Da Interstellar a Walking dead: le istanze morali nella metafisica del cinema contemporaneo

instellar

Il titolo di questo articolo è volutamente vastissimo: passa dal sembrare degno di un blockbuster Hollywoodiano fino a sfiorare l’intestazione di un pretenzioso saggio cinefilo. In realtà tale titolo vorrebbe descrivere il massimo grado di quel poco che andrò ora a ricostruire in questo articolo e che può essere raggiungibile solo grazie ad un confronto serrato con i lettori.

Tutto parte da questa constatazione: da quando mi sono riavvicinato alla fede cattolica e alla metafisica tomista, qualsiasi esperienza che vivo viene compresa (cioè presa sotto) con la mediazione di questa Weltanschauung binaria; due fari che illuminano ciò che vivo, scolpendone l’interpretazione in un gioco sottile di ombre e luci.
Approfondisco l’analogia.
All’uomo, forse non è banale ribadirlo, non è dato comprendere la realtà attraverso la luce tutta intera. Egli necessita di luci di taglio, che infrangano il buio e delineino i contorni dell’esperienza. Il buio è incomprensibile così come un immagine che è tutta luce.
Nell’uomo il massimo dell’informazione coincide con il minimo dell’informazione.
Il nero è caos assoluto irrazionale e nessuna informazione.
Il bianco è l’irraggiungibile dettaglio razionale e nessuna informazione.
Come la fotografia è letteralmente “il disegnare con la luce”, così la vita dell’uomo dovrebbe lasciarsi disegnare dalla luce.
Luce forte e bianca. Questo perché più le luci sono forti e bianche, senza filtri, più permettono una comprensione di ciò viene dettagliato in modo univoco.
L’uomo non può permettersi di conoscere in modo diverso se non attraverso questo incontro fra luci personali e ombra, cioè di una visione propria. E’ la concezione del mondo, è la metafisica implicita (più o meno consapevole) ad ognuno di noi. L’uomo non può fare a meno di fare metafisica poiché ha bisogno di illuminare il buio del mistero della realtà che lo circonda.

la metafisica è necessariamente legata alla soluzione del problema della vita. Ora il problema della vita ognuno deve risolverlo : lo risòlve già per il fatto di vivere in un determinato modo piuttosto che in un altro, di dare un orientamento alla propria vita. Anche chi vive dimentico di ogni interesse speculativo, abbandonato alla vita sensibile, ha implicitamente una metafisica, perchè erige la materia, la vita sensibile ad Assoluto.

Vanni Rovighi, Sofia. Elementi di Filosofia 1, La scuola, 1965, pagg. 16 – 17

Questa divagazione pare essere fuori contesto, ma fino ad un certo punto. La fotografia è infatti elemento essenziale dell’arte cinematografica e, per astrazione, tende a definire in modo implicito la metafisica che un dato regista vuole comunicare.
Ogni film, quale prodotto artistico umano, ha ovviamente una metafisica implicita, spessissimo inconscia e per questo poco coerente.

L’idea di questo articolo è approntare delle brevi analisi degli ultimi film da me visionati usando un taglio filosofico-teologico di stampo tomista e infine cattolico. Questo non solo per dare informazione ai lettori su quanto di buono (o meno buono) è reperibile in sala o in bluray, ma piuttosto per far cogliere quella domanda implicita che muove gli stessi film.
In tutti, chi più chi meno, mi pare muova l’esigenza umana di spiegazione: perché il male? Perché l’essere anziché il nulla? Quale è il senso della vita? Che senso ha una non-vita animata?
Ovviamente domande del genere vengono rispolverate soprattutto da un genere: la sci-fi. Non è un caso infatti che le pellicole che seguono (3 film e qualche serial tv) partano da una Apocalisse possibile e cerchino risposte a partire da questa.
La rinascita della sci-fi cinematografica mi pare indicativa in questo senso.

