Intervista a Stefano Nembrini: la realtà educativa italiana – II° parte

In questa seconda parte, il prof. Stefano Nembrini (Istituto VEST, La Traccia di Calcinate) illustra la sua prospettiva sulla realtà scolastica e il rispettivo problema educativo italiano, elaborando quella che a suo avviso può essere una soluzione, legata a doppio filo ad un sano realismo filosofico cattolico di fondo.

Qui per leggere la prima parte dell’intervista. Seguirà a breve la terza ed ultima parte. Buona lettura


Vorrei tornare al tema che tu hai chiamato “deserto educativo”. Non voglio generalizzare o farti fare questo errore, ma da esterno pare che oggi giorno la struttura statale educativa – con l’idea malsana di stato laico (leggasi ateo) e neutrale (leggasi portato al pensiero unico) – punti sempre di più a questa educazione competitiva e di competenze. È così? Davvero possiamo descrivere la scuola statale come una struttura pachidermica che piega i pochi grandi insegnanti che sono al suo interno, sparuti “eletti”, verso una visione a senso unico dell’educazione?

Guarda, è un tema molto complesso…

Ma da quanto ci siamo detti finora mi appare come il tema cardine! Quando ci sarà l’orientamento per mio figlio, a me piacerebbe trovare scuole che gli dicessero “guarda, in classe noi ti vediamo così e per questo facciamo questo, questo e questo” e non “se vieni da noi avrai a disposizione i computer di ultima generazione e imparerai a programmare le app di Android in 2 anni!”. Bello, interessante, ma se poi mi esce un ragazzo nauseato dallo studio o peggio? Ovviamente poi la scelta sarà sua, ma ritengo sarebbe educativo anche solo il rendersi conto che esistono scuole che hanno quello in testa e non l’aver fatto l’aggiornamento dei tablet degli studenti all’ultima versione di Android…In sintesi: esistono scuole che nell’offerta formativa mettano in premessa, chiaro e stampato, che l’uomo per loro è “questo, questo e questo” e quindi la scuola deve saper fare questo e quest’altro?

Ci sono, anche se sempre meno. Innanzitutto chiariamo alcuni aspetti: il sistema d’Istruzione in Italia vede le scuole paritarie e le scuole statali unite nel sistema di istruzione pubblica, che include tutte e due (sono escluse le scuole cosiddette “private”, come quelle che permettono di recuperare più anni in uno). La legge Berlinguer ha infatti stabilito che anche scuole non gestite direttamente dalla stato, se rispettano certi vincoli, certe linee guida e parametri, fanno parte a tutti gli effetti del sistema pubblico scolastico: le scuole paritarie, per l’appunto, come la nostra. Ed è stato un grande passo, perché viene stabilito, per legge, che ad esempio quel che qui si insegna ha valenza pubblica, fa parte dell’offerta formativa pubblica. Poi la parità come si sa è rimasta a questo livello è non è mai divenuta anche parità economica, per cui le scuole paritarie di fatto si devono reggere economicamente sulle proprie gambe, facendo pagare a voi genitori una retta, ma è un altro discorso. La parità è stata comunque un riconoscimento importante.

Soprattutto se pensiamo a come oggi viene vista la fede e come i più pensino che essa debba essere relegata alla sola sfera privata dell’individuo, il che significa non solo la fine delle opere fatte grazie alla fede e quindi della fede stessa…

