Pena capitale. Una nota alla luce dell’insegnamento di san Tommaso

MastroTitta-2

La recente introduzione di una nuova formulazione del N. 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica mi ha fornito lo spunto per buttare giù questa breve nota relativa alla pena capitale alla luce del pensiero di san Tommaso d’Aquino. Non è mia intenzione qui inserirmi in alcun modo nella polemica in corso tra i fautori ed i detrattori di questo emendamento al Catechismo, ma semplicemente illustrare nel modo più semplice e parsimonioso possibile la posizione dell’Aquinate sulla materia e vedere che cosa questa possa insegnarci relativamente all’oggi.

Il Dottore Angelico attribuisce alla pena in generale, per colui che la subisce, due funzioni: una retributiva ed una medicinale. Nel primo caso si ha di mira il ristabilimento dell’ordine morale violato, il che rientra nella giustizia redistributiva. Sotto l’aspetto di punizione “la pena è dovuta solo al peccato: poiché con essa viene ristabilita l’uguaglianza della giustizia, nel senso che colui che peccando aveva troppo assecondato la propria volontà, viene a subire cose contrarie al proprio volere. Per cui, essendo ogni peccato volontario, compreso quello originale, […] è evidente che nessuno viene punito in questo senso se non per atti compiuti volontariamente” (ST II-II, q. 108, a. 4). Nel secondo caso, si ha di mira il progresso spirituale di colui a cui la si infligge: “Sotto questo aspetto uno può essere castigato anche senza una colpa: non però senza una causa. Si deve tuttavia notare che una medicina non priva mai di un bene maggiore per procurarne uno minore: un medico, p. es., non accecherà mai un occhio per sanare un calcagno; tuttavia egli potrà infliggere un danno nelle cose minori per soccorrere le maggiori. E poiché i beni spirituali sono i beni supremi, mentre quelli temporali sono i minimi, talora uno viene castigato nei beni temporali senza avere alcuna colpa: ed è così che Dio infligge molte penalità della vita presente come umiliazioni o prove; nessuno invece viene punito nei beni spirituali, né al presente né al futuro, senza una sua colpa: poiché simili punizioni non sono medicinali, ma accompagnano la dannazione dell’anima” (Ibid.). Vista dalla parte di chi la infligge, la pena ha invece fondamentalmente lo scopo di prevenire e di rimuovere ciò che nuoce all’individuo e alla società.

Premesso quanto sopra, notiamo che san Tommaso tende ad esprimersi a favore della pena capitale in quanto la ritiene confacente allo scopo di proteggere appunto la società dagli individui a questa particolarmente molesti e pertanto come un mezzo efficace per impedire ai criminali di continuare a delinquere ai danni dei loro simili. Scrive il Dottore Angelico: “Qualsiasi parte è ordinata al tutto come l’imperfetto al perfetto. E così la parte è per natura subordinata al tutto. Per cui vediamo che, qualora lo esiga la salute di tutto il corpo, si ricorre lodevolmente e salutarmente al taglio di un membro putrido e cancrenoso. Ora, ciascun individuo sta a tutta la comunità come una parte sta al tutto. Quindi se un uomo con i suoi peccati è pericoloso e disgregativo per la collettività, è cosa lodevole e salutare sopprimerlo, per la conservazione del bene comune; infatti, come dice S. Paolo [1 Cor 5, 6], ‘un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta’” (ST II-II, q. 64, a. 2); “E’ lecito uccidere un malfattore in quanto la sua uccisione è ordinata alla salvezza di tutta la collettività. Ciò quindi spetta soltanto a colui al quale è affidata la cura della sicurezza collettiva” (ST II-II, q. 64, a. 3).

I passi appena citati mostrano come il Dottoe Angelico dia una sola ragione per cui un criminale possa essere messo a morte dalla legittima autorità: vale a dire proteggere la pace sociale. Il principio che sta alla base della liceità della pena capitale risiede nel fatto che il bene della società è lo scopo primario dell’autorità politica, la quale ha il dovere di eliminare tutto ciò che lo minacci e, pertanto, anche quello di eliminare fisicamente i criminali.