Non so se è una mia impressione, errata o viziata dalla Weltanschauung o da scelte personali, ma mi sembra che molti registi di stampo americano ora vorrebbero quanto meno non nascondere più queste “scomode” domande “troppo umane”, sotto la patina della deficenza, del patriottismo ideologico o dello scientismo assoluto. E’ come se stesse finendo l’epoca delle risposte certe, dello scienziato che può risolvere l’Apocalisse in avvicinamento con l’aiuto di un eroe nazionale, del “comunque vada andrà alla grande” e della denuncia politically correct. E questo non solo nei film d’essai (o psuedo tali, i grandi film sono discorsi a parte!), ma anche e soprattutto nei blockbuster fatti per quella massa che nell’andare al cinema vede svago e non ambito di possibile riflessione sul reale e sulla propria vita. Ovviamente questa conclusione non vuole essere il succo del post, quanto piuttosto una possibile domanda che lo percorre tutto. Nei commenti ovviamente mi piacerebbe si smentisse tale conclusione, ma soprattutto si facciano eventuali analisi a film qui non richiamati.
Non nego che potranno avvenire nuove analisi in futuro, esattamente come già è capitato con il caso True Detective.
Sono possibili spoiler, avviso.
I voti procedono come da legenda Mereghetti: da * a ****

Iniziamo.

INTERSTELLAR di Christopher Nolan (2014) – ***

instellarLa terra non è più abitabile, serve trovare un nuovo pianeta e forse “qualcuno” ha tracciato una rotta che parte da Saturno e arriva nel cuore del mistero della gravità…

La sceneggiatura di questo film visivamente straordinario è dei fratelli Nolan e risulta un melting-pot di temi che quasi spaventa. L’impresa ardua è far dire ad un film più di quello che un film può contenere e infatti non riesce in questo intento.
Il problema, più che gli errori scientifici (da sempre presenti nei film fantascientifici), mi sembra la volontà di dire troppo: dall’inquinamento misterioso che rende la Terra oramai invivibile, passando per il male insito nell’uomo (e non nella natura dell’universo che pare osservare neutrale), alla delusione di una scienza che non sa procedere e inganna le persone che a loro si affidano. Dal fascino delle forze sconosciute che viviamo tutti i giorni sulla nostra pelle (gravità, tempo) al rapporto padre-figlia.
Questo per restare ai primi ricordi che mi sovvengono. Unite tutto con alcuni momenti di tensione da classico videogame alla Spielberg e tema del sacrificio tipicamente americano come da ultimo Eastwood e potete comprendere che sorta di minestrone filosofico ci si trovi davanti.
Intendiamoci, come ho già scritto, il film è un capolavoro visionario, difficile trovare infatti il fotogramma “migliore” da mettere a sinistra di questa analisi, fra i momenti coreograficamente strepitosi che la pellicola dispensa a piene mani. Ma il troppo dire, anche il troppo disvelare i segreti insiti nel mistero della Natura (ad esempio la scena nel wormhole), rovina spesso quella visionarietà. Come conciliare infatti quel materialismo che permette di rendere corporeo un fantasma (e chi l’ha visto sa di cosa parlo) che cozza con l’idea di una umanità salvata da chi segue “l’amore” (ora denominata come forza universale, ora come mistero, ora come istinto di sopravvivenza animale a seconda del personaggio).
Di fondo si staglia la presunzione di una salvezza umana fisica che viene dall’uomo stesso, ma che può avvenire solo sfruttando delle forze e delle dimensioni spirituali che esistono al di là dell’uomo stesso. L’idea che l’uomo del futuro si sia evoluto oltre la terza dimensione e può disporre del tempo infatti dimostra solo che tali dimensioni esistano come apriori e pertanto metafisicamente l’uomo a cinque dimensioni, divenuto un creatore di mondi tridimensionali, sia esso stesso comunque creatura di una realtà ad oggi semplicemente inimmagibile.
Sto dicendo che di Dio non si parla mai apertamente, ma di fondo domina la sua figura anche se ovviamente tratteggiabile con difficoltà.
Tre ore comunque di puro godimento per chi ama la fantascienza, nonostante questi puntini sulle i che dimostrano una confusa volontà di approfondimento metafisico oltre che scientifico.

THESE LAST HOURS di Zak Hilditch (2013) – **

alleluia__140422103750Dopo i dinosauri, è arrivato il momento anche per l’umanità di estinguersi e lasciare il posto ad un bel mucchietto di cenere. Ma un concetto “bellissimo” può estinguersi?

