Edward Feser – Neurochiacchiere!

homer

Quante volte durante i dibattiti web con degli atei materialisti (consci o meno di esserlo) vi siete sentiti dire frasi come: “la neuroscienza ha definitivamente provato che è tutto nel cervello” oppure “l’idea classica di anima è oramai defunta di fronte all’avanzata delle neuroscienze”? A noi è capitato parecchie volte e ogni volta abbiamo dovuto perdere tempo sia a spiegare come leggere i risultati delle neuroscienze sia a far notare come gli stessi diano da sempre ragione a noi tomisti. Stanchi di perdere tempo, abbiamo quindi tradotto questo articolo dedicato al mind/body problem di Feser che confuta finalmente queste cretinerie assortite.
Buona lettura!

“Neurochiacchiere!”

Ogni scritta della parola italiana “zuppa” è costituita da caratteri che assomigliano sempre in qualche modo a questi: “z”, “u”,”p”, “p”  e “a”. Naturalmente, ciò non significa che la parola ” zuppa “è identica a qualsiasi serie di tali caratteri, o che le sue proprietà sopravvengono sulle proprietà materiali di tali caratteri, o che può essere spiegata interamente in termini di proprietà materiali di tali caratteri. Tutte cose che sanno chi riflette sulla cosiddetta materia.

Per prendere in prestito un esempio da psicologo Jerome Kagan , “chiunque si avvicini lentamente al dipinto di Claude Monet della Senna all’alba arriva un momento in cui la scena che osserva si dissolve in minuscole macchie di colore”. Ma da questo non ne consegue che il suo status e qualità di dipinto si possa ridurre, sopravvenga, o possa essere spiegato interamente in termini di proprietà del materiale di quei campioni di colore. Tutti coloro che riflettono la materia sanno anche questo.

In qualche modo, però, quando i neuroscienziati scoprono alcune correlazioni neurali di questo o quel evento mentale o un processo, alcuni materialisti concludono che l’identità della mente con (o la sua riduzione a, o la sua completa spiegazione con) i processi neurali è chiaramente provata, e che le riserve dei non-materialisti derivano soltanto da disonesta malafede. In un recente editoriale on-line per il New York Times, con una frase intelligente, il filosofo della mente Tyler Burge critica questa tendenza come “neurochiacchiere”, che produce solo “l’illusione di comprensione”. Perché è fallace come qualsiasi altro argomento analogo sulle parole o sui dipinti.

Ora, una delle fonti delle neurochiacchiere è il cosiddetto (e falso) presupposto standard materialista il quale dichiara che le uniche alternative dualistiche ad una spiegazione “naturalistica” della mente siano o il dualismo cartesiano della sostanza o il dualismo di proprietà, entrambi con il loro conseguente problema di interazione . A dire il vero, come ho notato molte volte, i materialisti spesso fraintendono profondamente anche queste forme di dualismo (o almeno di dualismo cartesiano) e rispondono alle obiezioni con beceri straw men. [Per alcuni esempi, vedere questo post su Daniel Stoljar , e la mia serie in quattro parti di messaggi su Paul Churchland, qui , qui , qui , e qui . Per la discussione circa la superficialità degli argomenti materialisti in generale, vedere questo post su Frank Jackson e questo post sul (davvero poco profondo) Noam Chomsky .]

Eppure, da un punto di vista aristotelico-tomista (AT), anche il dualismo cartesiano è un errore modernista, “gemello cattivo” del materialismo. Nel primo si esagera il divario tra la mente e la materia. In modo uguale e contrario nel materialismo si esagera la loro affinità. (Per AT, molte posizioni moderne sono “gemelli malvagi” simili – razionalismo ed empirismo, libertarismo e il socialismo, deontologia kantiana e l’utilitarismo, e così via – ognuno di essi rimuove una tradizionale intuzione dal quadro metafisica classica, quadro nel quale acquista senso, e viene trasformato in una caricatura grottesca dello stesso semplicemente ignorando le posizioni contrarie e bilanciando l’intuizione. Ho intenzione di scrivere un post su questo tema, iniziato almeno indirettamente in The last Superstition .)

