“Dell’arte e della Fede”: un viaggio a due voci – 03 (Sulla musica e il teatro)

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MS: Caro Mauro, la tua domanda mi ha portato lontano e ora mi sento di chiederti dove ti sta portando il comporre musica non semplicemente come espressione autonoma, ma come parte di un progetto artistico più ampio. La tua esperienza è nata nel teatro sacro dove tutto poggia sulla parola e sul gesto, e noi sappiamo che valore trasformante e vivificante ha la Parola. Nel cinema le parole si sommano alle immagini. Nel teatro tutto suono e gesto. La tua chiamata in fondo allora qual è? Come si posiziona la musica per te in queste espressioni artistiche? Parallelamente a quello che ho descritto io, vorrei anche sapere che percezione hai dell’ambiente musicale e teatrale e quali sono le sfide che noi cristiani dovremmo raccogliere in questi contesti.

MG: Parto da questo ultimo frammento della tua ricca domanda, caro Massimo, perché forse analizzando quello che a me pare l’ambiente teatrale e musicale potrò rispondere alla prima parte. Premetto che la mia esperienza musicale non è enorme e ancor meno lo è quella teatrale, le mie affermazioni dunque sono pure opinioni basate su fatti di vita vissuta, non analisi sociali scientifiche o pseudo tali su un preciso ambiente.

Mi sono avvicinato allo studio della musica e della composizione per la larga porta del metal estremo (Sepultura, Deicide, Slayer and so on), della quale mitigavo la violenza musicale e testuale con la mia ignoranza nell’inglese dei tempi (che uno lodasse Dio o bestemmiasse poco mi calava, il testo per me era un pretesto per far musica) e con la mia innata capacità di melodista, unico vero dono musicale “naturale” che ad oggi mi riconosco. Nacquero così le prime canzoni nelle quali si scontravano forme metal con testi onirici, le quali mi aprirono le porte ai primi festival. Senza ripercorrere tutte le tappe di una “carriera” minuscola come la mia, posso dire che la sensazione dell’ambiente musicale che ad oggi possiedo – per mia fortuna e grazia divina ho pochissimo a che fare con l’ambiente pop che è quello meno musicale possibile a mio dire – è quello di un entroterra artistico certamente lontano dalla prospettiva cattolica, eppure tanto vicino alla ricerca di un ideale di bellezza che porta l’artista in questione ad una continua ricerca, ad un continuo mettersi in discussione. A tale proposito ricordo con piacere una cena post mixaggio nel nostro studio di registrazione, fatta con tre artisti famosi di jazz contemporaneo, durante la quale abbiamo disputato di realismo, filosofia tomista (di cui due di loro nemmeno conoscevano l’esistenza), dell’irrazionalità delle visioni taoiste, dei limiti della ricerca scientifica (uno di loro è un vorace lettore di divulgazione scientifica) e di Dio. Nessuno di loro si è alzato dichiarandosi stanco di queste fandonie o sparando le minchiate che ogni due per tre si leggono su web. Anzi, ascoltavano ammutoliti il mio tentativo di esplicare la prima via di Tommaso in termini moderni, cercandone eventuali contro argomenti (es: e se l’universo esiste da tempo infinito?) e annuendo alle mie risposte secche (es: aspetta ORA un treno partito un tempo infinito fa, quando arriva fammi un fischio…). Questo non significa che hanno cambiato idea, tutt’altro, però hanno ringraziato per la bella serata e se ne sono andati contenti non solo per il mix, ma forse anche per qualcosa d’altro. E’ letteralmente gente abituata a discutersi e a dialogare, soprattutto i jazzisti,  coloro cioè la cui musica è necessariamente un mettersi in discussione dialogando artisticamente attraverso continue nuove collaborazioni.