Arriva in Italia il film del giovane australiano Hilditch che si dimostra tanto interessante nella messa in scena quanto vacuo nella proposta metafisica. Di principio c’è una Apocalisse non solo imminente, ma inevitabile ed inesorabile, scandita dalle parole, sempre più disperatamente rassegnate, di un improvvisato DJ che accompagna il protagonista verso la tardiva consapevolezza che l’amore vero non è quello del divertimento forzato a droga e rock and roll.
Se Interstellar parla troppo, questo These last hours lascia in bocca l’amaro della banalità non approfondita. Fra la rincorsa verso il nulla di una violenta festa hippie e la corsa finale contro il tempo, c’è spazio sufficente per farci apprezzare la nuova piccola Heidi che guida James, “l’orso” protagonista, verso una paternità inconsapevole e spiritualmente devastante, ma la sensazione è di vuoto pneumatico sul fronte filosofico-morale. Il belloccio ritorna dall’amante incinta perché “ti amo” quando sarebbe bastato il silenzio che avrebbe detto di più. Nessun approfondimento della paternità in quanto tale e nemmeno della maternità. I flash interiori di James sono tutti sulla bellezza della signorina in questione: nessuna immagine sulla pancia, nessun richiamo nel finale alla bambina che lui ha fisicamente salvato e che lei ha spiritualmente guarito. E in fondo sarebbe bastato qualcosa di fortemente comunicativo come un abbraccio in ginocchio mentre l’Apocalisse arriva, invece di un banale tafferuglio adolescenziale a due minuti dalla morte, da concludersi con il bacio come da contratto.
Splendida invece la chiusa della sceneggiatura. Di fronte all’Apocalisse, allo svelamento del mistero della morte, alla necessità che tutto sia lasciato indietro, l’amata di James, Zoe (vita in greco!), si permette la rivelazione (appunto): “è bellissimo!”. E in quel “bellissimo” c’è la dignità di chi decide di morire senza droghe in corpo che aumentano la paura della fine, il coraggio di chi non scappa di fronte ad una responsabilità anche estrema, la fede che tutta questa bellezza percepita non può non avere scopo proprio in quanto percepita, cioè proprio perché intelleggibile.
Di nuovo un film con slanci meravigliosi, affossati da una volontà del regista di mostrare troppo come sa ben montare e non di quanto profondamente sa ragionare.

IL MONDO DI JONAS di Phillip Noyce (2014) – ** 1/2

giverBandire l’amore e insieme l’odio sarebbe possibile solo ad esseri che non sono naturalmente frutto di un amore più grande di loro stessi.

L’adattamento cinematografico del primo libro della quadrilogia distopica di Lowry affascina proprio per le domande metafisiche che pone e insieme delude per le soluzioni alle stesse. E’ infatti spaventoso ritrovarsi davanti un mondo perfetto poiché completamente nominalistico, nel quale l’amore è bandito non solo da un punto di vista fisico (grazie ad un siero che lo inibisce), ma anche da un punto di vista formale. “Ti voglio bene” è una frase scorretta oltre che insensata all’interno di “unità familiari” sorrette dal rispetto formale costituito dall’autorità piramidale al cui vertice ci sono i “saggi”. I bambini nascono solamente in vitro e destinati alle unità solo se perfetti. Fra due perfetti vince chi pesa di più e chi ha più possibilità di servire la comunità con le sue doti. L’altro viene “congedato”, cioè eutanizzato e quindi bruciato, ma nessuno pensa che questo sia “uccidere”, non in una società dove pare sia bandito il “male” e che somiglia tanto tremendamente al mondo perfetto di Dawkins.
La verità, che il film mostra molto bene durante tutta la prima parte, è che il male coincide in questo caso con la società stessa, poiché  questa riformulazione non risponde alla natura dell’uomo in sé e per sé. Ed è la conclusione logica di un mondo dominato da uomini che hanno volutamente dimenticato chi sono (esattamente come infatti accade nella storia) e che hanno perpetrato per decenni l’assurdità di un relativismo estremo che necessita, da un punto di vista sociale, dell’utilizzo della forza.
Con un mondo simile, in una fotografia grigio medio volutamente di bassissimo livello (cioè con luci mai nette ma sempre delicate, che sfiorano i contorni e non li rendono spigolosi e quindi vigorosi!), capite che basta una spruzzata di colore
per far saltare il fragile equilibrio innaturale. E se da un lato pare assurdo che tale mondo automini il suo equilibrio con l’istituzione del “Accoglitore” delle memorie del passato umano ai tempi del colera (e della vita vera), dall’altro è comprensibile che l’uomo non riesca a pensarsi tale se non grazie a tali memorie.
La coltivazione della memoria dunque come preservazione dell’uomo di oggi e comprensione di ciò che oggi compie. Ma non solo: l’idea è che tali memorie in fondo non sono che il vissuto passionale di un uomo. Ed è forse l’unica pecca filosofico-morale imputabile al film: pretendere che le semplici memorie di passioni di gioia e dolore altrui, costituiscano il deposito emozionale di quanto un uomo acquista sulla sua pelle. Se da un lato infatti il vivere in prima persona tali ricordi (con l’aiuto del Giver del titolo inglese) aiuta “l’Accoglitore” per la costituzione di tale deposito, dall’altro manca letteralmente il mettersi in gioco, rischiare di propria iniziativa. Ed è questo che responsabilizza l’uomo stesso, gli fa comprendere meglio la sua natura e quindi il grado più alto di quei sentimenti che inizialmente si presentano come semplicemente passionali.
E questo mettersi in gioco, l’amare in sé, è certamente debolezza, ma insieme estrema fortezza. Lo dimostra Jonas stesso sfidando il suo tempo, fidandosi di amici incredibilmente tali nonostante le cure e anche le intemperie metereologiche, alla ricerca di un nuovo inizio, di una casa accogliente, letteralmente di un nuovo Natale.
Se da un lato sembra esserci di sottofondo quella cupissima profezia (straordinaria!) di Chesterton, dall’altro echeggia nella pellicola il monito di Lewis:

“Amare significa decisamente essere vulnerabili. Ama ogni cosa, e il tuo cuore certamente verrà tormentato e  robabilmente spezzato. Se vuoi essere certo di mantenerlo intatto, non devi dare il tuo cuore a nessuno, nemmeno ad un animale. Avvolgilo con cura con hobby e piccoli lussi; evita tutte le complicazioni; mettilo al sicuro in un cofanetto o nella bara del tuo egoismo. Ma nel cofanetto – al sicuro, al buio, immobile, senza luce – cambierà. Non verrà spezzato; diventerà infrangibile, impenetrabile, inguaribile. L’alternativa alla tragedia, o almeno al rischio della tragedia, è la dannazione. L’unico posto al di fuori del cielo dove puoi essere del tutto al sicuro da tutti i pericoli e i turbamenti dell’amore è l’inferno.”

Lewis, Clive Staples. The four loves, Bles, London 1960 (tr. it. M. E. Ruggerini, I quattro amori: affetto, amicizia, eros, carità, Milano, Jaca Book, 2001) p. 111

Fin qui la metafisica e la morale del film, come si evince davvero ricchissima. Peccato il film in sé non sia chissa che: visivamente non colpisce, la sceneggiatura colma di avvenimenti banalotti ed incoerenze (ad esempio il divertimento sullo scivolo fra Jonas e la bella Fiona, fa il paio con una inspiegabile gelosia – a quanto pare una forma d’amore non del tutto bandita… – da parte del loro amico Asher, totalmente dedito alla causa della comunità), finale con il ripristino della memoria degna di un fantasy di serie Z e un maldestro tentativo di sollevare la suspance con un finale a doppio binario fra l’imminente uccisione di una coprotagonista e la riuscita della missione di Jonas stesso.
Anche qui si arriva alla fine e si sospira un enorme: “che peccato!”

SERIE TV

fringeSul fronte Serial TV moltissime sono quelle che toccano temi metafisici, alcune anche in modo molto convincente. Proprio per questo a mio avviso necessiterebbero di un post a parte. Dedicherò a queste una analisi molto meno approfondita, magari se ne può parlare nei commenti. Ecco quelle a mio avviso più interessanti:

SIX FEET UNDER di Alan Ball (2001 – 2005) – ****: una serie cult, letteralmente. Ogni puntata, una morte. Dietro una morte, una storia. Di sfondo la domanda “perché siamo qui”, orchestrata con indicazione di “onestà intellettuale” da parte del direttore d’orchestra Alan Ball. Assolutamente da vivere!