L’approccio AT è quello che David Oderberg ha chiamato “dualismo ilemorfico.” A differenza del dualismo cartesiano, che considera l’essere umano come un composto di due sostanze, res cogitans e res extensa, il dualismo ilemorfico guarda un essere umano come una singola sostanza. Ma a differenza del materialismo, che tende a considerare sostanze materiali come riducibili ai loro componenti e che sposa una concezione meccanicistica della materia che nega la realtà delle cause formali e finali, il dualismo ilemorfico non è riduzionista e  guarda gli esseri umani come guarda tutte le sostanze materiali, cioè composto da forma e materia. (Questo punto di vista non è riduzionista perché, nonostante guardi alle sostanze materiali come dei composti di forma e materia, esso non le riduce a forma e materia. Un albero, per esempio, è un composto di un certo tipo di forma e di materia, ma la forma e la materia stessi non trovano senso senza quell’albero del quale forma e materia sono le parti metafisiche. L’analisi è olistica.)

L’ “Anima” sotto questo punto di vista è solo un termine tecnico per la forma di un corpo vivente. E lo stesso può essere denominato dualista non perché afferma l’esistenza dell’anima (piante e animali non umani hanno forme, e quindi “anime”, eppure sono puramente materiali), ma piuttosto perché osserva negli esseri umani certe capacità speciali che necessariamente non coinvolgono un organo materiale – vale a dire, le loro capacità intellettuali. Non c’è un “problema di interazione” per il dualismo ilemorfico, però, perché l’anima non è (come per Cartesio) una sostanza distinta che ha bisogno in qualche modo di entrare in contatto con una sostanza materiale tramite causalità efficiente; è piuttosto solo una parte di una sostanza completa – è la causa formale della sostanza, la materia che compone il corpo è invece la causa materiale. La relazione tra l’anima e il corpo non è quindi simile a quella di due palle da biliardo, una dei quali spettrale, che devono trovare in qualche modo la possibilità d’entrare una nell’altra. È più come il rapporto tra la forma di un triangolo disegnato su carta e l’inchiostro che ha tratteggiato la forma – due aspetti di una cosa, piuttosto che due cose. Oppure è come il rapporto tra il significato di una parola e le lettere che compongono la parola, o il rapporto tra il contenuto pittorico di un dipinto e le macchie di colore che compongono lo stesso quadro. (Probabilmente la maggior parte dei miei lettori avranno familiarità con queste idee, per gli altri ho precisato più in dettaglio il tutto in molti altri scritti, più pienamente nel capitolo 4 di Aquinas).

Un problema di molte affermazioni fatte dal riduzionismo materialista, quindi, è il fatto di trovarsi in una concezione dei rapporti fra “parti ed intero” nelle sostanze materiali che è (per l’AT) falsa su tutta la linea, non solo nel rapporto mente-cervello. E ‘falso dire che un albero “non è altro che” un insieme di radici, tronco, foglie, linfa, ecc, anche se naturalmente un albero possiede tali parti. E ‘falso dire che un triangolo “non è altro che” le particelle di inchiostro che compongono le sue linee, che una parola “non è altro che” i segni materiali che la compongono o che un dipinto “non è altro che” gli sbuffi di colore che il pittore ha dipinto su tela, anche se questi oggetti hanno anche le parti in questione. Ed è falso dire che la mente “non è altro che” un insieme di processi neurali, anche se i processi neurali effettivamente sono alla base di tutte le nostre attività mentali. (Non c’è bisogno di essere un teorico AT per sapere questo, tra l’altro. Cfr. Mr Bennett e PMS Hacker, Fondamenti filosofici delle Neuroscienze per una critica approfondita del pensiero concettualmente sciatto e fallace che permea gran parte della discussione filosofica e “scientifica” sul cervello).

