“Dell’arte e della Fede”: un viaggio a due voci – 02 (Sulla settima arte)

Vsevolod Illarionovič Pudovkin - Mat (Madre), 1926

Vsevolod Illarionovič Pudovkin – Mat (Madre), 1926

MG: Carissimo Massimo, entro subito in medias res. Le tue ultime righe son particolarmente significative e profonde, indizio che la tua ricerca artistica non è solamente umana, ma in primis soprattutto spirituale, di “fede e speranza”. La qual cosa potrebbe sembrare, agli occhi dei “profani” d’arte, non solo normalissima, bensì il minimo comune multiplo delle sensibilità che poi si appalesano ai fruitori tramite il medium artistico. E questa era in effetti anche il mio pensiero generale, ben sapendo che la ricerca di ogni artista è anche strettamente soggettiva. Eppure durante le nostre conversazioni m’è parso di capire che all’interno del tuo settore artistico di riferimento (il cinema) questa tua – chiamiamola cosi – “ricerca di vita” sia eufemisticamente poco compresa, se non addirittura osteggiata. Sapresti tracciare un quadro minimo di questa caratteristica peculiare del settore per i nostri lettori, naturalmente per quella che è la tua esperienza?

 

MS: Luce, luce, vi prego! Anche un piccolo lume, in questa oscurità. Non basta forse una sottile fiamma a scacciare le tenebre? Ecco, questa è l’arte, uno spiraglio nel buio che ci avvolge, una goccia d’acqua che fa fiorire un deserto e lo trasforma in giardino. Caro Mauro, la tua domanda è la regina di tutte le questioni. Non la si può aggirare, né risolvere in poche righe. Vi è troppo da dire, troppo importante e troppo urgente. Mi perdoneranno quindi i lettori se andrò a fondo, come quando si scava un pozzo nella terra fino al punto in cui l’acqua zampilla fresca e limpida. Dividerò il mio intervento in due parti: la prima cercherà di sondare cosa sia l’arte, quale il suo reale fine e perché oggi, in modo speciale il cinema, abbia costruito una gabbia, un recinto dal quale pare che non si possa fuggire; un ‘pensiero unico’ che mortifica il vero artista e allo stesso tempo oltraggia lo spettatore.

Occorre prima di tutto chiarire che si tratterrà dell’arte e in modo specifico del cinema nel senso più alto, come strumento che eleva l’anima e la solleva dalle terrene inquietudini, verso altezze purissime e dell’artista come genio e profeta. È bene sottolinearlo con forza, perché sarà il sotto-traccia di ogni nostra affermazione, di ogni nostro ragionamento. Quando si compie una scalata è importante tenere lo sguardo fisso alla vetta, non importa quanto sudore ancora servirà, quante ferite righeranno le nostre mani. Se facessimo un discorso antropologico, da un punto di vista cristiano, terremo come riferimento Gesù, l’uomo perfetto a cui ogni credente è chiamato a conformarsi. Così, ad esempio, vorremmo che pensaste, mentre scriviamo queste righe, alle terzine dantesche, ai poemi di Omero, alle cattedrali gotiche, alle sonate di Bach, piuttosto che agli affreschi imponenti di un Michelangelo e alla penna profetica di un Dostoevskij. Il resto non conta, non importa se tutto ciò parrà impopolare, ci siamo ahimè abituati, ma quando di mezzo c’è la Verità non si possono usare mezze misure.

Perché l’uomo crea? Perché egli avverte profondamente la sua condizione di esilio su questa terra e da questa sofferenza genera bellezza e armonia. Dal caos provocato dalla ‘Caduta’ egli ricostruisce l’ordine primigenio. Il Grande Libro Muto, la Creazione, dialoga con il genio e lui attraverso la sua arte mostra agli uomini, seppur in maniera velata quel mondo che li attende dopo il mortale transito. L’arte nel suo genuino senso tradizionale è ponte fra questo mondo e quelli superiori. Il simbolo era il suo strumento, perché la realtà, tutta la realtà rimanda sempre a qualcos’altro, a un che di eterno. Poi, nel tempo, tutto ciò si è via via andato a spegnere, fino a giungere nell’era moderna a degradare il piano dell’arte, da quello spirituale a quello semplicemente psicologico. Con ciò stesso, in realtà, decretando la sua fine. Il cinema, arte prettamente moderna ha subìto perciò fin dalla nascita questa degradazione.