AMERICAN HORRO STORY di Ryan Murphy, Brad Falchuk (stagione 2) – ***: la seconda stagione autoconclusiva di questo serial Horror è tutta dedicata al male in ambito cattolico. Suore, pazzi, scene fortissime e di sottofondo la consapevolezza che se guardi in faccia al male, il male guarderà dentro di te. Cioè: se di fronte ad una realtà si osserva continuamente le sole ombre, questo porta alla distorta idea che sia il buio a creare tale realtà. Erroracci teologici da paura (ahimé), attori da paura (per fortuna), quasi capolavoro ma non per tutti, occhio! Le altre stagioni lasciatele perdere.

FRINGE di J.J. Abrams, Roberto Orci, Alex Kurtzman (2008 – 2013) – *** 1/2: dimensioni parallele si accavallano in una riflessione sul dolore della perdita, sulla genitorialità e sulla consapevolezza dello scienziato teista (!) che può credere nel suo lavoro perché riconosce l’eistenza di un(a) fine della sua ricerca! Consigliatissimo!

VIKINGS di Michael Hirst (2013 – 2014) – **: Serie non ancora conclusasi e per questo poco ancora si può dire. La introduco perché uno dei motori della sceneggiatura è lo scontro fra il paganesimo nordico di Raghnar e il cattolicesimo dei tempi. Il problema è sempre quello: il paganesimo viene tratteggiato in tutta la sua affascinante crudezza e ovvia profondità (come d’altra parte lo sono tutte le mitologie trascendenti). Il cattolicesimo è più politica, affaristica, economia unito a fideismo irrazionale, croci d’oro e miniature meravigliose che descrivono miti meno affascinati di Thor e Odino. Il co-protagonista, frate cristiano di ordine sconosciuto, è il perfetto esempio di apologeta coglione, per fortuna che pare che andando avanti abbandoneranno questo scontro puramente ideologico. Forse…
Bah, solo per chi ha voglia di perdere tempo o adora osservare l’umido sulla prua di una nave da guerra con la spada insanguinata al fianco…

UNDER THE DOME di Brian Vaghan/Stephen King (2013 – in produzione ahimè!) – *: una cupola infrangibile isola una intera cittadina del Maine. Potrebbe essere materia per un capolavoro di metafisica e infatti il libro, crudo come quelli belli di King, fa il suo lavoro egregiamente. L’adattamento per la tv è da mentecatti. Indegno, prolisso, insulso, metafisicamente nullo e pura sci-fi cretina: sciocca nei misteri, ignorante nelle soluzioni, teologicamente una bestemmia.

FALLING SKIES di Robert Rodat (2011 – in produzione olè!) – ***: sci-fi intelligente di umani vs alieni dove vengono trattate decentemente alcune domande fra cui la natura del male, cosa fonda una morale per l’uomo e addirittura c’è un filone semi-mistico nella prima stagione ahimé purtroppo malamente abbandonato successivamente (il guaio delle serie tv è la democratica partecipazione del pubblico pagante nel processo artistico…). Resta il fatto che ascoltare il Padre Nostro recitato a fine di una puntata, di fronte alle macerie del vecchio mondo, è una bomba che non avevo ancora sperimentato!

WALKING DEAD di Robert Kirkman, Frank Darabont (2010 – in produzione) – ** 1/2: giunto alla sua quinta stagione finalmente il progetto “kill the zombie ‘till the end!” sembra puntare a domande metafisiche più alte rispetto a quelle iniziali. Dal “ricominciamo illudendoci” nella fattoria fino al tentativo di ricostruire una vita all’interno di un carcere, il massimo tentato da Darabont è stato chiedersi se sia omicidio uccidere chi cammina, ma non pare vivo, animato ma senza anima (cioè senza autoconsapevolezza di sè). Ora salta fuori un prete (protestante? Evangelico? Non è dato sapere) semicodardo che fa scelte di basso rango e per ora sembra inserito giusto per rimestare delle carte stantie. Nessun momento di vero approfondimento sulla sua vocazione (che non ha mai né difeso né abiurato finora), un peccato gravissimo sulle spalle (per altro banalizzato nella messa in scena) e i vari protagonisti che pare abbiano davanti un semplice intellettuale, inetto a sparare. Se vi divertivate a giocare ai videogames splatter, è il vostro serial. Chi vuole approfondire la metafisica dello Zombie, vada ancora su Romero.