Ora, dal momento che l’AT è impegnata a una sorta di dualismo, anche di tipo ilemorfico – e dal momento che, in particolare, si sostiene che le operazioni intellettuali non hanno mediazione di alcun organo del corpo – potrebbe sembrare sorprendente sentirmi dire che ” i processi neurali effettivamente sono alla base di tutte le nostre attività mentali”. Ma questo è esattamente quanto sostiene il dualismo ilemorfico. La ragione è questa. Tenete a mente prima di tutto che l’AT vede la sensazione e l’immaginazione – cioè quei fenomeni “mentali” che abbiamo in comune con gli animali inferiori, e che sono caratterizzati da ciò che i filosofi contemporanei chiamano “qualia” – come corporei per loro natura, e in questo senso interamente materiali. Va chiarito che l’AT ha una concezione diversa della materia rispetto a quella dei materialisti. Ad esempio, l’AT non sostiene che le uniche proprietà della materia siano quelle descritte dalla fisica moderna. Ma il punto rilevante ai fini del presente articolo è che l’AT non considera la sensazione e l’immaginazione di per sé come caratteristiche implicanti necessariamente organi o proprietà immateriali, cioè tutto cioè che sopravvive alla morte del corpo, o quella cosa che ci distingue dai meri animali.

Quello che ci fa distinguere dagli animali e comporta immaterialità è la nostra comprensione dei concetti o idee universali. Uno dei motivi per i quali il pensiero concettuale non può essere materiale è che i concetti e i pensieri che li caratterizzano sono astratti e universali, mentre gli oggetti e i processi materiali sono intrinsecamente concreti e particolari; un altro è che i concetti e i pensieri che li caratterizzano sono (almeno a volte) precisi, determinati e non ambigui mentre gli oggetti e i processi materiali sono intrinsecamente inesatti, indeterminati e ambigui quando non sono associati a contenuti concettuali. Ci sono ovviamente anche altre ragioni. (Si tratta di questioni che ho affrontato molte volte. Per una trattazione più dettagliata, vedere i capitoli 6 e 7 di Philosophy of Mind e, ancora una volta, il capitolo 4 di Aquinas . Alcuni post sul blog si possono trovare qui e qui . E vedi anche l’articolo di James Ross sugli “aspetti immateriali del pensiero” e l’articolo di David Oderberg “Concetti, Dualismo, e l’intelletto umano.” )

Tutti gli stessi, dal momento che l’anima (di cui l’intelletto è uno dei poteri) è per sua natura orientata al corpo del quale è forma, l’intelletto umano – a differenza degli intelletti degli angeli, che sono simili alle sostanze immateriali cartesiane – richiede l’attività fisica come condizione necessaria del suo funzionamento normale, anche se non è una condizione sufficiente. Per prima cosa, è necessario che ci siano organi di senso per generare le sensazioni da cui i “fantasmi” (cioè le immagini mentali) possono derivare, fantasmi dai quali a sua volta l’intelletto può astrarre i concetti. Ma anche (e più del punto precedente) richiede che ci siano gli organi in grado di generare questi fantasmi, queste immagini, anche dopo che la sensazione è cessata; vale a dire, richiede quei processi neurologici che soggiacciono all’immaginazione. Infatti, anche se il nostro concetto di triangolo (per esempio) non è e non può essere identificato con qualsiasi immagine di un triangolo – così quest’ultima avrà sempre delle caratteristiche che mancano al concetto, ma queste saranno rigorosamente applicabili solo ad alcuni triangoli, mentre il concetto, vago sotto certi aspetti, si applica a tutti i triangoli–, non siamo comunque in grado concepire il concetto di un triangolo senza allo stesso tempo formare un’immagine di qualche tipo (un’immagine mentale di un triangolo o di aspetto o il suono della la parola “triangolo”, o qualsiasi altra cosa).

Un’analogia utile sarebbe la concezione di Frege del rapporto tra proposizioni e frasi. Una proposizione non può essere identificata con una frase; per esempio, la proposizione “ la neve è bianca” non può essere identificato con la frase italiana “la neve è bianca”, perché qualcuno che parlava tedesco, piuttosto che italiano può benissimo esprimere la stessa proposizione utilizzando la frase “Schnee ist weiss”. Ma né può essere identificati con qualsiasi altra frase o una raccolta di frasi, in quanto la proposizione “la neve è bianca” è vera da ben prima della nascita di qualsiasi lingha e rimarrebbe vera anche qualora ogni linguaggio scomparisse. In breve, le proposizioni non sono entità linguistiche. Ciò nonostante, non possono essere afferrate da noi se non mediante entità linguistiche. La proposizione  che dichiara che la neve è bianca non è identica a “La neve è bianca” o “Schnee ist weiss”, ma non si può coglierla senza cogliere almeno una di queste frasi o una frase di qualche altra lingua. Come Frege scrisse nel suo classico “The Thought”: “. Il pensiero, di per sé immateriale, si veste con quell’indumento materiale che è una frase per farsi comprensibile da noi” (Frege sta usando “pensiero” qui in riferimento a una proposizione, cioè al contenuto di un “pensiero” nel senso mentalista del termine.)