Al contempo, però, l’Aquinate osserva che “il Signore comandò di non sradicare la zizzania per risparmiare il grano, cioè i buoni. E ciò è da osservarsi quando non è possibile uccidere i cattivi senza l’uccisione dei buoni […]. Per cui il Signore comanda di tollerare l’esistenza dei malvagi, rinviandone il castigo all’ultimo giudizio, piuttosto che uccidere con essi anche i buoni” (ST II-II, q. 64, a. 2, r. 1). Ed aggiunge: “Secondo l’ordine della sua sapienza, Dio talora sopprime subito i peccatori per la liberazione dei buoni; talora invece concede loro il tempo di pentirsi, in vista della futura salvezza dei suoi eletti. E la giustizia umana lo imita per quanto è possibile anche in questo: essa infatti sopprime quelli che sono nocivi per gli altri, mentre lascia il tempo di pentirsi a quelli che non recano agli altri gravi danni (ST II-II, q. 64, a. 2, r. 2).

Per comprendere in modo appropriato la posizione di san Tommaso bisogna considerare che, nei tempi in cui egli scriveva, la detenzione, al contrario di quanto avviene oggi, non era considerata come in sé una forma di punizione, ma solo come un mezzo per trattenere un imputato in attesa di giudizio o un condannato in attesa che venisse eseguita la sentenza, la quale poteva consistere nell’esposizione alla pubblica gogna, nella fustigazione e, nei casi più gravi, appunto nella morte. Le società moderne hanno da tempo invece acquisito l’idea della detenzione come punizione del crimine e si sono dotate degli strumenti giuridici e materiali per poterla infliggere ai rei. Di conseguenza, la necessità di sopprimere fisicamente i criminali per proteggere la società dalle loro malefatte è oggettivamente venuta meno, facendo quindi prevalere le considerazioni succitate in merito alla non opportunità di farlo nel caso in cui ciò comportasse un male maggiore del bene che si possa ottenere per suo tramite e nel caso che mantenendo il condannato in vita si possa ottemperare in modo più consono alla funzione medicinale della pena.

Stando all’insegnamento di san Tommaso, nella società contemporanea, la pena di morte appare pertanto come assolutamente non necessaria, se non nociva. Se è vero, infatti, che un buon medico ha il dovere di amputare un arto cancrenoso prima che il male si diffonda a tutto il corpo, è altrettanto vero che nessun medico amputerebbe un arto paralizzato. Oggi, siamo in grado di mettere i criminali nella condizione di non nuocere alla comunità senza bisogno di doverli sopprimere per questo. Di conseguenza, una volta posti in tale posizione, i suddetti appaiono più simili a degli arti paralizzati che non a degli arti cancrenosi, in quanto pur non apportando grossi contributi alla società al contempo non costituiscono un reale pericolo per la medesima. Non c’è quindi bisogno di orbare la comunità di costoro. Anzi, semmai, il compito del legislatore dovrebbe essere quello di trovare dei sistemi che, pur garantendo l’aspetto retributivo della pena e salvaguardando in modo adeguato la società dal loro influsso negativo, offra dei mezzi più validi per il recupero dei rei di quelli che fino ad oggi ha offerto la prigione, dalla quale, spesso e volentieri, gli stessi escono in uno stato di depravazione morale maggiore rispetto a quello in cui si trovavano quando vi sono entrati.



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3 replies

  1. Sinceramente mi pare condivisibile in toto.

  2. L’ insegnamento di San Tommaso sta a quello di Papa Francesco come l’ acqua di fonte a un
    torbido mate’.

    • Una scelta veramente difficile. Appena ne avrò l’occasione penso che proverò il mate se non verrò condannato a morte nel frattempo, mi sembra più performante. Io penso che tu preferisci la bevanda gradita da Papa Pio X, il vino MARIANI: dicono che produca effetti stupefacenti: pensa ad esempio al catechismo di questo grandissimo Papa!!!

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