Qui torneremmo a Lutero, ma restiamo sul tema. Il problema a mio avviso di tante scuole statali è un problema di “sistema”, di una macchina (quella del ministero dell’Istruzione) che negli anni non ha saputo riformarsi, ingessata da una pesante burocrazia centralizzata e incapace di concedere un’effettiva autonomia ai singoli istituti. Quindi il problema non sta tanto nelle singole scuole, ma nel sistema.  La cosiddetta riforma della “buona scuola”, con tutti i suoi difetti, aveva a mio parere nella sua prima stesura aperto qualche spiraglio in questo senso, ma come si sa le leggi che anche partono da intuizioni interessanti nel nostro paese arrivano poi a destinazione completamente traviate. I miei colleghi dirigenti scolastici si ritrovano a dover gestire ad esempio tutta la responsabilità anche amministrativa delle scuole, una burocrazia pachidermica e a tentare di costruire un’offerta formativa senza poter di fatto scegliersi “la squadra” di docenti con cui lavorare. Io credo che se ci fosse un sistema davvero efficiente e adeguato di reclutamento dei docenti da parte delle singole scuole, questo genererebbe quella sana competizione che alzerebbe il livello dell’offerta, perché le famiglie, che cercano il meglio per i propri figli, sceglierebbero in base a questa qualità. Il sistema ora impedisce questo circolo virtuoso, non permette una reale autonomia. E così ci sono docenti dediti e appassionati, così come altri che non si spendono affatto nel loro mestiere, ma avendo la sicurezza del posto fisso se ne stanno lì dove sono… In fondo questo sistema così complesso non aiuta nella costruzione di un progetto educativo, anche solo per il turn over di personale interno, tra precari, supplenti, trasferimenti… tutto questo grava nella costruzione di un’ambiente stimolante, per i nuovi docenti innanzitutto. La libertà che noi abbiamo a questo livello, certamente ci aiuta nel lavorare su un progetto educativo condiviso. TI faccio un esempio: si invoca spesso la necessità di aiutare gli studenti a trovare i nessi fra le varie materie, la cosiddetta interdisciplinarietà, quasi fosse un’impresa titanica. Ma questi nessi esistono di per sé, e se i nostri ragazzi se ne accorgono da soli fin dai primi mesi di scuola è semplicemente perché il piano educativo è condiviso fra gli insegnati, ed è un progetto chiaro. In prima ad esempio lavoriamo sull’incontro con la realtà naturale, quindi in italiano si parte dal testo descrittivo con osservazioni all’aperto, in arte si disegnano gli elementi della natura, in scienze si studiano le rocce e così via… In seconda invece si indaga l’uomo e quindi in italiano si leggono brani di letteratura che mettono a tema storie di grandi uomini e in scienza gli apparati del corpo… Mi rendo conto che non sempre nella scuola statale questa sinergia è possibile. Poi guarda, sono convinto che nel percorso scolastico basti incontrare un maestro perché un ragazzo si accenda…

Certo, ma il punto è proprio questo! Perché dovrei sentire frasi come “ricordo con piacere quel mio professore, in un Istituto senza arte né parte” anziché, viste le premesse esistenti in Italia, “ricordo con piacere la scuola dove ho studiato: c’era quel docente che non rendeva, ma l’Istituto lo ha aiutato”?

Questo è il punto…

Che poi ti dirò, la mia esperienza è stata così. Ricordo con piacere la scuola dove ho studiato proprio perché mi è sembrata una esperienza unitaria, seppure con diversità di vedute e opinioni dei singoli insegnanti. Mi è sembrata non vuol dire che era, però…

Guarda, credo quando si parla di scuola italiana per dei reali cambiamenti dovremo aspettare decenni, se non secoli…

Ho capito: una chimera.

In questi ultimi vent’anni nel sistema scolastico qualcosa certamente è cambiato. Ma chi ha più esperienza di me mi racconta di una struttura nella quale non si riesce mai a cambiare in fondo niente. Questo anche perché i Ministri vanno e vengono, con i loro lodevoli o meno tentativi di riforma, ma chi alla fine conta veramente è chi lavora nella struttura del ministero, e che difficilmente cambia… Con queste premesse ogni riforma sembra destinata a fallire e a non lasciare tracce se non qualche sanatoria o piccole modifiche mai sostanziali. Figuriamoci mettere a tema la vera questione, quella educativa. Sembra quasi che oggi la scuola statale su questo tema abbia gettato la spugna, e si arriva al paradosso dei comuni che raccolgono le firme per introdurre le ore di educazione civica. Come a dire che durante le lezioni quotidiane non è più possibile educare un cittadino, servono corsi dedicati. Ma è assurdo se ci pensi bene! Durante le lezioni di Italiano, di storia, di geografia, di educazione fisica, non può passare un insegnamento civico, un’educazione all’ambiente o al digitale? È proprio dentro l’ora di lezione, dentro le materie che si può iniziare a formare un cittadino, ossia una persona matura, critica, aperta.