So che molti non considerano il cinema come una vera forma d’arte. In realtà il problema non sta nel mezzo cinematografico in sé, quanto piuttosto nel non saperlo utilizzare correttamente, nel lasciare inesplorate le sue più alte potenzialità. Il cinema è a nostro parere l’arte precipua di questi tempi, direi addirittura che esso è perfino provvidenziale, ma ahimè sono stati davvero pochi gli esempi in cui esso ha saputo ergersi ad arte nel vero senso tradizionale. Accade normalmente di ascoltare le persone ragionare su di un film esclusivamente analizzandone la storia, oppure i contenuti che esso vorrebbe esprimere. A volte si analizza la recitazione o l’uso delle  musiche. Tutte cose in sé buone, ma che devono confluire in un’esperienza sintetica dell’opera. Questo ahimè non accade quasi mai. Specialmente in ambito cristiano si insiste sui contenuti, sulla bontà o meno del messaggio trasmesso, sui valori spirituali o sulla trama di carattere religioso. Tutto ciò, lo ribadiamo ancora, non rientra nella nostra riflessione, poiché nulla ha a che vedere con l’arte. Risulta comodo pensare all’arte come a un rifugio, una coperta con cui riscaldarsi in una notte di gelo. Ma non è affatto così. Quanto siamo oramai lontani dal comprendere l’arte! Come il profeta, così l’artista di genio non è apprezzato ‘in Patria’. Là dove egli getta luce, tutti fuggono. È davvero facile amare ciò che è lontano; la distanza è la più facile di tutte le difese. Invece l’arte ha il compito di scuoterci, di mostrarci l’orrore nel quale ci agitiamo quotidianamente. Il vero artista è scomodo. Le Sacre Scritture, ad esempio, ci interrogano nello stesso modo, vanno lette in profondità, anch’esse sono foreste di simboli che ci elevano ai Grandi Misteri. Ogni qual volta un versetto si impone alla nostra mente e ci inchioda, ci scatena resistenza, ecco, proprio lì dovremmo sostare, perché in quella frase, o persino in quell’unica parola, la Verità è venuta a darci appuntamento; ha qualcosa di molto personale da dirci. Invece noi sorvoliamo e cerchiamo solo un facile palliativo, traendo diletto solamente de quello che ci fa sentire meglio, coccolati dal Signore; così, allo stesso modo, noi moderni trattiamo l’arte.

Il cinema, nato nel seno della modernità, ne ha assunto immediatamente i tratti e il pensiero. Si è costruito un sicuro recinto dentro al quale tutti sanno bene cosa dire e cosa non dire. A pochi è stato concesso allargare i confini del recinto. Il cinema è divenuto la più grande espressione dello Spirito di questo Tempo, ne è la cassa di risonanza. L’industria cinematografica, si presenta quasi come un monolito a partire dai produttori e dagli artisti, giù fino all’ultima maestranza. Come nelle grandi distopie, chi non si allinea viene subito individuato e rischia l’espulsione o la rieducazione. La macchina ha un unico scopo: far avanzare lo Spirito della Modernità e portarlo al suo trionfo. E se l’arte è prima decaduta dal piano spirituale a quello psicologico, oggi ormai si assiste perfino allo stravolgimento della ragione, alla negazione della realtà in favore di un’ideologia. Il primo passo però è sempre quello fondamentale. Il linguaggio moderno è tutto centrato sul livello psichico ed emotivo. Su questo terreno si sono via via veicolate tutte le ideologie di decennio in decennio, in una china sempre più ripida. Il terreno è infetto e mostra la degenerazione dei corpi, la dissoluzione della famiglia e quella terminale dell’individuo sessualmente liquido. Molti cominciano ad accorgersi e ad opporsi a tale follia umana, ma ancora non si avvedono dove ha avuto inizio questo cammino. Il vero medico è infatti colui che dai sintomi risale alla causa della malattia e cura quest’ultima. Lo abbiamo espresso fin dall’inizio del nostro discorso, la causa è appunto l’aver tradito l’essenza dell’arte come espressione spirituale, come mezzo per mettere ordine al caos terreno. Se l’arte, che è l’espressione più elevata fra le attività dell’uomo, che lo avvicina allo spirito di Dio Creatore, si è ammalata così profondamente, non possiamo stupirci se oggi vediamo i sintomi manifestarsi ad ogni livello della società, fino a quelli più materiali. Dal capo, la malattia si propaga fino alle estremità. Verrebbe da chiedersi dove posavamo il nostro sguardo quando si manifestavano i primi segni di tutto questo!