Buona visione a tutti!



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9 replies

  1. Ho aggiunto anche i voti alla Mereghetti, tanto per non farci mancare nulla.
    Giusto stasera ho visto, finalmente, “Under the skin” a cui do un bel *** 1/2 secco. E’ l’esempio perfetto di un film autoriale in cui domina il disturbo del silenzio interrotto da cluster di archi ancora più disturbanti.
    Al punto di vista umano la narrazione concede poco. Quel che avviene durante il film nella protagonista (un’ottima Johansonn) è chiaro fin da subito e non ci vuole molto a capire dove andrà a parare il finale. Registicamente davvero notevole, soprattutto per la resa di certe soluzioni visive.
    Avviso subito che il film contiene scene esplicite (anche se non è un Gaspar Noé) e hanno senso proprio perché il contrasto è fra l’assenza di sentimento della protagonista e quel che avviene in noi.

    Pensavo poi oggi ad altri film straordinari che potrebbero entrare di diritto in un post simile. Il primo che mi è sovvenuto è il grandiso Holy Motor (**** secco!), ma è talmente ricco che servirebbe un saggio intero. Il secondo è il vecchio, meraviglioso, The Addiction di Abel Ferrara (**** secchissimo!), ma di quello magari se ne potrà parlare con Claudio se vorrà visto che gli piace il regista.
    Ovviamente dopo la prima via… 😉

  2. Mi sa che dopo aver letto questa recensione non vado più a vederlo “These last hours”.
    Vabbuo’ che credo difficile (anche se ci spero, ogni tanto i capolavori onirici fanno più che bene) che si riesca a superare “The Road” di J. Hillcoat tratto dal libro di C. McCarthy (di cui consiglio assolutamente la lettura, un libro è sempre assolutamente superiore ad un film) e di cui mi meraviglia il non inserimento in questo articolo. Le domande e le chiavi di lettura che pone e propone sono molteplici ed essenziali, come essenziale è la risposta finale.
    Poi, gusto personale, ma certamente molto opinabile e lo capisco, cito Blade Runner che tra le molteplici chiavi di lettura ne offre più di una metafisica interessante.
    Infine, pur rischiando di farmi dare del folle, vorrei citare il primo e secondo “Dead Snow”. Pongono una domanda più che metafisica, molto, molto inerente la morale. Tutti credono sia una commedia splatter.
    Io credo sia “un esperimento” del regista, tenuto ben celato e nascosto. Con un po’ di arguzia si può però svelarne l’arcano.

    • Grazie del commento Ubi!
      The Road (movie) è effettivamente un efficacissimo affresco, soprattutto per chi è padre. Il libro, stringatissimo e potente come pochi, è letteralmente una botta nello stomaco.
      Ci sarebbe stato bene in questo articolo, si. D’altra parte sono il primo che ha messo avanti le mani dichiarando che il titolo è un’esagerazione fatta e finita. Se nei commenti si citano altri titoli, ben vengano!

      Blade Runner apre il capitolo sci-fi dedicato alla mente e alle scienze cognitive, raramente toccata dai film che ho citato. Un altro film totalmente dedicato a tale problema metafisico è l’ultimo “Robocop” (It’s a machine that think. It‘s Alex Murphy!) del quale i filosofiprecari hanno fatto un bel ritratto.

      Quanto a Dead Snow ho visto, ridendo spesso di bbrutto, solo il secondo. Dietro la patina ironica effettivamente le domande morali sono molte. D’altra parte lo zombie metafisicamente non è che il contraltare horror del robot in sci-fi. E’ o non è un uomo? Cosa è uomo? Cosa “informa” l’uomo? Uno zombie che pensa ad una guerra (penso al penultimo di Romero) è simile ad un uomo? Ogni variazione sul tema è illuminare un nuovo aspetto dell’unica domanda sulla natura umana. Ci starebbe bene un bel post di approfondimento su questo tema (pure questo degno di una tesi di dottorato…)

      • Approfitto per salutare e ringraziare Minstrel, chiarire che non avevo intenti polemici con il “mi meraviglio e, visto che mi ci trovo, apportare un ulteriore contributo che spero e credo a te gradito.
        Per quel che riguarda “Dead snow” hai risposto, forse inconsciamente, alla domanda, allo “esperimento” col tuo “ho visto, ridendo spesso di bbrutto”. Io li ho visti entrambi e pure “ho riso di brutto”, esperienza condivisa un poco da tutti quelli che lo avevano visto. Ed è qui che mi si è accesa la lampadina, la “fulminazione” (vabbè che di mio sono abbastanza “fulminato”) e cioè: è un zombie movie, ma non ne segue i canoni filosofici tradizionali (sopravvivere, asserragliarsi a “quelli di fuori”; è giusto? quanto potremo resistere? e se quelli “di fuori” siamo quelli noi qui dentro? che è poi un poco la metafora delle civiltà opulente asserragliate nei confronti di quelle povere; dei ricchi nel fortino contenente il benessere, che ritroviamo in tutti i film del filone zombie. Perchè?
        Non ha i canoni classici della commedia, anzi…
        Sembra disimpegnato ma non lo è, perchè.
        Le domande per me sono iniziate ad essere troppe e dovevo rispondermi. Dopo averle provate tutte dal caso allle casuali ho pensato che troppe poche volte il caso genera successi.
        Fino a che ho pensato che non esistesse risposta, che perdevo tempo ad interrogarmi e non ne valeva la pena, avevo visto solo due film e “ho riso di brutto”. Col tempo mi si è riaccesa la lampadina è ho pensato, “cavolo la non risposta è la risposta!”. “Ho riso di brutto” è questa la chiave.
        Li ho riguardati, e credo di aver ragione. Quei due film sono solo un “pretesto”, ben fatti nel ritmo e con una ottima colonna sonora ipnotica che accompagna scene splatter di violenza selvaggia inaudita e gratuita che non lasciano nulla all’immaginazione, tesi a dimostrare quanto siamo capaci di accettare e ridere allegramente della peggior barbarie: basta offrircene il pretesto.
        Provare per credere? Provate a guardarlo senza “sonoro” e vedete se riuscite ad arrivare fino in fondo al film…

        • Mmmmmh, interesting!
          Ti dirò, sono restio a pensare sezionata un’opera d’arte (o pseudo tale ovvio); questo perché tale opera è comunicativa come la voleva il suo autore solo se completa. Togliere il sonoro al film per rendersi conto quanto delle scene siano davvero raccappriccianti è un ottimo esperimento in sede scolastica per comprendere la potenza del sonoro, ma rileggere il messaggio di un film attraverso questo esperimento mi sembrerebbe una sorta di “tradimento” (ovviamente nell’ambito del soggettivo propria della critica cinematografica). Detto questo trovo la tua intuzione decisamente degna se vuole trascendere il messaggio del regista e far riflettere noi come spettatori.
          Ti ringrazio!

          A proposito di ironie, metafisiche, film “chenontiaspetteresti” e zombie: fondamentale è il mitico Shaun of the Dead! 😀

  3. Visto che ci troviamo.
    Se avete voglia di “pensare” e riflettere consiglio la visione di “God bless America”. Di metafisica niente, ma sulla “morale” di pensieri poi ne fate pure troppi. E’ del 2011 e in Italia non è uscito (e te credo da una parte e meno male da un’altra); lo trovate in streaming, per i non anglofoni coi sottotitoli -pessimi purtroppo- in italiano.
    Non fidatevi delle recensioni scarne ed ambigue, non è quel che raccontano. E’ assolutamente da guardare.
    Solo per menti critiche e piantate coi piedi per terra, capaci di evitare di farsi venire strani pensieri emulatori…

  4. Eccolo qui il mondo di Jonas.
    http://www.uccronline.it/2014/12/04/watson-lo-scienziato-razzista-che-crede-troppo-allevoluzione-cieca/
    “Ha quindi invocato l’eugenetica e la selezione sessuale: «Lasciateci liberare la società dai difetti genetici». In un documentario per la tv inglese ha invitato a modificare geneticamente il dieci per cento dei bambini, che considera “stupidi”. E ha proposto una cura genetica per la stupidità perché «Non dobbiamo cadere nell’assurda trappola di essere contro tutto ciò a cui Hitler era a favore».”
    Che Dio ci perdoni.

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