Sulla musica “cristiana” e sulla mia personale opinione che non tutto il rock vien per nuocere qualcosa scrissi anche su questo blog, in questa occasione potrei sottolineare come a mio avviso servirebbe, nel panorama nazionale e/o internazionale, trovare un artista che sappia narrare la razionalità della fede, che contrasti il pensiero unico e le cazzate del politically correct utilizzando la rabbia che automaticamente si collega a generi precisi, siano essi ad esempio rock o rap. Rabbia che, come già scrissi qui, non è assolutamente la “forma” necessaria per creare in maniera credibile ad oggi con questi  generi (le forme musicali son scatole vuote con orchestrazione più o meno obbligata da riempire con quel che si vuole, ovvio che anche la scatola fa il messaggio, ma fino ad un certo punto).  Questo potrebbe fornire una buona alternativa, in sede italiana, alla musica scritta da quella maggioranza assoluta di cantautori, cantanti, esecutori, interpreti, scrittori e compositori legati ad una visione sociale e politica precisa, la cosiddetta “sinistra” (ad oggi oramai illustre sconosciuta) che ieri sapeva mettersi in discussione alla maniera degli amici jazzisti, come un Pasolini o un De Andrè e che oggi invece perde geni per la strada del radical chic più becero.

Un appello: se siete autori di canzoni cattoliche che rispondono a questa mia visione e vi serve un produttore artistico, fatemi un fischio!

E ora il teatro: un ambiente che conosco tangenzialmente e solo in modo distorto. Distorto perché lavoro quasi esclusivamente nel teatro sacro e quelle poche volte che lo spettacolo in cui ho lavorato non lo era, lavoravo con amici che comunque sono vicini ad una visione teista della vita. Anche questo ambiente è ovviamente enorme, amplio, di difficile lettura e la mia esperienza, falsata dalle mie collaborazioni “a senso unico”, non aiuta l’analisi. Pertanto è meglio parlare di come Umberto di Teatro Minimo, regista cattolico specializzato nella scrittura e messa in scena di opere teatrali sacre, mi ha inserito anni fa nell’organico fisso della sua compagnia. Da allora ho recitato, ho aiutato nella redazione di copioni e scritto musiche per teatri: una avventura splendida, ma in un ambiente “protetto” ad esempio recitando a Teatri del Sacro a Lucca o per le repliche nei teatri dell’Oratorio e Sale della Comunità.

Inutile dire che questa mia esperienza mi ha aiutato non poco nel mio cammino di fede travagliato e soprattutto mi ha fatto capire come molti colleghi lontani dalla visione cattolica, una volta inseriti in un contesto bello e piacevole come quello in cui ho la fortuna di collaborare, ammorbidiscono le loro posizioni, addirittura mettendole a volte in discussione. Questo credo sia dovuto per la capacità di Umberto di narrare storie che prendono spunto dal Vangelo e colpiscono perché molto vicine alla quotidianità. Una poetica quindi lontana dagli eccessi del teatro contemporaneo – spesso beceri pretesti di un nulla ammantato ad arte-  che qualcuno potrebbe addirittura criticare come “troppo commerciale” o “poco coraggiosa”, eppure in grado di comunicare in modo forte e netto una precisa visione di chi è l’uomo e cosa è chiamato ad essere.

E in questo caso penso a “Parabole di un clown”, un monologo accompagnato dalla musica il cui copione, scritto con l’ex comico televisivo Bruno Nataloni (oggi insegnante di religione!), è di una potenza comunicativa sulla “bellezza di essere cristiani” ineguagliabile. Ma anche a “Cantico” che, all’opposto, è una sorta di pendolo fra le mezze parole di due amanti in continua ricerca del “noi” della loro coppia e canti di stampo romantico con inserti ebraici dove – letteralmente – volano degli artisti di circo.

A mio avviso dunque il gesto e la parola teatrale per comunicare questa “bellezza cristiana” della Buona Novella può passare attraverso forme sostanzialmente diverse fra loro:  dal monologo “pastorale” (Parabole di un clown) al silenzioso circense che mima un’anima amante (Cantico). Lo spirito però deve essere quello di una comunicazione aperta, onesta, non criptica, non enigmatica, vera. Non bisogna cioè solo chiedere a registi non credenti di confrontarsi con delle pagine per loro estranee (come se questo avesse l’arcano potere di risvegliare in loro un desiderio di infinito, una superstizione pari al credere che disputare con gli amici jazzisti li ha fatti diventare dei teisti convinti…), ma cercare e spronare registi cattolici a narrarsi senza alcun timore. Non si deve quindi fornire allo spettatore soltanto delle domande alte, ma dare anche – in modo chiaro e non catechizzante – LE risposte cattoliche, che solo uno che vive la Buona Novella, o si sforza di farlo, può dare. E non perché chi non la vive non può capirle, bensì perché costui le esprimerebbe sul palco in modo banale o disonesto o tradendone molte parti importanti.

La Verità deve uscire tutta e tutta insieme e non può essere piegata ad esigenze di copione. E’ il copione che è tale solo perché piegato alla Verità. E per quanto il copione possa essere tecnicamente una bomba commerciale, se narra la Verità – soprattutto oggi – lo farà diventare scomodo e “fuori moda”. Un copione simile dunque, anche tacciabile di “poco coraggio nella forma” per gli standard della presunta arte teatrale contemporanea, è invece quanto di più coraggioso possa esistere poiché senza mezzi termini e con una specchiata onestà intellettuale si permette di mette in scena la “violenza” dell’Evangelo, con tutta la sua carica rivoluzionaria della reazione di un’anima che incontra quello che da sempre ricerca: il suo Creatore.

Si, potrei dire di essere stato fortunato.
Ma, ehi!, il caso non esiste, quindi sono stato graziato!



Categories: Sacra Arte

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2 replies

  1. Dell’arte della Fede c’è un gran bisogno. Le inani parole pronunciate da certi esponenti del clero di fronte all’ira blasfema di chi per il recente terremoto se l’è presa con il Padre Eterno, ma poi anche le modalità con cui vengono ormai celebrati (?) i funerali, la dicono lunga sulla voragine che si è creata, in termini di Fede nel Dio trascendente e nella sua salvezza, all’interno del cosiddetto popolo di Dio e delle sue guide.

    Se per più d’uno, come è emerso in questi giorni, simili riflessioni costituiscono un’irritante motivo di stizza, ciò avviene solo perché questo più d’uno è irrimediabilmente, disperatamente, organico alla voragine di cui sopra.

  2. Caro Mauro, tu parli di spronare autori cattolici a narrare e narrarsi. Mi nasce allora un pensiero o meglio sarebbe una riflessione, che porta un po’ più in là e va anche oltre i già grandi confini dell’arte. La vita della Chiesa, intesa nel suo senso più completo di Popolo di Dio, si compone di due grandi respiri che, sebbene sempre presenti, si alternano per intensità, lungo i vari Pontificati: l’Urbe e l’Orbe. Un pontificato come quello di Benedetto XVI era tutto stretto all’Urbe per ridare sale e sapore ad un Cattolicesimo ormai insipido e svuotato. L’attuale Pontificato mi pare invece dilatato tutto verso l’Orbe. Senonché mi risulta piuttosto evidente che gli effetti del precedente Pontificato non sono considerevolmente riscontrabili nel laicato. Come ci si può tendere verso l’esterno se si lascia sola e svuotata la propria casa? Ripropongo la metafora esplicitandola riguardo agli autori cattolici: come davvero pensi che si possano creare opere di spessore se non si sono costruite delle più che solide fondamenta spirituali e culturali? Il Profeta, dovremmo saperlo, non è ben accetto in Patria, per cui ad un laicato che si accontenta quasi sempre di semplici ricette morali, ma totalmente digiuno di capacità introspettiva, e tantomeno di metafisica e di scienze sacre, si rischia di risultare indigesti. La mia vuole essere una sana provocazione, perché mi pare che tu hai colto un punto dolente, che come sempre ci mostra in realtà la via di uscita.

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