I pochi, grandi artisti dell’ultimo secolo sono infatti tutti accomunati dalla medesima consapevolezza, di essere testimoni di un’epoca tragica, come mai ve ne sono state nella storia dell’umanità. Sono personaggi scomodi che hanno vissuto il loro tempo come dei profeti che si aggiravano fra una moltitudine di ciechi, dei folli tra una generazione di ‘sani’.

Nel cinema, arte che unisce vari linguaggi visivi e sonori, questa consapevolezza si  deve tradurre ancora più che nelle altre espressioni, in una perfetta unione tra forma e contenuto, giacché infatti lo spirito di questo tempo ha distrutto proprio questa unione. Uno dei pochissimi geni apparsi nella storia del cinema, Andrej Tarkovskij, così si esprimeva: “la vera immagine artistica è sempre costituita dall’unità organica dell’idea e della forma. Invece la forma senza l’idea, oppure l’idea senza la forma, la distruggono e conducono fuori dai confini dell’arte.” Se ci soffermassimo con la dovuta attenzione su questa frase non potremmo  non constatare che noi moderni siamo assolutamente diseducati al bello e molto sovente lo scambiamo con ciò che è solo gradevole, ma non rientra in alcun  modo nel campo dell’arte. L’immagine cinematografica deve perciò superare i confini dell’inquadratura, essa deve farsi ‘infinita’, trasfigurando la realtà quotidiana. Più l’immagine cinematografica supera le capacità della ragione, più essa è portatrice di un Mistero, più essa tocca l’anima ed esprime al meglio l’essenza stessa dell’arte. Questo è l’atto più rivoluzionario che un artista oggi possa fare, e perciò  l’unico necessario. Ma questo appare davvero raramente nel mondo del cinema,  in Italia in special modo, perché il progressismo culturale che ne è il padrone unico e incontrastato di una cosa sola ha terrore: che qualcuno rompa l’illusione, mostrando che un’altra vita, un altro mondo si cela oltre i nostri occhi. Il cinema ha poi un peso da cui non si può liberare: è un’arte che necessita di cospicue somme di denaro, come nessun altra. Quanti credete che siano disposti ad investire su film che vanno in netta controtendenza con lo spirito della modernità? Ribadiamo ancora una volta, non si parla semplicemente di contenuti di valore morale, o di buoni sentimenti, queste cose le lasciamo volentieri ai benpensanti, ma di mostrare la realtà trasfigurata e donare allo spettatore un’esperienza interiore che possa modificare la sua anima e volgerla al Bene e al Bello. Tale è però la distanza fra la vita moderna e il Bello che appunto qui si nasconde la grande incognita: può davvero l’uomo di oggi portare ancora il peso di tanta Verità e Bellezza o lo si può solo consolare con qualche rassicurante novella? Quando seduti contempliamo un’opera di genio apparsa nel corso dell’ultimo secolo, siamo subito rapiti ‘in più spirabil aere’, sollevati da questo caos che si chiama modernità.  La nostra anima si sente nuovamente a casa dopo un lungo e forzato esilio. Quale terribile peso, però, risulta allora tornare a questa vita, a questo inferno, dove tutto è disordine e disarmonia! Troppa è la distanza, fra ciò che si è visto baluginare in quei frammenti e questa vita davvero capovolta. Non c’è azione, gesto, linguaggio, faccenda quotidiana o lavoro che non riporti l’immagine di un uomo che ha offeso il suo vero volto, distorto la sua natura profonda. Non si può restare uguali a prima, non si può essere indifferenti; si è stati toccati, segnati nella carne e nell’anima. Una forza ci spinge allora ad agire , a portare ordine e bellezza dove invece regna solo il caos, eppure ci si scontra con un muro invisibile quanto invalicabile: l’indifferenza e la paura degli uomini. Il cinema è un’arte collaborativa; ha bisogno dell’apporto di molti uomini, anche di un pubblico che si lasci stupire e portare un po’ più lontano.

Concluderemo questa riflessione nella prossima parte dell’intervista analizzando la situazione specifica del cinema qui in Italia, perché essa, come vedremo, ha molto da dire anche sullo stato di salute della nostra Fede. Indicheremo infine quelli che a nostro avviso sono dei segni che vanno colti e delle strade da percorrere per invertire la rotta.

 



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6 replies

  1. Magnifico. Magnifico.
    Tanto food for thought!
    Grazie a tutti e due.

    Rispetto all’affermazione totalmente giusta di Andrej Tarkovski he “la vera immagine artistica è sempre costituita dall’unità organica dell’idea e della forma*, vorrei giusto aggiungere che, oltre quest’unità nell’oggetto artistico stesso, essa deve essere capace di stabilire una continuità con lo sguardo eviterno di chi la contempla: come una retta passa per tre punti così idea (dell’artista) , forma (dell’oggetto), sguardo eviterno (del fruitore) dovrebbero essere allineati per rendere l’opera artisticamente poderosa.

    In Pace

  2. Nel frattempo scopro un regista che io non ho mai considerato molto (sono un esterofilo di bassa categoria, ahimé) essere estraneo a quanto Massimo qui va delineando: Pupi Avati.

    Una bella intervista della NBQ di questi giorni lo dipinge come un uomo tutto di un pezzo. Davvero interessante, son quasi curioso di vedere cosa ne pensa Massimo 🙂

    http://www.lanuovabq.it/it/articoli-io-pupi-avati-vi-racconto-la-famiglia-la-stiamouccidendo-con-lindifferenza-e-la-solitudine-16802.htm

    • Cosa direbbero i suoi colleghi se la sentissero pontificare sui mali moderni che loro stessi mettono in scena quasi portandoli a modello?

      Non frequento l’ambiente del cinema, lo vivo tenendomene alla larga. Diciamo che sono più compatito che apprezzato. Però non è vero che sia così malvagio. E’ un luogo comune che sia un coacervo di nequizie. Se vai nel mondo dei bancari è peggio. Tra i politici è peggio ancora, ovunque l’egoismo ti spinga a cogliere il massimo arraffando con voracità. Ma vedo che l’importante oggi è rassicurare. I nostri politici di mestiere fanno i rassicuratori.

      Tadaaaa. BINGO.

    • Bè, però la più bella definizione della recitazione l’ho trovata da lei.

      Ah sì, quale?

      Recitare è ascoltare. Lo disse a Katia Ricciarelli indecisa se accettare la parte ne La seconda notte di nozze.

      L’ascolto è la dinamica che muove una società. La nostra società non ascolta.

      Shéma, Israel! INtervista ricchissima, mi servirà per le risposte che devo a Massimo nel proseguio di questa nostra chiacchierata!

      • L’intervista offre senz’altro spunti di riflessione, però l’arte cinematografica per come ho cercato di delinearla sommariamente, è un’altra cosa. Riguardo poi al regista in questione, potrei dirti in privata sede cosa mi scrisse in uno scambio che avemmo tempo fa. Le sue parole non testimoniavano affatto nulla di incoraggiante, ma del resto la sua cinematografia si situa a quel livello psichico a cui facevo riferimento. L’arte ci porta su un altro piano, ci disegna un’altra vita, quella vera, oppure non è arte.

        • Non ho mai visto nulla di Avati come scrivevo. Il mio entusiasmo sulle sue parole temo sarebbe stato smorzato non poco a questo punto… accidenti. A breve prendo in mano il proseguio dell’intervista. Grazie massimo del passaggio e del commento!

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