Non vorrei scadere nel complottismo, ma a chi interessa avere cittadini, uomini simili? Ti lancio una vera provocazione: per come è strutturata oggi la società e la vita, sarebbero davvero utili?

Non chiederlo a me, chieditelo come genitore. Chiedilo agli imprenditori, che quando mi incontrano si sfogano raccontando di come sempre più spesso i giovani che assumono non hanno più quelle competenze che aiutano a convivere in un ambiente di lavoro. E infatti quasi nessuno cerca più innanzitutto una formazione tecnica, ma quelle competenze umane, come una stabilità psicologica, la capacità di lavoro di gruppo, l’apertura mentale, la passione nel fare le cose, l’umiltà nel domandare, l’onestà nel riconoscere gli errori. Queste sono sentite come indispensabili! Ma perché non si trovano? Chi le deve dare? La famiglia certamente, ma anche una scuola capace di coltivare, nel percorso di conoscenza, queste competenze. E ti dirò, da insegnante, che bello ritrovare i tuoi allievi, dopo solo pochi mesi che li hai lasciati finita la terza media, capaci di acuti giudizi sulla realtà, sulla scuola in cui sono, senza pregiudizi, ma con spirito critico, con il gusto del confronto e la voglia di esserci, di incidere sulla realtà che stanno vivendo. Ad esempio molti di loro si propongono come rappresentanti di classe e portano avanti progetti all’interno della scuola… questo è essere protagonisti.

Ma è questa carenza educativa, questo rendersi conto del deserto “di bellezza” e di sprono all’impegno che spesso accompagna le vite dei giovani allievi, che mosse i primi genitori a chiedere di aprire quello che poi è diventato l’Istituto VEST? Arrivarono già con tutte le riflessioni che stiamo facendo in essere, oppure c’era una sorta di intuizione non sviluppata che premeva e chiedeva, diciamo così, risposta?

Io sono arrivato poco dopo l’avvenuta fondazione della Cooperativa che gestisce la scuola, ma è una storia che ho sentito narrare spesso dai protagonisti per cui penso di poterne parlare. Di fondo credo che l’esigenza principale fosse l’intuizione di una urgenza educativa che aveva gli stessi connotati sviscerati ora, magari non così esplicitati. I fondatori – alcune famiglie e un piccolo gruppo di amici imprenditori – avevano diverse esperienze di scuola alle spalle per i loro i figli, fra i quali alcuni avevano frequentato l’istituto cattolico Rezzara di Clusone, oggi chiuso, e lì vissuto un’esperienza educativa positiva. Fu questa credo l’intuizione iniziale. Da lì è nato tutto: l’idea di creare una cooperativa, di dedicarla a San Giovanni Paolo II per il suo impegno verso i giovani, di chiamare la scuola con il nome impegnativo di VEST (“Vos estis sal terrae”) e quindi di scommettere totalmente sui ragazzi. Successivamente la comprensione che la scuola media fosse un momento cruciale per l’educazione dei ragazzi e quindi la decisione di fondare una scuola paritaria. Non avevano però tra loro gente esperta “di scuola”. Allora hanno incontrato varie realtà educative nella regione. A forza di cercare, così mi hanno raccontato, un bel giorno arrivano alla Traccia, proprio durante l’intervallo. Puoi immaginare la confusione dell’intervallo in una scuola di quasi 1000 studenti. Ebbene, quel gruppo di amici osservano quello che hanno intorno per qualche minuto e poi si dicono “ecco la nostra scuola!”. E spiegano sempre questo: “le facce degli studenti, degli insegnanti, i loro sorrisi, il modo di rapportarsi tra loro in quel momento, ci hanno fatto capire che questa scuola era diversa e che volevamo ragazzi così, educati da insegnanti così”. Chiesero quindi al rettore di allora e ai gestori una mano per l’impostazione della scuola sul piano didattico ed educativo, mentre loro si presero tutte le responsabilità di rischio imprenditoriale nella gestione della cooperativa. Ed è stato un bell’atto di fiducia da parte loro, se ci pensi, scommettere tutto su insegnanti sconosciuti, fra cui il sottoscritto. Il progetto era temerario: si chiedeva ai genitori della Valle di aderire ad una nuova scuola che ci sarebbe stata (forse) e che avrebbe impegnato i figli nel momento educativo più fatidico. Ebbene, il primo anno il progetto non attecchì e si decise di non partire; scelta soffertissima, ma felice, perché nel secondo anno di proposta sul territorio la scuola aprì con 15 alunni, i mitici “pionieri” che si fidarono e si affidarono a noi. Credo che in fondo quella fiducia sia nata perché hanno visto dinnanzi a loro degli adulti che erano certi di quello che dicevano e vivevano. E questo li ha talmente colpiti da “rischiare” un’impresa che banalmente poteva chiudere l’anno dopo. Cosa che per altro ha rischiato di succedere…