Ora a differenza di Frege, Aristotele e Tommaso d’Aquino non sono realisti platonici. Ma sono realisti moderati, e avrebbero affermato qualcosa similare al punto fondamentale di Frege. Non solo le proposizioni ci fanno cogliere i pensieri, ma i pensieri stessi, sono immateriali e distinti da qualsiasi immagine visiva o uditiva che potremmo formarci di frasi particolari. Contemporaneamente ci troviamo nell’impossibilità di trattenere una proposizione e, quindi, di avere un pensiero, senza formare anche delle immagini di frasi o alcune altre immagini. E per il punto di vista di Aristotele e Tommaso d’Aquino, tutte le immagini sono, come ho detto, corporee quindi materiali. Per questo l’Aquinate conclude il libro I, capitolo 2 del suo Commento al De Anima di Aristotele con queste parole: “dal momento che non si può avere immagini senza un organo materiale, sembra chiaro che non ci può essere alcuna operazione intellettuale senza la cooperazione della materia” (come tradotto da Robert Brennan a pag. 192 della sua psicologia tomista).

Da qui il teorico AT afferma che ci sarà sempre qualche aspetto materiale correlato alla normale attività intellettuale umana – ma non come una riluttante concessione forzata della teoria ai successi delle neuroscienze moderne, ma, al contrario, proprio a priori in forza della posizione AT stessa, per come è stata intesa dall’inizio. Aristotele e Tommaso d’Aquino sono talmente vicini a quelle scoperte neuroscientifiche che sono motivo di imbarazzo per il dualista, freneticamente vengono strombazzate dai materialisti, che avrebbero risposto a questi ultimi, con un’alzata di spalle: “Si, si, bravi, bravi. Ve l’avevamo detto da mò”

Quel che l’AT nega, ancora una volta, è che il livello descrittivo neurologico, per quanto necessario, possa essere anche sufficiente per rendere conto dell’intera attività intellettuale. Ci sarà sempre in linea di principio un certo distacco tra i fatti neuroscientifici e i fatti sul contenuto dei nostri pensieri – la quale cosa è stata affermata anche da materialisti come WV Quine e Donald Davidson sotto il profilo filosofico, e psicologi come Kagan hanno affermato su basi empiriche. Per l’AT, la ragione principale, come ho detto, ha a che fare con il contrasto tra il determinato e il carattere universale del pensiero concettuale e la particolare natura e indeterminata dei processi materiali – confrontate l’articolo di Ross, linkato in precedenza, per una presentazione particolarmente esaustiva di questo punto.

Questo, per inciso, è il motivo per cui il teorico AT non è per nulla turbato dalle prove neuroscientifiche circa la possibilità, in linea di principio, del “mindreading”, fenomeno che a volte ottiene l’attenzione anche della stampa popolare. Invariabilmente, ci viene detto che almeno certi tipi di stati mentali possono essere “leggere” le prove neurologico con un grado di precisione che è al tempo stesso sorprendentemente alto e tuttavia notevolmente inferiore all’assoluto. Per l’AT, questo è esattamente ciò che dovremmo aspettarci. Se un “fantasma” o una immagine è materiale, quindi in linea di principio possiamo determinare neurologicamente dove si trattengono certi “fantasmi”, allora le circostanze con le quali le immagini sono nate rendono più probabile la possibilità che vi siano anche trattenuti i pensieri che tipicamente vengono associati a tali immagini. Ma tale probabilità è il massimo che possiamo raggiungere tra i fantasmi o immagini da un lato, e il contenuto concettuale dall’altro – soprattutto quando il contenuto concettuale astrae notevolmente da qualsiasi cosa noi possiamo immaginare, come avviene quando stiamo pensando a fatti lontani rispetto a quelli che possiamo sperimentare direttamente.

Il fatto è uno ed è questo: il dualismo ilemorfico aristotelico Tomista è chiaramente la teoria più coerente con tutte le prove filosofiche e neuroscientifiche. Il dualismo cartesiano non è confutato da questa evidenza, ma deve comunque ricorrere a discutibilissime misure ad hoc al fine di evitare certe difficoltà (il problema di interazione, il fatto che siamo a volte del tutto inconsapevoli e e così via). E non c’è assolutamente nulla nelle prove neuroscientifiche che possa supportare le versioni riduzionistiche del materialismo di fronte alle ragioni dualiste o AT. Gli argomenti adotti per preferire il riduzionismo materialista a queste alternative dualiste nascono tutti da ipotesi metafisiche e metodologiche piuttosto che da evidenze empiriche – ad con appelli falsi appelli al rasoio di Ockham o dall’illusione che “tutto il resto è stato spiegato dal materialismo” . (dico che il ricorso al rasoio di Ockham è in questo contesto fasullo, perché i principali argomenti del dualismo non sono probabilistiche ” ipotesi esplicative” a cui rilevare considerazioni di parsimonia, sono, invece, i tentativi di rigorosa dimostrazione metafisica. Vedi gli articoli su Churchland, su Jackson e su Chomsky linkati sopra al riguardo. Discuto l’affermazione illusoria che “tutto il resto è stato spiegato in termini materialistici” qui e qui ).

Naturalmente, distinguendo i dualismi, i teorici AT percepiscono che i livelli mentali e quelli neurologici di descrizione sono molto più vicini di quanto dualisti cartesiani possano pensare; mentre materialisti non riduttivi come Davidson almeno concepiscono che gli stessi non sono così vicini come i materialisti riduzionisti pensano. Ma ognuno di questi punti di vista soffre ancora analogamente dei problemi che affliggono le versioni più estreme del dualismo e del materialismo. Ad esempio, entrambi affondano nel problema del epifenomenismo, che nasce dalla loro comune insistenza “meccanicistica” che tutte le causalità debbano essere intese sul modello della causalità efficiente. Il dualismo ilemorfico è il vero medio tra gli estremi, il punto di vista che ha i vantaggi degli altri senza le loro difficoltà.

Allora, perché sono le sue virtù non più ampiamente riconosciuti? Le solite ragioni: vi è, prima di tutto, la mancanza di familiarità del filosofo contemporaneo media accademico con quello che gli antichi e medievali veramente pensavano. In secondo luogo, vi è lo status dogmatico ed ideologico che la “rivoluzione” meccanicistica “dei primi moderni – con la loro negazione delle cause formali e finali aristoteliche – ha assunto nella vita intellettuale contemporanea, sostenuta dall’immeritatissimo prestigio che tale rivoluzione ha ereditato dai successi di scienza empirica. (Vedere The Last Superstition per i dettagli). In terzo luogo, c’è l’altrettanto dogmatico ed ideologico naturalismo che si sorregge sulle spalle dei primi due fattori. Come Burge ha scritto in un altro contesto:

La marea di progetti che nel corso degli ultimi due decenni sta tentano di adattare la causalità mentale o ontologia mentale ad un’immagine naturalistica del mondo mi sembrano avere più cose in comune con l’ideologia politica o religiosa che con una filosofia che mantiene la giusta prospettiva sulle differenze tra ciò che è noto e ciò che è speculato. Il materialismo non è dimostrato e nemmeno è chiaramente sostenuto dalla scienza.
(“Mind-Body Causation and Explanatory Practice,” in John Heil and Alfred Mele, eds., Mental Causation, a pag. 117)

 



Categories: Filosofia, teologia e apologetica

Tags: , , , , , , , , , , , , , , , ,

17 replies

  1. Gran finale 🙂
    Tuttavia permane in me ancora qualche “dubia”. L’argomentazione di Feser in questo articolo è ottima ma proprio perchè così convincente nel “togliere” la problematicità della “interazione” offre il fianco ad un’assunzione del tutto astratta dei concetti. Mi spiego meglio. Se i nostri concetti sono del tutto as-tratti dalla materia come possiamo rispondere a chi ne as-traesse la seguente conclusione: i principi e gli universali sono astrazioni, non sono le “leggi” della realtà ma unicamente “oggetti mentali”, produzioni della mente per avere un ordine che in realtà non c’è (quotando dall’articolo: «…processi materiali sono intrinsecamente inesatti, indeterminati e ambigui quando non sono associati a contenuti concettuali..»).
    Sintetizzando il mio “dubia”: la bontà dell’articolo sembra motivare chi ritiene i principi un prodotto della mente. Per l’appunto Feser nell’articolo accenna all’epifenomenismo, sapete indicarmi, se c’è, qualche suo testo dove lo confuta?

    • Questo credo che sia un lecitissimo dubbio di ordine gnoseologico. Il cosiddetto realismo immediato quante armi ha a disposizione per convincere filosoficamente? E quanti problemi crea il realismo mediato (o peggio ancora l’idealismo and so on)?
      Non mi sono mai addentrato in modo dettagliato in questo campo. Cedo quindi il campo ai filosofi del blog (cioè Simon, Claudio o Adriano) e nel mio piccolo comincio a scartabellare i libri che ho in mano (ad esempio rileggendomi un Gilson d’annata o leggermi finalmente un “perché si deve essere realisti” del Lavazza). Magari cerchiamo insieme un articolo sul realismo del Feser. Non è che abbiamo l’abbonamento al solo mind/body problem; Feser ci ha concesso la pubblicazione di traduzione di ogni suo lavoro pubblico quindi… 😉

    • Teo, su questa problematica i medievali discussero in modo molto fine nella disputa sugli universali, che contrappose realisti, concettualisti e nominalisti. Avevo una bella dispensa universitaria sul tema.
      Il tuo dubbio parte sempre da un residuale presupposto dualista. Astrarre suppone che un elemento sia ‘tratto-da’, distillato (‘afferrato’ è il termine che usa Aristotele) da qualcosa che lo contiene assieme ad altro in un composto nel quale si trova naturalmente ‘integrato’. Ciò presuppone che questo non sia creato dal mero atto del distillamento. Frege (da buon platonico) – con una battuta – affermava che Marte non era il risultato degli strumenti e del viaggio che ho posto in atto per giungervi. Esso era lì prima delle mie ‘operazioni’. Il realismo AT riconosce una speciale corrispondenza tra forma ontologica e specie logica, cum fundamentum in re. L’intenzionalità umana è ‘rivelativa’ non produttiva delle strutture intelligibili ‘incarnate’ nella realtà, le rende manifeste, non le produce ma, per dirla con Husserl, ‘le mette a tema’. Certo, i significati universali non sono incarnati in modo puro (distillato) nella realtà, per questo le forme ontologiche si trovano sempre individuate ed attuate nelle realtà individuali e divenienti, col loro grado d’approssimazione e potenzialità inespresse: ma le orbite tengono, i calcoli statici degli ingegneri (se fatti bene) funzionano ed un ordine nella natura è leggibile non perché ce l’abbiamo messo ma piuttosto per quel poco che siamo riusciti a carpire col nostro intelletto ‘vespertino’ 😉

      • Mauro, grazie, nulla da “contro-osservare”, solo una precisazione in merito al mio “dubia”.
        Premetto che personalmente mi colloco nella scuola di pensiero della fenomenologia realista
        del “ritorno alle cose stesse” (Reinach, Hildebrand, Seifert) e quindi sposo in toto l’aspetto “rivelativo” piuttosto che “genetico” dell’intenzionalità umana. Il “problema” dell’astrazione è che il termine oggi è usato da molti per indicare una cosa che non ha luogo nella realtà extra-mentale. In questo senso una “cosa astratta” non è l’universale tale per cui la cosa è (e che noi conosciamo mettendo tra parentesi gli aspetti individuanti) ma è un puro oggetto del pensiero. Quindi con “astrazione” non viene inteso un processo di conoscenza, tale per cui “sveliamo” l’universale, ma un prodotto di conoscenza tale per cui “costruiamo”, “proiettiamo” universali per “conoscere interpretando” non la ma una realtà. Non a caso spesso si sente identificare il pensiero con l’astrazione, è quasi automatico assumere una dualità radicale e irrelazionata (astrazione pura) tra l’oggetto-nel-pensiero e l’oggetto-fuori-del-pensiero.Ho avuto accese discussioni con chi afferma che l’unica cosa che si può conoscere è… il pensiero!

        • Certo, capisco benissimo. E’ il problema della babele dei termini che da Kant in poi sono stati spesso letteralmente stravolti o perfino invertiti nei loro significati e nelle loro prerogative (vedi ragione ed intelletto, sempre in Kant). Certamente nel senso comune contemporaneo – distorto da secoli di dualismo gnoseologico – una cosa ‘astratta’ è molto simile alla fuffa puramente cerebrale. Ma potremmo andare avanti all’infinito, citando a caso, il termine “valido”, “validità” che ha preso il significato di “avente corso” provvisoriamente; oppure “attuale”, che ha smarrito l’antico significato di compiuto, di possibilità tramutata in evento perfetto nella sua specie, per diventare sinonimo di “effimero” e così via. E’ impossibile intavolare qualsiasi discorso se prima non ci si mette d’accordo sui significati di molte parole e da quali ‘metalinguaggi’ e ‘metafisiche’ saltano fuori 😉

  2. Il punto notato da Feser nella parte centrale di questo pezzo lo sosteniamo da sempre: è una concezione “meccanicista” eredità concettuale antiquata e scientificamente sorpassata da un secolo che è lo sfondo concettuale implicito degli approcci “materialisti” riscontrati nella cultura contemporanea.

    Un errore fondamentale e perverso che impedisce alla gente comune anche con formazione scientifica, ignorante e mal formata, di “guardare” il mondo per quel che è e non come un’immenso cubo di Kubrick .

    Il challenge rimane culturale: insegnare e reintrodurre nella cultura uno sguardo impregnato di logica e non di meccanica.

    In fin dei conti la sola domanda che conta per davvero è sapere cosa fa che un sasso sia un sasso e quel sasso e non un altro sasso…

    In Pace

    • Sto leggendo ora il link sopra del disf che cita Gilson. FE NO ME NA LE!
      E ti dirò Simon che in effetti oggi come oggi, prima ancora di recuperare l’idea di sostanza plurale (cioè ciò che fa di quel sasso, “QUEL”.. “SASSO”!), andrebbe recuperato il realismo immediato come forma naturale (di senso comune) di conoscenza. Solo in questo modo, cioè con l’aderenza al reale in quanto tale (accettato nella sua stessa esistenza) si può pensare di recuperare una visione che sia meno ideologica di quelle oggi in campo, visioni che per altro spesso non difettano di logica (penso qui alla ferrea logica idealista, non alla cretineria meccanicistica!). Oggi queste visioni “vincono” facile perché le loro conseguenze nozionistiche sono tutte strade in discesa, ma queste strade sono tutti errori “magnus” visto l’errore “in principio”. Penso all’idea distorta di libertà presente oggi nei ragazzi per cui è libertà prendere il reale e distorcerlo nel proprio desiderio infinito guidato dallo “spirito” inteso in senso ideale.

      I 30 punti di Gilson andrebbero studiati a memoria. Mi chiedo perché mai non li abbia mai letti, accidenti a me!

    • Per dire: “All’origine del realismo c’è dunque la rassegnazione dell’intelletto a dipendere da un essere reale che è causa della conoscenza; all’origine dell’idealismo c’è invece l’impazienza di una ragione che vuole ridurre l’essere reale alla conoscenza, per essere sicura che alla conoscenza non sfugga assolutamente nulla.”

      Caspita, è così! L’uomo di oggi è simile al bambinetto viziato che non sopporta imposizione alcuna, non è forse l’idealismo dunque le mezzo necessario per ingannarsi di poter fare davvero ciò che si vuole?!

      • Sfruttando il cubo di Kubrik 🙂 Porto un’altra immagine, sempre da The Shining.
        Nella versione inglese Jack Torrance, uno scrittore in crisi creativa, scrive ripetutamente: “All work and no play makes Jack a dull boy”, interessantissimo termine “dull”. Se la conoscenza perde il diletto, la meraviglia di farsi toccare dal reale, se non possiamo comprendere altro che oggetti-di-pensiero, allora è tutto un “all work and no play”, tutto è un meccanismo e la ricchezza di “play” è sostituita dalla de-efficenza del “dull”.

        • Altro commento meraviglia che si merita questa citazione dal libro di Fontana edito da Fede e Cultura “filosofia per tutti” :

          “Il domandare segue la meraviglia, cioè l’apprensione del tutto come bisognoso di giustificazione ultima. Prima si apprende il tutto e ci si meraviglia, quindi ci si pone la domanda sulla sua origine e il suo senso. Non è, quindi, il domandare dell’uomo smarrito nel buio, ma è il domandare che ha davanti la luce del tutto. Non è il dubbio. Su questo si gioca la differenza fondamentale tra la filosofia perenne, greca e cristiana, e la filosofia moderna. In quella il domandare nasce dalla certezza di conoscere l’essere, dalla pienezza dell’essere davanti a noi; in questa il domandare viene prima, nasce da un “io” solo e sperduto che si pone delle domande sulle sue rappresentazioni del mondo. Se all’inizio poniamo un frammento e non il tutto non riusciremo poi a guadagnare il tutto. Se all’inizio poniamo il dubbio non riusciremo più a raggiungere nessuna certezza. Se all’inizio poniamo l’anarchia non riusciremo più a guadagnare l’ordine. Se all’inizio poniamo la meraviglia ogni nostro dubbio si fonderà su una certezza iniziale fondamentale e ci farà procedere verso nuove certezze.”

          pag. 14

    • “Cubo di Kubrik” è un lapsus bellissimo. Sposa il “modo” in cui forse molti scienziati interpretano la conoscenza — un “meccanismo” che da ordine ad un sensibile che non lo ha — con l’immagine del custode dell’Overlook Hotel che rimane congelato nel labirinto perchè si è lasciato sfuggire (to overlook può anche voler dire “lasciarsi sfuggire”) il lume (shining) della ragione (il bimbo, “se non vi convertirete e non diventerete come i bambini”). Io alzo il livello di challenge: reintrodurre nella logica uno sguardo impregnato di morale e non di formalismi, solo il Bene può farci uscire dal labirinto che abbiamo creato e in cui ci siamo persi tentando di ricreare un ordine a nostro piacimento.

      • Il bene visto come trascendentale però.
        Ottimo commento, grazie Teo.

        • Trascendentale Tomista però, non in senso idealista.
          Riporto dal punto 4 dei 30 di Gilson:

          «Un termine di tipo idealistico è quasi sempre un termine che per il realista designa
          una delle condizioni spirituali della conoscenza e che invece l’idealista considera
          come generatrice del suo contenuto.»

          Quindi “trascendente” suppongo che per un Tomista sia una condizione spirituale
          della conoscenza, per l’idealista invece si tratta della “conoscenza trascendentale”,
          cioè una conoscenza in quanto generatrice del contenuto-di-conoscenza.
          Quindi il Bene per il Tomista trascende la nostra conoscenza, per l’idealista direi
          di no.

  3. Otimo in tutto. Unica cosa che mi stona è l’uso del termine ‘dualismo’ ilemorfico, che può trarre in inganno (ma forse nell’originale inglese il termine non ha il netto connotato oppositivo che abbiamo in italiano) A rigor di logica più che di dualismo bisognerebbe parlare forse più di ‘organicismo’ o complementarismo ilemorfico, laddove i due poli potenza-atto / materia- forma si semantizzano a vicenda e non sono neppure concepibili sé non all’interno di tale relazione ‘duale’ ma non ‘dualista’…

    • Concordo. Feser sottolinea che riprende questo termine da un altro studioso, anche se poi lo sposa citandolo per tutto l’articolo. Secondo me lo fa per entrare nel dibattito usando un termine già conosciuto in ambiente, senza doversi inventare uno nuovo. Termine che però – in effetti – potrebbe essere talmente ambiguo da prestare il fianco a possibili ennesimi qui pro quo inutili.

Scopri di più da Croce-Via

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading