TICenter – Conosci te stesso

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Come conosciamo noi stessi? Conoscersi significa essere in qualche modo oggetto del nostro stesso pensiero. Ma in che modo? Qualunque esso sia, deve avere a che fare con la nostra natura di esseri intelligenti. Il semplice vedersi allo specchio non è sufficiente. Deve trattarsi di un’esperienza intellettuale, qualcosa che sta nella nostra mente. Come si dà una conoscenza di questo tipo?

Adesso, magari, qualcuno potrebbe pensare a se stesso come io posso pensare a quando ero in vacanza qualche anno fa in una certa isola siciliana. Quando penso a quella vacanza mi conosco nel senso di ripensare a quello che facevo in quell’isola. È come vedere un film. Il mero ricordo di alcuni fatti però non è una vera conoscenza di me stesso. Anche se riguardano me, i miei ricordi sono altro da me. Sono alcune delle miriadi di cose contenute nella mia memoria e nella mia mente. Oltretutto, quella conoscenza potrebbe essere sbagliata per molti motivi, e potrebbe essere alterata dalla fantasia e dal desiderio. A volte vediamo questi film interiori e fantastichiamo su di essi, ma queste pellicole immaginarie, ripeto, potrebbero essere deformi e falsate in molti modi. Come chi pensa di essere stato particolarmente simpatico mentre la realtà è che i suoi amici o le persone intorno a lui non riuscivano proprio a sopportarlo; o come chi si immagina eloquente e sicuro di sé solo perché si concentra più su quello che vive nella sua fantasia che su quello che succede davvero al di fuori.

È ovvio che noi possiamo sempre pensare le nostre stesse idee, al di là del fatto che siano più o meno vere o più o meno false. Basta mettere una nostra idea davanti agli occhi della mente, come per me il trovarmi in quell’isola, e mettere a fuoco su di essa. Questa idea però è un prodotto già concepito, che sta lì in qualche modo davanti a noi. Il vero conoscersi è altro. Deve stare nell’atto del pensare, come il vedere la nostra immagine allo specchio sta nell’atto del vederla e il ricordarla sta nell’atto della nostra memoria che la riprende dal passato.

Tommaso d’Aquino, quando affronta questa questione, dice che noi non ci conosciamo direttamente. Questa è un’affermazione molto più interessante di come potrebbe apparire a prima vista. Tommaso sostiene che il nostro intelletto, a differenza di quello di Dio o degli angeli, è fatto per conoscere tramite le nature materiali, tramite i sensi esterni che entrano in contatto con le cose materiali. La prima cosa che il nostro intelletto conosce, pertanto – il suo oggetto proprio – è la natura di queste cose materiali. Quando apriamo gli occhi dell’intelletto alla realtà, sono queste le cose che ci appaiono, il primo conosciuto.

Conosciamo, ad esempio, la pietra come diversa dall’albero: cioè, la conosciamo rispetto a ciò che la rende quello che è e che al tempo stesso la differenzia dalle altre cose. Anche quando ci sbagliamo, il nostro intelletto conosce sempre secondo la natura delle cose perché altrimenti tutto resterebbe indifferenziato e non conosceremmo nulla. La mano conosce la pietra solo rispetto a come si presenta al tatto. La mente la conosce per quello che è rispetto alle altre cose circostanti e le dà un nome. Questa operazione – il darle un nome, il chiamarla “pietra” – significa pensarla come diversa dall’albero e quindi secondo una diversa e specifica natura. Certo, potremmo dare un nome a una cosa che non è realmente diversa da un’altra, ma il possibile errore non cambia l’essenza del nostro conoscere.

Secondo Tommaso, il nostro legame con le cose materiali è così stretto che il nostro pensiero non riesce mai a distaccarsene. Senza la mediazione di qualche immagine sensibile, noi non riusciamo a pensare non solo le pietre e il leone ma neppure le cose più astratte. Quando pensiamo a noi stessi e ai tratti della nostra personalità ci viene generalmente in mente il nostro corpo (magari qualche fotografia), e quando pensiamo al concetto matematico di caos ci viene in mente un ambiente disordinato, delle linee che si interrompono (cioè non lineari) o qualche equazione scritta in un foglio di carta o in una lavagna.

La conoscenza di noi stessi non è un’immagine e non è un mero ricordo. È la percezione che abbiamo del nostro io mentre conosciamo le altre cose, e queste altre cose sono in principio le nature degli enti materiali. Poi, in termini più tecnici, si dice che “di seconda intenzione” noi conosciamo le nostre stesse idee: vale a dire, che possiamo concentrarci sugli oggetti che abbiamo nella nostra stessa mente e anche creare idee di cose che non ricadono sotto i nostri sensi, come l’idea di atomo o di buco nero. L’oggetto di “prima intenzione” tuttavia rimane sempre quel qualcosa di materiale che cade sotto i nostri sensi esterni e a cui la nostra mente deve sempre ritornare.

Noi conosciamo noi stessi di riflesso, nell’atto di conoscere le altre cose. Percepiamo il nostro io pensante, il sé, la nostra attività intellettiva mentre essa è in corso, mentre agiamo come esseri intelligenti: ovvero, nell’atto di pensare qualche altra cosa, fosse anche il ricordo di una nostra vacanza estiva. La nostra conoscenza di noi stessi è dunque una conoscenza mediata. E anche la nostra volontà e la nostra libertà, il nostro volere o scegliere qualcosa, li percepiamo nell’atto di volerla o di sceglierla: cioè, nel conoscere quella cosa verso cui siamo razionalmente inclinati nell’atto stesso di tendere verso di essa con la ragione. Desideriamo una certa cosa e ci conosciamo come “inclinati” verso di essa: come soggetti che la “scelgono”.

Questa è una cosa affascinante che possiamo provare anche al livello esperienziale. Possiamo riflettere sul modo in cui conosciamo noi stessi nell’atto di pensare, e vedere se riusciamo a farlo direttamente o se si tratta in effetti di un’attività mediata da altri oggetti del nostro pensiero: da cose, cioè, che possiamo guardare e osservare, ivi incluso il nostro corpo.

Questa esperienza intellettuale rivela una differenza essenziale tra classicità e modernità. Se il nostro atto di conoscere noi stessi come esseri pensanti (non solo come ricordo immaginifico di eventi passati) è mediato dalla conoscenza delle nature corporee, se è quindi conoscendo di prima intenzione la realtà sensibile che di riflesso, in quello stesso atto di conoscenza, percepiamo noi stessi come pensanti, se è questo il processo che sta dietro alla conoscenza che abbiamo di noi stessi, allora la struttura del dubbio metodico che sta all’origine del pensiero moderno (il dubbio cartesiano) crolla irrimediabilmente. Cartesio parte dalla premessa che i sensi sono ingannevoli e che la nostra prima certezza è il nostro io pensante. Ma se i sensi sono ingannevoli, e se il nostro primo atto intellettivo è mediato dai sensi, allora la nostra stessa percezione di essere pensanti potrebbe essere inficiata dall’ingannevolezza che avvolge il mondo dei sensi.

Il pensiero moderno vorrebbe trovare “chiarezza” e “distinzione” (i due canoni della certezza cartesiana che derivano dalla pura idea della mente o dal pensiero come tale) in un oggetto visto di riflesso: un oggetto che, essendo mediato dai sensi, ne dipende necessariamente e sarà sempre meno chiaro e distinto di essi. Siamo onesti, che chiarezza e distinzione abbiamo sul serio del nostro conoscere noi stessi o del nostro pensare? Possiamo veramente dire che la conoscenza di noi stessi è indipendente dalle cose materiali che ci circondano (incluso il nostro corpo) o che è più chiara e distinta di esse?

Fulvio Di Blasi

Versione inglese dell’articolo sul blog del TICenter

Video della lezione daily insight sul canale tv web del TICenter



Categories: Filosofia, teologia e apologetica

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12 replies

  1. Come demolire in 1000 battute il cardine gnoseologico contemporaneo e ripristinare il miglior modo per intendere la conoscenza della realtà, di sé stessi e della conoscenza stessa!
    Grazie Fulvio!

  2. Davvero un bell’ articolo: sintetico e chiaro!

  3. il problema però non è tanto che noi conosciamo noi stessi mediatamente , grazie ai sensi esterni , il problema è se questi sensi grazie ai quali conosciamo noi stessi ci danno o no una vera conoscenza della realtà.
    molto antica, molto prima di Cartesio, è la teoria della filosofia indiana secondo la quale questo mondo è “maya” illusione, e i nostri sensi fanno parte di questa illusione e noi stessi facciamo parte di un’ illusione.
    nel bellissimo testo teatrale di Calderon della Barca “La vita è sogno” il protagonista risvegliatosi, dopo essere stato trasportato dalla prigione dove era vissuto in solitudine e segregazione per anni e anni, in una reggia, si risveglia appunto trattato da re, su un letto di piume ,tutti lo riveriscono. I suoi sensi gli dicono che lui è un re, la realtà che sperimenta è di essere un sovrano nella sua reggia. E quindi pensa che la prigione sia stata un sogno e quello che sperimenta ora sia la verità.nella realtà invece è un prigioniero che vogliono “illudere” con un inganno.
    “La vita è sogno” è il più profondo dei libri occidentali su realtà e illusione, ma anche in molti testi di Shakespeare si trova l’accenno al fatto che tutto ciò che si vive e si sperimenta, compresa la conoscenza di se’ stessi, può essere un inganno ed un’ illusione . e sia Calderon della Barca che Shakespeare erano cristiani !
    i sensi, fonte della nostra conoscenza su noi stessi, possono essere fallaci e possono essere illusorie le nozioni che da essi derivano.,

  4. Ho posto a Fulvio una domanda privata su questo post e la risposta mi pare completare il quadro di eventuale lacune che potrebbero attanagliare un lettore (come ad esempio è successo a me). Come da accordi con lo stesso autore riporto il tutto!

    “Domanda: una persona cieca e sorda dunque ha necessariamente una conoscenza della realtà completamente diversa dalla nostra, pertanto anche la conoscenza di sé stesso sarà diversissima, ma in che senso? A rigor di logica una persona senza nessun senso attivo dunque non potrebbe conoscere sé stessa poiché non si conoscerebbe nell’atto di conoscere la realtà? Dunque sarebbe considerabile “persona” un individuo che nemmeno riesce a conoscersi?
    So che son domande che nascondono molte lacune filosofiche da parte mia, me ne scuso.”

    FULVIO: Mazza che domanda di prima mattina […] In effetti, è molto variegata e potrebbe meritare un pezzo a sé. Il fatto stesso che la fai significa che dovrebbe essere chiarito bene. Al volo posso dirti che, certo, la conoscenza della realtà di una persona che manca di un senso è qualitativamente diversa da quella di chi ce li ha tutti nel senso che è più limitata. I sensi però sono i veicoli che abbiamo per conoscere la stessa realtà, quindi un senso può essere supplito dagli altri nel conoscere le stesse cose… ma ripeto, di quelle cose mancherà qualche aspetto… Non so se possa darsi come patologia l’assenza totale di tutti i cinque sensi esterni. Ricorda che il tatto è più della mano… tutte le esperienze del corpo, incluse le vibrazioni del cuore rientrano nel tatto. Ma se veramente ci fosse una patologia del genere, il soggetto non potrebbe conoscere nulla, neppure se stesso ovviamente. Non potrebbe agire e pensare. Senza bisogna di questo caso estremo, pensa che perfino il neonato in buone condizioni fisiche, se cresce tra gli animali senza contatto con gli uomini non riuscirà a pensare come un uomo…
    Il pensiero si sviluppa in base al contatto, non solo di base dei sensi con le cose, ma anche qualitativo con gli altri esseri umani in termini di libertà e ragione.
    L’essere persona poi è una condizione ontologica, nel senso che precede e fonda la possibilità di agire come una persona. Però certo, se la persona non può agire non può sviluppare la propria personalità. Alcune patologia fisiche sono così radicali da implicare l’assenza dello stesso principio ontologico, per esempio la mancanza dalla nascita di parte considerevole del cervello.
    Potrebbe piacerti per inquadrare la metodologia con cui si capiscono gli atti dell’anima l’ultima lezione postata del mio corso di morale. “Gli atti e le potenze dell’anima” L’hai vista? Spiego molto di queste cose rispetto al modo in cui conosce la vista e l’intelletto…

    Ecco il link della lezione di cui Fulvio parla: http://www.ticenter.net/atti-e-potenze-anima/
    Io, senza saper né leggere né scrivere, comincio ad ascoltarla!

  5. I sensi umani, più che “ingannevoli”, li definirei meglio come “limitati”; prendiamo come esempio un’illusione ottica: al primo colpo potrei cadere nell’illusione, ma questo non perché i sensi mi “ingannano” o lo fa ciò che mi circonda, ma perché i miei sensi non sono così potenti da comprendere in pieno quella realtà, quella realtà va oltre il limite dei miei sensi.
    La realtà non sempre coincide con la percezione di essa e non essendo l’uomo perfetto ma perfettibile, così i sensi dell’uomo non sono perfetti ma perfettibili; ci aiutiamo con strumenti come microscopio, telescopio ecc. per vedere cose che altrimenti a occhio nudo non vedremmo, ma essendo che anche questi strumenti vengono costruiti con quanto reperibile nel mondo materiale e sono sottoposti alle leggi fisiche come tutto ciò che si trova nel mondo materiale, hanno anch’essi limiti invalicabili.
    Anche di fronte a un’illusione ci si può chiedere “questa è la realtà o c’è qualcosa che me lo fa credere?”, ma in ambedue i casi comunque esiste una realtà che ti fa percepire quanto percepisci (es. se ciò che vivo non è reale ma è indotto da qualche macchina, allora le sensazioni che provo esistono comunque, solo che invece che farmele provare l’ambiente che percepisco, lo fa la macchina a cui i miei sensi limitati non arrivano).
    Perdonate la non tanto piccola digressione 🙂

    • I sensi umani sono limitati e Ingannevoli. tipico è l’esempio, citato in tutti i testi di filosofia indiana, della vista che può scambiare un bastone con un serpente( e viceversa).
      ma non sono solo i sensi ad essere limitati ed ingannevoli , è anche la mente , se si intende con mente l’attività cerebrale.
      Gli studi compiuti su pazienti neurologici ( affetti da sindrome di Alzhaimer) o psichiatrici ( affetti da schizofrenia) ci dimostrano che la mente umana, definita come attività cerebrale, può essere fallace. ed ingannevole.
      Gli schizofrenici per esempio hanno spesso sdoppiamenti della personalità, non conoscono se stessi come un solo se’ ma come due o tre se’. il famoso “doppio”, Dopplergangler della letteratura romantica. Il problema della conoscenza di se’ stessi già nell’antichiità greca era visto come il problema dei probleli. Nel frontone del tempio di Apollo a Delfi stava la scritta ” conosci te stesso”
      già ma conoscere se’ stessi cosa significa? conoscere presuppone un soggetto ( conoscente) ed un oggetto ( conosciuto) . nel caso del monito”conosci te stesso il problema è che conoscente e conosciuto sono lo stesso essere: l’essere che conosce se’ stesso, nON è FACILE, NON è SEMPLICE, è PROBLEMATICO.
      Cosa conosco quando dico di conoscere me stesso? vedo me stesso che conosce? il mio cervello riflette sulla sua stessa attività’ ?cioè cellule che riflettono su altre cellule?
      il conosci te stesso , dal tempo dell’oracolo di Delfi ad oggi, è veramente il problema dei problemi della filosofia. non facile da risolversi e nessuno lo ha mai risolto.

      • Copio incollo un commento dello stesso Fulvio di Blasi sul suo facebook in risposta ad una domanda simile, meno “kantiana” della tua, ma che comunque poneva domande sul realismo arrivando a sfiorare l’ipotesi di matrix qui già trattata:

        ” Qualunque descrizione facciamo del reale deve avere un punto di partenza, immediato o mediato, nel reale. Sotto questo profilo, perfino il nostro dubbio dipende da una precedente esperienza del reale. Se capiamo che il nostro stesso pensare, e quindi anche l’atto intellettivo del dubbio, dipende dal previo contatto conoscitivo con la realtà che viene dai sensi, allora capiremo che il dubbio totale è in realtà un vizio di circolarità ultimamente irragionevole. Il discorso che fai sui sensi e la realtà aumentata non lo capisco bene. E’ ovvio che ogni senso rileva un aspetto del reale in funzione della sua conformazione o natura, cioè della conformazione o natura del senso. Sotto questo profilo, ad esempio, il nostro occhio rileva solo una parte dello spettro elettromagnetico della luce. Una telecamera a infrarossi è già una realtà aumentata, ma ciò non significa che non ci dia un’informazione vera. L’unica cosa che ci serve sapere è che la telecamera reagisce sempre allo stesso modo allo stesso tipo di segnali (come nel suo spettro fa l’occhio umano). Tutti gli strumenti che ci danno informazioni oggettive suppletive ben vengano. Nessun senso e nessuno strumento suppletivo nega l’oggettività del conoscere, semmai il contrario: si fonda su di essa. In questo pezzo in realtà non affronto queste cose ma solo il senso in cui la conoscenza di sé è mediata.”

  6. Aiutatemi a capire una cosa (sto tentando di apprendere le basi del Tomismo e sono all’asciutto di Aristotelismo). Poniamo questi punti:

    * Davanti a me c’è una ciliegia che ha la forma accidentale rossa
    * Vedo la ciliegia e conosco il suo colore

    Ora, la forma “rosso”, il suo essere tale, io la percepisco attraverso i sensi corporei.
    Quindi il “rosso” è extra-mentale, non è da me prodotto ma da me percepito
    (credo che si possa mettere tra parentesi tutto il meccanismo attraverso cui viaggia il dato sensibile),
    corretto?

    La forma “rosso”, in quanto forma accidentale della ciliegia, non è materiale, giusto?

    • Non è materiale, giusto.
      Materia è pura potenza: il rosso è già una deteminazione che “limita” la potenza.
      In Pace

      • Grazie Simon. Ora però mi fai nascere un altro dubbio 🙂
        Ho finito la prima lettura di “Scholastic Metaphysics” di Feser (autore che ho conosciuto tramite questo bel Blog), qui dice che, Scolasticamente per quanto concerne le sostanze materiali, è la materia che limita l’atto (in questo caso la forma “rosso”). Tuttavia è anche vero, o almeno a me sembra vero, che l’atto limita la potenza: da indeterminata l’illimitatezza della materia prima è formalmente determinata nel limite di materia seconda. Quindi il dubbio è su come intendere, o associare “limite” e “determinazione”. Forse è solo una questione di priorità ontologica: la forma, in quanto atto, limita la materia, questa in quanto potenza limita la forma. Scusa la poca precisione ma sto “ragionando ad alta voce” e approfitto della vostra gentilezza 🙂

        • La potenza pura, la famosa materia prima, non può sorgere all’essere: è informe per definizione e quindi non è neanche concepibile, visto che un concetto è una forma.
          Un atto puro non possiede nessuna potenza cioè nessuna materia prima e in questo è immutabile e non può non essere.
          Gli enti che consociamo sono però sempre una miscela o un composto di atto e di potenza, cioè di forma e di materia: più sono determinati nel loro atto meno hanno potenza e viceversa. In questo senso possiamo dire che l’atto riduce o limita la potenza.
          In Pace

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