaci o incomprensioni reciproche possibili; cioè sopra c’è chi sa perdonarli nonostante loro stessi.

In questo senso dunque hanno senso le parole che suggeriscono di non trasformare i rituali dei sacramenti cristiani a mere regolette ferree o troppo umane e, all’opposto, si comprende meglio perché la Chiesa dichiara di non poter essere certa della salvezza di nessuno se non per fede nelle parole di Colui che lei è stata chiamata a… ricordare: Gesù Cristo N.S.

In questo sta la necessità per l’uomo di una relazione continua con il divino che ne coltivi l’amicizia e quindi la fiducia. Ricerca di relazione con l’esterno che è la cifra esistenziale stessa della natura umana: uomo come relazione. Questa conclusione, totalmente antimoderna, è dunque vera non solo per la teologia cattolica o per l’antropologia tomista, ma in ultima analisi anche per la scienza medica:

Da alcuni studi di scienziati dell’attaccamento si è capito che il neonato arriva al mondo dotato di una innata spinta alla relazione. Dopo poche ore già differenzia sul suo volto anche 10 espressioni diverse e dopo una settimana riconosce 70 diversi sorrisi della madre. Egli cerca la relazione e la relazione agisce sullo sviluppo delle sue strutture, agisce sul sistema nervoso centrale periferico.

Erica Poli

Dice la “dottrina” antropologica tomista: l’uomo nasce come un foglio bianco e insieme con una natura. E la medicina?

Noi non nasciamo già fatti, come degli elettrodomestici che vai a comprare e che al massimo devi solo studiare come funziona, il nostro sistema è un sistema immaturo che si sviluppa a partire dalla relazione. […] Nel neonato abbiamo delle strutture innate, dei pattern precisi che non ci permettono di essere diversi da ciò che il codice umano dice (4) […], siamo umani e di questi abbiamo le strutture, ma come queste strutture si svilupperanno, cioè come il nostro DNA manifesterà un certo fenotipo dipende in grandissima misura dall’ambiente e un fattore eminente dell’ambiente è la relazione. Cosa fa più di tutto? Non che necessariamente sia andato tutto bene, cosa irreale in quanto la vita è un “viaggio dell’eroe” se vogliamo usare un archetipo, ma bensì che sia fatta salva la risonanza, cioè che tu incontri qualcuno che ti guarda, ti vede e ti riconosce, cioè è in grado di comprendere quel che gli stai dicendo nei molti modi in cui si comunica: parole, gesti, sguardi, tocchi…

Erica Poli

E chi sappiamo ci comprende meglio di quanto noi stessi comprendiamo di noi? A chi fare affidamento in toto perché non solo conosce il mistero dell’uomo in sé, ma conosce a pieno il nostro cuore che è unico ed inimitabile? Chi è che conosce la natura umana banalmente perché ne è l’artefice e colui che la mantiene nell’essere, nel presente che è?
Domande retoriche non solo per chi si professa cattolico, ma anche per chi – come i tomisti – crede che il reale mostri in ogni dove, seppure come in uno specchio di Paolina memoria, il volto di “colui che è”.

  1. Anche a que’ tempi noi s’avea paura: / sì, ma non tanta “Or nulla ci conforta, / e siamo soli nella notte oscura
  2. Curiosità: quest’ultima, anche se non totalmente a fuoco, è la tesi filosofica mente/corpo di fondo allo straordinario film “Eternal sunshine of spotless mind“: lui fa di tutto per dimenticare un grande amore, ma destino e mente gli fanno uno scherzo… consigliatissimo.
  3. Non è un caso che nel finale della poesia di Pascoli citata in 1, il dialogo fra i due orfani verta proprio sulla mancanza di un vero perdono: «Essa era là, di là di quella porta; / e se n’udiva un mormorìo fugace, / di quando in quando». «Ed or la mamma è morta». «Ricordi? Allora non si stava in pace / tanto, tra noi…» «Noi siamo ora più buoni…» / «ora che non c’è più chi si compiace / di noi…» «che non c’è più chi ci perdoni».
  4. Chiunque legga in queste parole una critica implicita ai movimenti genderisti, temo scoprirà di aver avuto la vista lunga…


Categories: Filosofia, teologia e apologetica

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15 replies

  1. Che bell’articolo! Grazie.

  2. Carissimo Minstrel, ti ringrazio per questo portentoso articolo che spazia dalla medicina alla teologia con eleganza.

    L’ho letto e riletto almeno tre volte e vi ho trovato certamente nutrimento per riflessione, tanta è la carne al fuoco.

    La relazione con la nostra rilettura del nostro peccato personale è sapiente e realista: secondo me ci aiuta a meglio capire quel che i grandi santi hanno sperimentato e cioè la doppia capacità che hanno, frequentando lo Spirito Santo sempre più intimamente, di capire e risentire sempre meglio a quale punto i loro peccati anche i più insignificanti sono stati atti orribili di rifiuto dell’amore divino da un lato , ma anche quanto la misericordia che ricevono da Dio stesso sia assolutamente indovuta e gratuita e, per questa ragione, ancor più amorevole.

    Questo rendersi conto, questa capacità di rilettura dei propri comportamenti, lungi dall’essere per loro una sorgente di angoscia corrisponde allora ad una libertà accresciuta e felice.

    Metter un nome sul proprio peccato, senza false scusanti, diventa infatti liberatorio, come ben illustrato nel dialogo qui sopra da te relato.

    È il contrario dell’innaturale proposta di certi pseudo-pastori contemporanei che vorrebbero, al contrario, “dimenticare” o “minimizare” gli atti di non-amore commessi nel passato, affongandoli in un mare di scuse e di spiegazioni, rendendo così il peccatore schiavo, angosciato ancora di più, perchè la sua coscienza retta non ne percepisce il tornaconto, la sua oggettiva relazione passata a Dio non essendo riconosciuta in quanto tale,ma obliterata da un rifiuto fattuale di riconoscersi peccatori e in debito: tornaconto spinto e dimenticato nell’inesistente “futuro”.

    Comunque grazie.

    In Pace

    • “È il contrario dell’innaturale proposta di certi pseudo-pastori contemporanei che vorrebbero, al contrario, “dimenticare” o “minimizare” gli atti di non-amore commessi nel passato, affongandoli in un mare di scuse e di spiegazioni, rendendo così il peccatore schiavo, angosciato ancora di più, perchè la sua coscienza retta non ne percepisce il tornaconto, la sua oggettiva relazione passata a Dio non essendo riconosciuta in quanto tale,ma obliterata da un rifiuto fattuale di riconoscersi peccatori e in debito: tornaconto spinto e dimenticato nell’inesistente “futuro”.”

      E la cosa più diabolica è che lo fanno perché “funziona”, nel senso che l’uomo non vede l’ora, a livello naturale e carnale, di non riconoscere il proprio peccato, proprio perché l’uomo carnale/naturale che è in noi anela a questo.

      Diabolico definire ciò “misericordia”, diabolico definire in tal modo l’incatenare il peccatore al suo peccato. E tanto più diabolico quanto più “facile” da fare in quanto fa leva sulle debolezze umane insite in tutti vista la nostra natura deturpata dal peccato originale. È come rubare le caramelle ad un bambino, a parte quando lo si fa con cattolici adulti (nel vero senso della parola, non nel senso inteso da Prodi a suo tempo).

  3. Tutte sante parole quelle sul peccato.
    Spero che ognuno (anche qui) le applichi a se stesso nei propri atti quotidiani e non siano rivolte solo agli altri.
    E spero che i peccati non siano solo quelli di origine sessuale ma comprendano anche l’egoismo, l’ira, la malizia, l’offesa gratuita, l’indifferenza al dolore altrui, la leggerezza di giudizio ed il pregiudizio sulle persone (viste come categoria e non come singoli) etc etc.
    Di peccati ce ne sono parecchi. Vigilare su se stessi non è facile ed intercettarli ancora più difficile, e per me nella mia vita è la cosa più difficile. Bisogna chiedere al Signore la più fragile delle virtù : l’umiltà.

  4. Mi dispiace un po’ che il confronto partito sul tema della malattia (come considerarla, come viverla, come sanarla o come “evolverla” o evolversi), non sia stato a mio parere, ulteriormente approfondito…

    Così il confronto è slittato, sull’essere e il “chi” siamo, sul Tempo e sul ricordo e altro…
    Quindi certo molti spunti, ma poco di realmente approfondito.

    Ma forse il tutto dipende da una “ristesura”, da un sunto della “lunga chiacchierata integrale” che per ora non sono andato a riascoltare… (non vuol essere una critica)

    Su un preciso punto però vorrei ritornare che è quello dove, partendo dalla interpretazione del “ricordo” che condivido per come minstrel l’ha presentata

    Con questo in mente, il punto cardine che mi sembra sfugga nel confronto: i ricordi non sono né i fatti che avvennero (e va bene, è ovvio), né la verità oggettiva di quel che avvenne (il fatto è un fatto, il ricordo del fatto è sempre soggettivo) e nemmeno la verità storica oggettiva (se mai epistemologicamente possa esistere) di quel che avvenne.

    si arriva a parlare del peccato

    “Infine soprattutto ci fa comprendere quanta fede ci voglia nella confessione. Nella stessa infatti noi non facciamo nient’altro che riproporre una narrazione di un ricordo il quale non è che una personale narrazione dell’atto stesso considerabile peccaminoso.”

    Qui attenzione, perché la Confessione, non è “la narrazione personale dell’atto considerabile peccaminoso”, almeno non se per Confessione parliamo della Sacramento dove è necessaria “l’accusa dei peccati”.

    I peccati son atti e hanno un nome: se ho rubato, ho rubato (e sono stato ladro); se ho mentito, ho mentito (e sono stato bugiardo) e via discorrendo.
    Questo ci aiuta dal cadere in una “narrazione” che spesso proprio perché soggettiva, cede spesso nella auto-giustificazione o come si usa dire “nell’accusa dei peccati …altrui!”!

    Cosa diversa è la Direzione Spirituale, dove la “narrazione” può avere un senso e dove ci sia augura, il bravo Consigliere Spirituale, come bravo medico, a partire dai sintomi, seppure riportati in modo soggettivo, sa comprendere le cause e proporci la giusta “medicina” e il percorso di guarigione e/o di riabilitazione.

    Non a caso ho scelto questa metafora, perché ritengo sia molto importante tenere presente che il peccato commesso, non appartiene solo e soltanto alla sfera del passato che è passato o al ricordo che per quanto ci rattristi e umili (si spera) è *ricordo*, con caratteristiche soggettive di cui si è detto. Il peccato genera la MORTE!
    E se non morte subitanea dell’animo che vede il fuggire inevitabile dello Spirito Santo dal nostro spirito, certamente inocula in noi dei virus o elementi patogeni (usiamo la metafora che più ci aggrada) che infettano il nostro spirito con sintomi ben visibili anche sul piano psicologico, quando non persino fisico.
    Non ha caso Cristo è venuto per i malati (Marco 2,17) ed è Lui l’Unico vero Medico, che guariva anche i malati fisici come segno e a dimostrazione che Lui solo può guarire l’Uomo dal suo peccato.

    «Che cosa dunque è più facile, dire: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati e cammina?» (Matteo 9,5)

    In questo binomio peccato-malattia, lo svilupparsi di un raffronto anche simbolico o metaforico, ma spiritualmente concreto, credo sarebbe molto interessante.

    ————————–

    Ultima nota a margine, nel passaggio della Dottoressa Poli

    “Noi non nasciamo già fatti, come degli elettrodomestici che vai a comprare e che al massimo devi solo studiare come funziona, il nostro sistema è un sistema immaturo che si sviluppa a partire dalla relazione. […] Nel neonato abbiamo delle strutture innate, dei pattern precisi che non ci permettono di essere diversi da ciò che il codice umano dice (4) […], siamo umani e di questi abbiamo le strutture, ma come queste strutture si svilupperanno, cioè come il nostro DNA manifesterà un certo fenotipo dipende in grandissima misura dall’ambiente e un fattore eminente dell’ambiente è la relazione.

    se da una parte si ribadisce che il DNA ci impedisce dall’essere diversi da ciò che siamo (maschio o femmina, ad esempio), tutto il prosieguo del discorso, potrebbe far pensare che sono l’ambiente e le relazioni che andando a formare il fenotipo (l’insieme delle caratteristiche morfologiche e funzionali di un organismo) diranno “chi” sei, almeno quanto a “orientamento sessuale”…

    • Se è vero che la materia della confessione, in quanto sacramento, non è “la narrazione personale dell’atto considerabile peccaminoso” ma, semplicemente, l’ “auto-accusazione” dei propri peccati, il fatto di riconoscere un atto del passato come peccaminoso,come anche di rivalutarne la sostanziale gravità agli occhi di Dio, fa che il ricordo antico dell’atto specifico rivissuto al momento presente con una più vicinanza sprirituale con Dio, ha una tutt’altra pregnanza.
      E questa nuova pregnanza può condurre ad una riclassifica soggettiva del peccato e quindi ad una sua più pertinente accusa.
      Questa dinamica, che qualificherei di mistica santificante è in contrapposizione con il desiderio che certuni hanno di voler minimizzare all’interno di un discorso razionalizzzante, strutturato con scusanti e spiegazioni varie, e che sono , esse si, delle narrative che non hanno nulla di mistico ma solamente di estremamente umano.
      Per riallacciarci al discorso dei divorziati risposati e al loro accesso alla comunione, l’approccio mistico cristiano non è, quindi, quindi quella di andare a cercare tutte le “buone”ragioni per le quali si è cascati nel peccato di adulterio permanente, ma, piuttosto, nell’accompagnare le persone coinvolte ad entrare in una relazione genuina con Dio, dove la gravità degli atti posti appaia loro nella loro peccaminosità, conditio sine qua non per poter accusarsi e ricevere l’assoluzione. Con l’approfondimento della loro vita di fede la gravità degli atti posti apparirà loro con la chiarezza che lo Spirito Santo darà loro.
      Come sappiamo la Santa Comunione non è solo la ricompensa dei Santi ma anche il viatico della persona che, rinunciando al peccato mortale, ma rimanendo ancora nel peccato veniale a causa dei propri vizi, ha desiderio di unirsi al Cristo Gesù sempre più intimamente: in Questa la condanna di Giuda fu radicale, in quanto si comunicò con il desiderio di commettere un peccato mortale, anche se con tantissime ottime ragioni dal suo punto di vista; e quando si suicidò il ricordo, anche se fresco, di quel che aveva fatto nel suo passato, gli fece misurare, nel suo presente, l’orrore compiuto, ma decise di non andare ad accusarsi ma piuttosto di attenersi alla sua razionalizzazione in stridente contrasto con la sua esperienza memoriale e da questo conflitto scaturì l’unico esito ormai possibile nella libera scelta della propria dannazione.
      In altre parole, se si impedisce ad un peccatore di sperimentare nella propria memoria l’orrore del proprio peccato, in particolare annegandolo in un mare di “buone” ragioni dell’aver peccato, lo si condanna in realtà alla dannazione eterna.
      Il possibile cattivo uso dell’insegnamento di Amoris Laetitia (di per sè inattaccabile se letto in modo ermeneuticamente continuo con la Tradizione della Chiesa al riguardo) può quindi condurre con certezza alla dannazione eterna dei soggetti coinvolti, direttore “spirituale”, sacerdoti e vescovi inclusi: occhio quindi.
      In Pace

      • “Il possibile cattivo uso dell’ insegnamento dell’ AL “ da parte dei sacerdoti vescovi ecc. puo’ portare alla dannazione eterna , ecc.
        Ma le intenzioni quali sono?
        Cioe’ per il cattivo uso bisogna che vi siano cattive intenzioni da parte dei soggetti coinvolti cioe’ di usare l’ AL per i propri desideri cioe’ l’ intenzione di scusare e minimizzare il peccato e di “ venire incontro” ai penitenti fuori la giusta misura, solo per il desiderio diciamo cosi’ di risultare piu’ graditi a un “ target” di penitenti sempre piu’ numeroso nei paesi Occidentali cioe’ i divorziati risposati. Al di la’ di tutto mi chiedo e’ piu’ misericordioso e amorevole ricordare al penitente, magari con severita’ ( come facevano spesso i Santi) la possibilita’ della dannazione se persiste nel comportamento peccaminoso, o la rassicurazione bonaria e l’ “ accompagnamento” anche prolungato in situazioni di peccato mortale?
        Padre Pio non “ accompagnava” i penitenti, o li assolveva o li cacciava dal confessionale.
        Cosi’ il Santo Curato d’ ARS , non accompagnava chi veniva a confessarsi in lunghi patteggiamenti e compromessi con la propria colpa. Questi Santi sacerdoti erano piu’ severi per vera misericordia e amore delle anime. Chi oggi parla di misericordia dovrebbe definire cosa intende per misericordia: il medico che non cura la piaga e neppure dice al paziente quanto sia grave la piaga per non spaventarlo, e’ misericordioso?

      • Se da un lato chi opera la piena “illuminazione” del nostro peccato (nel senso di portare alla luce) è lo Spirito Santo, dall’altra chi agisce perché non si esca dalle tenebre e anzi essendo egli l’accusatore dal Principio, perché si porti la disperazione dell’accusa alle estreme conseguenze (vedi Giuda) è Satana.

        Ciò non significa che noi siamo inerti e inermi tra due azioni distinte, ma che a noi sta la scelta: aprirci alla Grazia o restare chiusi nelle nostre tenebre (che sono anche l’auto-giustificazione), prede dei sofismi del demonio…

        Vero è che i cattivi maestri o cattivi consiglieri possono tirarci in inganno, ma se siamo realmente in buona fede la responsabilità della colpa cadrà su di loro, per contro se si è sempre alla ricerca della Verità e con l’animo sempre aperto all’azione dello Spirito, questi non si fermerà certo difronte a cattivi consiglieri fossero anche paludatidi “santi ornamenti

        • … ma ci condurrà alla Verità tutta intera.

          • Lo Spirito Santo certamente ci illumina ma poi il Signore ha voluto che per essere assolti dai nostri peccati non bastasse un colloquio a “tu per tu” fra l’ anima e Dio ( che certo e’ cio’ che ci spinge ad andare a confessaci) ma ci volesse un Sacramento , la Confessione dei peccati, un atto molto concreto , persino se volete prosaico e poco “ carismatico” , che consiste nell’ umiliarsi davanti ad un altro uomo e enumerare ad alta voce tutti i propri peccati e in cui alla fine il sacerdote da’ l’ assoluzione oppure non la da’ . Come tutti i Sacramenti la Confessione ha una parte di mistero: che molti non capiscono. Molti dicono ma perche’ devo andare da un prete a confessare i miei peccati quando posso confessarli direttamente a Dio ? Se sono pentito nel mio cuore Dio lo sa, perche’’ devo avere l’ assoluzione e la penitenza daun uomo, il prete, quando posso colloquiare direttamente con Dio o come dice Bariom con lo “ Spirito Santo” .
            Il fatto e’ che l’ illuminazione dello Spirito Santo che ci fa vedere il nostro peccato se e’ certo una buona ispirazione che ci spinge ad andare a confessarci, non basta: ci vuole un uomo , consacrato da Dio , il sacerdote , che ci dica , in persona Cristi, Ego te absolvo. Oppure che ci faccia capire , se e’ un santo sacerdote, che non possiamo essere assolti perche’ non veramente pentiti E’ questo che ci fa problema. Conosco vari divorziati risposati che vanno a fare la Comunione semplicemente senza confessarsi. Sono convinti , in cuor loro, che fra loro e Dio sia tutto risolto. Del resto un consiglio simile lo dette anche Papa Francesco ad una donna a cui il parroco negava la comunione, vai a farla in una altra Chiesa dove non ti conoscono.
            La confessione e’ oggi il sacramento piu’ ignorato e meno frequentato.
            In questo modo la nostra fede cattolica si trasforma e diventa una specie di “ pentecostalismo”” in cui l’ ispirazione diretta dello Spirito Santo, l’ illusione prende il posto di un piu’ prosaico confessionale .
            Personalmente io che mi sento peccatore preferisco farmi cacciare dal confessionale da un sacerdote perche’ capisce che non mi sono pentito veramente, come faceva Padre Pio che era piu’ quelli che cacciava che quelli che assolveva , piuttosto che illudermi ed essere illuso.
            Trovarne di santi confessori al giorno d’ oggi ! Quanti preti conoscete che passano ore in confessionale ? Questa e’ la fede cattolica : concretezza: preghiera , i Sacramenti : Confessione, Santa Messa , Eucarestia . Non le chiacchiere psico-sociologiche e i voli pindarici che lasciamo volentieri alle sette pentecostali., carismatiche e spiritualeggianti.

            • Naturalmente nel citare lo Spirito Santo, non faceco riferimento alcuna ad un colloquio “colloquio diretto” tra “noi e Dio”.

              Fatta questa precisazione c’è un altro motivo pregnante per cui la confessione si fa davanti ad un sacerdote in Persona Cristi, ed è il fatto che si chiede perdono alla Chiesa, alla Comunità tutta, perché il nostro peccato ferisce e colpisce non solo noi, ma tutta la Comunità – o il Corpo se preferite – di cui facciamo parte.

        • Questa della nozione della “buona fede” è una scusante a mio parere moooooolto limitata, in quanto sappiamo per fede che lo Spirito Santo farà di tutto per far uscire un peccatore, e soprattutto colui che è in “buona” fede, dalla situazione peccaminosa nella quale si trova.

          Perchè se è vero che la colpevolezza soggettiva può cambiare, rimane il fatto che il peccato è una realtà oggettivamente nauseabonda per lo Spirito Santo che farà di tutto per farne uscire il peccatore chiamandolo alla conversione in modi svariati e non solo tramite un disastroso direttore “spirituale”, fosse anche vescovo…

          Quindi la nozione di persona che si salva perchè in “buona” fede rimanendo nel peccato per colpa altrui mi sembra più un’ipotesi morale teologica astratta da tavolino che qualcosa che possa avvenire nel reale: ad un momento dato ci deve essere una conversione concreta al Cristo sotto la spinta costante dello Spirito Santo e, possibilmente, prima di trovarsi faccia a faccia con Lui.

          Per giunta, non dobbiamo dimenticarci che la Misericordia di Dio si esprime nei nostri riguardi concretamente facendo crescere in noi l’avversione al peccato, conditio sine qua non per assomigliarGli.

          Chi insegnasse il contrario di certo non è di Cristo e non è cattolico.

          In Pace

          • E io non mi sentirei di dire nulla di diverso… peraltro avrai notato che mi sono guiardato bene dal dire in modo azzardato che basta essere “in buona fede” per salvarsi, ma ho detto su chi può ricadere primariamente la colpa…

            Per me la “buona fede” in questo caso è ha prorpio il significato letterario: un “fede buona”.

            Che è sempre in ascolto, che è sempre disposta a mettersi in discussione, che è prudente, che non si siede sugli allori, che ci mantiene sempre in perenne conversione.

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