Davvero?

Eh sì, il VEST non era per niente conosciuto sul territorio. Inoltre erano (e in parte sono) ancora diffusi molti pregiudizi sulle scuole paritarie: scuole d’élite, scuole confessionali, diplomifici etc…. Se a questo aggiungi la crisi economica, la presenza comunque di numerose scuole sul territorio, capisci la grande fatica di farsi conoscere per l’esperienza educativa che effettivamente vivevamo. Di fatto il primo anno scolastico, a febbraio, ci trovavamo con pochissimi iscritti per l’anno successivo…

Quanti?

Nove.

E quindi?

Al che andai dai miei gestori e dissi, con franchezza: “Signori, non possiamo rispondere ad una domanda che non si pone. Se non c’è questa esigenza educativa, prepariamoci a chiudere”. Loro proposero di tentare comunque. Convocai allora una storica riunione con i genitori dei nove e esplicitai a loro la situazione, chiedendo se si sentivano di rischiare. Loro dissero “sì” senza esitazione, anche un po’ sorprendendoci. A settembre partimmo poi in 14 e in seguito gli iscritti crebbero, fino ad arrivare ad oggi con classi di 28 e la probabile apertura l’anno prossimo di due classi prime.

Il tutto grazie alla pubblicità?

No, grazia all’esperienza! Cioè al passaparola dei genitori che avevano visto formarsi qui i loro figli, diventare più autonomi, più consapevoli…

E tu come stai?

Come?

Tu, come la stai vivendo? Immagino che non deve essere stato facile per te vivere quel che hai appena narrato, accettare di diventare preside di questa scuola. Penso sarebbe stato più rilassante avere la tua classettina in quel di Calcinate…

Sappi solo che ho resistito tantissimo a questa proposta. È stato il mio preside Rossi a chiedermi di rischiare, di fidarmi.

Sempre lì torniamo, fidarsi.

Esatto. Io resistevo: “sono agli inizi, lasciami il tempo di imparare il mestiere”. Però, come sempre, aveva ragione Dante…

Dante?

Secondo canto dell’Inferno. Quando, di fronte ad una sfida grande, uno comincia a mettere davanti a sé solo l’elenco delle obiezioni, c’è qualcosa che non va…

Secondo canto dell’Inferno…

“Io non Enea, non Paulo sono”, come posso mettermi in viaggio verso l’ignoto, chiede Dante. E cosa gli risponde Virgilio? “Smettila di accampare scuse! Si è mosso il Paradiso per te e vieni a dirmi che non sei degno? La tua è solo paura”. E questo è stato decisivo perché ho dovuto accettare, anche professionalmente, di lasciarmi guardare da qualcun altro e accettare di scommettere su chi scommetteva su di me. Naturalmente ho posto delle condizioni, come un momento di lavoro settimanale con il mio collega della Traccia per imparare il mestiere: fare il preside non è fare l’insegnante, anche se per fortuna ho sempre mantenuto delle ore di insegnamento, grazie al fatto che la scuola è piccola. Devo dire che la sfida è stata grande, ma splendida. Quello che più mi ha fatto maturare è stato sicuramente passare dal rispondere solo del mio lavoro al rispondere del lavoro degli altri. All’inizio su questo ero in difficoltà, mi appesantiva; col tempo però diventa appassionante perché capisci che questo significa far crescere gli insegnanti che hai intorno, o meglio, provare a creare le condizioni per cui gli adulti intorno a te si esprimano al meglio.

Insomma, creare quella famosa struttura “di supporto” di cui parlavamo prima.

Anche. E piano piano, da quel che si è seminato, stanno nascendo delle piante solide. Ed è bellissimo. Anche perché è la dimostrazione di quel che abbiamo detto finora. Quando un adulto cresce? Quando lavora sotto uno sguardo di stima. Quando scommetti su di lui affidandogli responsabilità, credendo che ce la possa fare, correggendolo ma stando con lui fino in fondo, esattamente come con i ragazzi. Come con me. E questo ti costringe ad imparare a guardare l’altro in un certo modo, con umiltà.

Umiltà?

Sì. Magari capita che un insegnante faccia una cosa che tu avresti fatto in modo diverso e magari in modo migliore perché in quello hai più esperienza, ma senti di dover fare un passo indietro perché solo così permetti all’altro di fare un passo avanti. Un altro punto di novità per me è stato il cosiddetto rischio “pubblico”. In questo mestiere sei quello che ci mette la faccia, sia negli incontri pubblici sia nel ricevere lamentele o critiche. Ma in tutti e due i casi credo che l’importante sia non “mentire” mai, cioè comunicare quello che davvero è per me più decisivo in educazione e quindi cercare di camminare con gli altri adulti alla luce di questa consapevolezza, che per altro è una mia esigenza poter riscoprire sempre. Il continuo rapporto con i genitori è l’alimento per tutto questo. Per me è davvero fondamentale parlare con loro: dai problemi a scuola, a quello che accade in famiglia, dalle gioie, ai dolori, fino alla critica più pesante… ritengo sia un punto cruciale, che oltre a farmi riscoprire la consapevolezza del perché faccio questo mestiere, è per me una continua rigenerazione.

Sono belle parole, ma posso provocarti?

Vai!

Non è che vedi tutto questo con questo slancio perché… sei giovane? Per dire, tuo padre adesso direbbe la stessa cosa? Avrebbe la stessa forza di mettersi ogni giorno in gioco, dall’accettazione delle critiche – magari non perfettamente a fuoco – fino al sentirsi sempre al centro?

Guarda, partiamo da questa consapevolezza: tendenzialmente a nessuno piacciono i problemi e io sono uno che cerca sempre di mettere le cose a posto, quindi figurati quanto all’inizio questa nuova condizione mi è parsa difficoltosa. Ma la vita è “problema”, nel senso etimologico, è fatta di cose che ti si pongono davanti, (dal greco pro-ballein), o potremmo dire di occasioni (e qui dal latino, “ciò che viene dall’alto”). Quindi è questione di imparare a guardare con stima – di nuovo – tutto quello che succede, anche di problematico, come occasioni per maturare. Non è facile, certo, ma è come con la virtù: è un continuo cammino finché non diventa un habitus. Ed è in questo “abito” che allora il dialogo diventa vero, anzi virile! Ma ho capito dove vuole andare a parare la tua provocazione e non mi sottraggo. È vero, conosco anche io molti colleghi che sono partiti a inizio carriera con entusiasmo e vengono “smontati” da altri a fine carriera che non vedono l’ora di lasciare un lavoro stressante e mal pagato. Io sarò stato fortunato, ma ho avuto invece gli esempi dei miei colleghi alla Traccia che, nonostante l’età e quindi certamente una energia diversa rispetto a quando erano giovani, sono rimasti “giovani” dentro, nel modo di porsi di fronte all’altro, nel modo di mettersi in discussione, tanto che continuano ad imparare, anche dall’ultimo arrivato. Con questi esempi di “giovani” insegnanti di 60 anni, io non posso che affermare che questo mestiere è davvero magico, ti permette di ringiovanire sempre più! E forse l’aspetto più bello dell’essere insegnanti: fino all’ultimo possiamo dare qualcosa di noi e ricevere.

Tutto questo mi richiama il classico contrasto fra coloro che ti dicono “hai tre figli? ti faranno invecchiare presto!” e quelli che ti dicono “hai tre figli? Vedrai che ti mantengono giovane!”. [ridiamo insieme]
Gira che ti rigira, mi pare di essere tornati all’inizio della chiacchierata: molto dipende da come guardi quel diamante che è la realtà. Tolkien e Martins!

Esatto! Fra l’altro nelle lettere di Tolkien questo modo di vivere è lampante, sia in quelle rivolte ai figli che in quelle al pubblico che leggeva le sue opere. Sono la prova scritta di un continuo confronto fra lui e gli altri, tanto importante e tanto vitale che Tolkien stesso sentiva di capire meglio i suoi scritti grazie al rapporto che con essi stabilivano i lettori. Reimparava da loro qualcosa sui suoi Hobbit, per così dire! Così come quando insegni storia, non fai che reimpararla, e quando parli con i genitori è un reimparare a comprendere i giovani e così via.

E con la burocrazia come la mettiamo?

La mettiamo che anche questo aspetto può essere un noioso adempimento oppure un’occasione che viene dal cielo…

Esagerato. (ridiamo)

D’accordo, è una affermazione forte, ma vera! Ogni settimana io e il mio collega della Traccia ci prendiamo un paio d’ore di lavoro per “le scartoffie” e può sembrare di perdere tempo, ma in realtà anche quelle possono aiutarci a prendere più coscienza dell’esperienza educativa che viviamo. Ad esempio scrivere con precisione il famoso PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa) è stato utile per prendere più consapevolezza del nostro lavoro.

Insomma, come quando da studente capisci che il tema in classe che ti affida l’insegnante può essere occasione di una riflessione da condividere con un adulto e non un problema da cercare di superare con almeno un 6…

Perfettamente! Poi certo, fossi un dirigente scolastico, con tutte le criticità legate alle normative e ai bilanci economici, i problemi sarebbero altri e forse la vedrei diversamente… ma pensando ad alcuni amici dirigenti credo che anche in quel caso si possa vivere e non solo sopravvivere anche nella “burocrazia”, nell’ottica di migliorare sempre più il proprio mestiere.

Fine seconda parte (26,22)



Categories: Attualità cattolica

Tags: , , , , , , , , , , ,

3 replies

  1. Di sicuro più un’impresa si muove lungo una piramide di Maslow applicatagli analogicamente (cioè da impresa che cerca solo di fare soldi se non altro per esistere, ad un livello dove essa cerca di garantire e perdurare la sicurezza della propria esistenza a lungo termine, al livello seguente di essere riconosciuta come elemento importante dell’economia del paese, poi a quello successivo di essere rispettata per se ed in sé e, ad una tappa ancora ulteriore, ad essere riconosciuta e stimata per finalmente arrivare al sommo che è quello di realizzarsi per i valori che essa porta), più tale impresa cercherà dei collaboratori, dal semplice impiegato al vertice manageriale, a cui si chiederà di essere idealmente eccellenti tecnici, poi eccellenti gestori, in seguito eccellenti marketeers e comunicatori e alla fine gente capace di portare e concretizzare senso.

    Interessante a questo soggetto studiare la “storia ” delle visioni e delle missioni che le imprese si danno e pubblicano negli ultimi decenni quando parlano di loro stesse: le più evolute ricercano ed esprimono “senso” per le loro attività.

    Formare i giovani ad utilizzare strumenti come programmare l’ultimo android, anche se utile, se limitato solo a ciò li può solo portare a rispondere ai bisogni dei livelli più bassi della piramide: in realtà nel 2019 l’economia ha bisogno di imprenditori che sono capaci di dare “senso” alla loro attività e questo qualunque sia il livello gerarchico occupato ad un momento dato. Il momento è venuto dell’imprenditore filosofo, questa si vera intedisciplinarietà, perchè necessita al contempo vera competenza e sguardo olistico.

    Accanto a questo vorrei sottolineare che l’urgenza educativa è più nell’assenza di proposta educativa che di istruzione, intendo con questo sottolineare il fatto che lo svilippo della volontà del giovane ( che non è l’esser capriccioso ma, al contrario, il saper dominarsi) è l’elemento chiave che fa la differenza tra un giovane che riusicrà e uno che non riuscirà. Bellezza ed intelligenza uno non se la può dare, è congenitale: la volontà invece è come un muscolo, può essere sviluppata e tale sviluppo è accessibile a tutti.

    Grazie per questo articolo.

    In Pace

    • Ho mandato questo tuo splendido commento ad un amico che proprio stamane, in mia presenza, ha discusso con un professore di liceo, il quale lamentava la presenza nei programmi liceali del latino e greco e dichiarava che – almeno nello scientifico – era necessaria una inversione di tendenza verso la matematica e la fisica.
      Come puoi immaginare, è stato inutile parlare di epistemologia, figuriamoci di filosofia della natura o addirittura ontologia. E attenzione: stiamo parlando di un ottimo professore, stimato e ben voluto. Purtroppo lo “stile” educativo per i giovani adulti è per ora così, fatto da mere competenze tecniche che per altro potresti benissimo farti da solo qualora tu abbia tutte le altre.

      A ben pensarci infatti il sottoscritto, senza mai aver fatto un’ora di informatica, quando ha avuto bisogno di scrivere un programma, ha aperto libri su libri e ha imparato un linguaggio. Ho impiegato a scriverlo il doppio del tempo di un programmatore, conteneva errori e non era ottimizzato. Inoltre ora come ora non saprei farlo, ma… se mi servisse, potrei rifarlo, se dovessi pensare di farlo come lavoro naturalmente dovrei avere un ottimo insegnate, ma so di certo che non sarebbe un problema ecc.

      Il tutto però è stato possibile perché di base ho subito compreso come ragiona una macchina: con la logica. Hai fatto logica? Ecco, hai le basi.
      E ancora: ho iniziato tardi a mixare e non potrei mai arrivare ad essere un fonico di fama o pretendere di far questo come lavoro. Ma non solo dai miei studi, ma i continui ascolti e confronti con altri musicisti, hanno favorito un gusto musicale che ora può essere messo a frutto anche in competenze tecniche che fino a 10 anni fa ignoravo come le modalità di ripresa microfonica, l’acustica ambientale, la gestione delle fasi del suono, la fonia in senso pieno e cosi via.
      E spesso i musicisti vengono nello studio che ho con un amico per discorrere con noi di filosofia e di arte, non perché sappiamo comprimere il suono meglio di chiunque altro. La compressione si impara con il tempo a “sentirla” e quindi gestirla. A come e quanto gestirla è questione di gusto personale che incontro il gusto del committente, è questione quindi di intelligenza emotiva più che tecnica. Servono entrambe, ma la prima fa da fondamento alla seconda…

      Grazie ancora. Anche a nome di questo mio amico che ha apprezzato tantissimo il tuo scritto.

      • La matematica e la fisica sono un’invenzione dello spirito umano, sono una costruzione con vari elementi di base che si assemblano per creare varie “figure” secondo regole che ne sono la “logica”: niente di “trascendente”, te lo dice uno che ha un master in fisica matematica e un dottorato in fisica corpuscolare.

        Chiunque ama giocare con un “lego” o risolvere “puzzles” è capace di fare matematica: proprio di giocare si parla. Se vuoi un figlio bravo in matematica e fisica dagli la voglia di giocare con oggetti spaziali e di costruire strutture sempre più complesse giocando dall’infanzia alla fine dell’adolescenza: giovane adulto se vuol addentrarsi nei meandri di una matematica più sofisticata potrà sempre andarci giocherellandoci “professionalmente”.

        Giocare tutti i bambini e gli adulti lo possono fare.

        Capire e dare senso questo sì che è davvero impegnativo se non si vuole essere superficiali, figuriamoci, poi, essere in grado di creare visioni e prospettive!

        Grazie per l’apprezzamento.

        In Pace

Scopri di più da Croce-Via

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading