L’ERMENEUTICA DELLA CONTINUITÀ DIMOSTRATA (III) : Prima sintesi

Magistero che combacia

Magistero che combacia

Chi si è dato la pena di leggermi, e lo ringrazio d’avanzi, avrà notato il mio ripetuto richiamo a cercare sempre soluzioni nel dialogo che non vadano alla ricerca di un minimo comune denominatore ma, al contrario, di un massimo comune moltiplicatore, affinché le differenze diventino forze e che i nostri concetti siano sinergistici.

Ho cercato di darne un’esempio nell’approccio delle due forme dell’unico rito romano dove ho tentato di dimostrare che la loro forza è nell’essere davvero differenti e che lo sforzo dei pastori dovrebbe essere quello di aiutare le due forme a vivificarsi, non in un’ottica di competizione tra loro come vorrebbe P. Augé ed alcuni, a lui speculari, estremisti del tradi-protestantesimo, ma in un’ottica di ecclesiale ricerca dell’eccellenza per ognuna delle due forme.

Grazie al dialogo stabilito con alcuni cari utenti come Kerygmatico, Marchesini e non ultimo Giuseppe sarei felice di proporre un sunto dell’applicazione del concetto “di ermeneutica della riforma nella continuità” al principio della libertà religiosa, in un’ottica dinamica che ricerca il famoso massimo comune moltiplicatore di cui sopra.

Nei post precedenti abbiamo presentato le riflessioni di Benedetto XVI specifiche all’ermeneutica della riforma nella continuità, l’esempio di applicazione che lui ne fa nel caso della libertà religiosa e anche l’inquadramento magisteriale generale del S.S. Concilio Vaticano II sulla voluta continuità dei Papi allora in carica.

Analisi e argomenti accessibili direttamente in linea sul web e che potete trovare nella nostra bliblioteca che andrà allargandosi sempre più nelle prossime settimane e mesi , mostrano senza ombra di dubbio che le critiche di Gherardini e De Mattei sono state magistralmente smontate in loro tempo in particolare da Valuet , Rhonheimer e Ocariz per citarne alcuni, mentre gli stessi hanno provveduto analisi di e a livello accademico che dimostrano, seppur con angolature diverse, l’oggettiva continuità tra il Magistero su questo soggetto del XIX secolo e quelle della Chiesa dal Concilio Vaticano II fino ad oggi.

Oggi però, vorrei ripresentare, la continuità della dottrina della Chiesa sulla materia in un modo nuovo, non analitico, ma sintetico, riassumendo le discussioni su citate e incorporandone l’essenza, sperando essere abbastanza provocatorio per sollevare interesse e mandare avanti un contraddittorio costruttivo.

Il punto di partenza di questa sintesi è quello di considerare che, ambo il Syllabus ( e Quanta Cura) e la Dignitatis Humanae chinandosi sulla relazione tra gli individui e lo stato, sono nell’ambito proprio della dottrina sociale della Chiesa intesa in senso generale. Ci sono due principi fari nella dottrina sociale della Chiesa: il principio di sussidiarietà e quello di solidarietà.

Il principio di sussidiarietà è antico quanto Aristotele stesso e recepito pienamente da San Tommaso d’Aquino: quindi, in quanto linguaggio tradizionale, dovrebbe “informare” perfettamente sia gli insegnamenti del B. Pio IX che quello di Dignitatis Humanae almeno implicitamente e essere “accettabile” anche per le sensibilità le più tradizionali. Questo principio è stato utilizzato autenticamente nei vari magisteri pontificali fin la Leone XIII nella Rerum Novarum e senza discontinuità fino al giorno d’oggi. Esso doce in Quadragesimo Anno:  “Come è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le loro forze … così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori ed inferiori comunità si può fare […] perché è l’oggetto naturale di qualsiasi intervento nella società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già di distruggerle e assorbirle.”

A questo principio di sussidiarietà fa contrappeso quello di solidarietà che ci viene da Cristo stesso e ben descritto in Solicitudo Rei Socialis “Quando l’interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come atteggiamento morale e sociale, come “virtù”, è la solidarietà.  Questa …  è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti. “

E’ dottrina tradizionale che non c’è immunità per l’essere umano dal dovere di ciascuno di cercare e trovare la verità: questo dovere è proprio all’individuo. Applicando il principio di sussidiarietà, immediatamente se ne deduce che è illecito togliere agli individui quello che costoro possono e devono compiere con le loro forze: cioè lo stato non può  impedire gli individui in questa ricerca che rimane loro propria.

D’altro canto lo stato deve anche controbilanciare quest’atteggiamento di rispetto della sussidiarietà con una vigorosa politica di solidarietà e impegnarsi per il bene comune, cioè di tutti e ciascuno favorendo in particolare la ricerca della verità che ognuno individualmente deve percorrere.

La novità di Dignitatis Humanae è che accoglie, nel suo secondo paragrafo, nella definizione di natura umana le nozioni di libertà psicologica e l’immunità dalla coercizione esterna come assolutamente strumentali affinché la verità sia cercata e trovata. Questo dato antropologico è alquanto moderno e, in questo, introduce un elemento supplementare nelle considerazioni magistrali: esso rompe una simmetria nel ragionamento del Magistero e Lo obbliga a trovare una generalizzazione alle Sue affermazioni precedenti al fine di ritrovarne una nuova.

In effetti, senza questo dato antropologico, in materia di libertà religiosa, il principio di solidarietà e quello di sussidiarietà combaciavano perfettamente nella loro relazione simmetrica: lo stato perfettamente solidale propone a tutti i suoi sudditi tutti gli strumenti considerati necessari affinché loro possano trovare la verità e, al suddito, basta fare lo sforzo di associarsi all’impegno dello stato che si occupa del bene comune incluso l’aiuto all’individuo per trovare la verità.

In questo contesto, manifestare pubblicamente un’errore o dissociarsi da quel che lo stato presenta come via regale per trovare la verità diventa proprio un atto che va contro il principio di solidarietà e in quanto tale, e solo per motivi prudenziali, può essere tollerato entro certi limiti dallo stato per evitare un male maggiore. E’ quindi ovvio che, in questo contesto, la libertà religiosa intesa come deviazione dall’aiuto dello stato è un crimine contro lo stesso stato perché contro il principio di solidarietà. E’ un semplice lemma che la proposizione “È libero ciascun uomo di abbracciare e professare quella  religione che,  sulla scorta del lume della ragione, avrà reputato essere vera”  va, allora, da essere condannata come eretica nel Syllabus.

Il nuovo dato antropologico, riconosciuto come oggettivo nella Dignitatis Humanae,  introduce una nuova simmetria nel Magistero , cioè che uno stato perfettamente solidale propone a tutti i suoi sudditi tutti gli strumenti necessari affinché possano trovare la verità il che include libertà psicologica e immunità da coercizione garantita, quanto al suddito egli deve associarsi all’impegno dello stato che si occupa del bene comune nella misura nella quale la sua natura umana è perfettamente rispettata al fine di cercare e trovare la verità.

Sembra niente, ma in realtà il significato dell’insegnamento di Dignitatis Humanae generalizza quello dell’insegnamento del Beato Pio IX: infatti ritorniamo nel’insegnamento del Syllabus se siamo in uno stato perfettamente solidale e che si occupa per davvero del bene comune e che offre tutti i mezzi rispettosi dei (nuovi) dati antropologici che definiscono la natura umana, allora la tolleranza di chi desidera professare un’altra religione ridiventa una considerazione puramente prudenziale.

Invece, se siamo in una situazione storica dove lo stato non è solidale con i suoi sudditi nella loro ricerca del bene comune, allora l’affermazione di Dignitatis Humanae che “la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa” è vera e la tolleranza non ne è più l’accettazione di un male minore,  ma proprio un diritto buono in sé che si deduce direttamente dall’essenza della natura umana.

E questi due esempi corrispondono alle due spiegazioni date dal Papa Benedetto XVI per illustrare la continuità tra i due magisteri autentici a due epoche differenti sulla libertà religiosa.

Il fatto di mostrare che Dignitatis Humanae ha, in atto, generalizzato l’insegnamento del Syllabus rompendone l’iniziale simmetria concettuale tra i principi di sussidiarietà e di solidarietà che vi erano implicitamente,  per stabilirne un’altra che include la prima come caso particolare, sembra, secondo il mio umile parere, un passo in avanti per superare le apparenti controversie semantiche, storiche e culturali tra i due tempi del Magistero in questa materia.

E’ intanto certo che ai progressisti ed ai tradi-protestanti non è, da tempo, più permesso sul piano intellettuale, affermare che le riforme magistrali proposte dal S.S. Concilio Vaticano II siano l’espressione di una rottura nei contenuti del Magistero invece che un’ovvia evoluzione in continuità che rende conto delle problematiche attuali. Evoluzione che, secondo me, procede per generalizzazioni prima ancora che per differenziazioni.

Infatti, vedendosi e sapendosi confutati, gli ideologhi della rottura spostano ormai i loro discorsi dal campo del Magistero autenticamente annunciato a quel che avviene de facto nella Chiesa quotidianamente , scendendo così dall’universale al particolare, dal ragionamento al pettegolezzo, impresa molto più facile, in quanto ci sarà sempre chi, circostanziatamente, contraddirà il Magistero passato e presente ed esprimerà una rottura.

In Pace



Categories: Ermeneutica della continuità

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13 replies

  1. Ottimo.
    Con una postilla integrativa.
    Nell’ambito tradizionale ha molta fortuna l’espressione “INSTAURARE OMNIA IN CHRISTO”, che corrisponde ad un esplicito “mandato” di san Paolo (Ef 1, 10) ed è stata ripresa ultimamente da papa Benedetto XVI (Udienza generale del 05.12.2012).
    L’espressione peraltro non ha avuto molta fortuna nella pubblicistica ecclesiastica postconciliare e neppure oggigiorno, in epoca post-benedettiana.
    In effetti dal post-concilio ad oggi preponderante è stata l’idea di chi sostiene che questo “mandato” non è tale, perché l’instaurazione è “già da sempre data” e dunque inutile e ridondante è farvi appello (= la teoria del c.d. cristianesimo anonimo).
    O anche l’idea di chi ritiene che il nostro sia, non solo tempo della definitiva uscita da ogni mandato instaurativo, ma che il vero instaurare sia il “non-instaurare” o il “dis-instaurare” (= le teorie del cristianesimo come secolarizzazione).
    Entrambe queste posizioni rimuovono l’autenticità cristiana recepita integralmente dalla Chiesa cattolica, la quale sa benissimo:
    1) che l’instaurazione in Cristo è “già e non ancora” (non c’è escatologia realizzata se non nel Sacramento, cosa che esclude anche ogni fondamentalismo temporalistico);
    2) che – oltre al Mysterium salutis – è all’opera un mysterium iniquitatis: non c’è paradiso in terra ma spesso molto inferno;
    3) che – come diceva un personaggio di Italo Calvino – occorre “saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” (dal nostro punto di vista, è un “saper riconoscere” da invocare e ricevere come Dono dall’alto).
    Dunque quel “mandato” paolino va ripreso e incarnato, anche nell’oggi.
    Un mandato che ha una dimensione irrevocabilmente personale e sociale.
    Questa duplice dimensione sfugge spesso nell’immaginario sia tradizionalista che progressista, ma anche nella consapevolezza comune del cattolico medio. La libertà è pensata come libertà individuale e socialmente come somma di libertà individuali.
    Sfugge la dimensione sociale (ad extra) del “soggetto Ecclesia” (al limite viene applicata “ad intra”, in termini bassamente disciplinari ).
    Dimensione sociale che, invece, torna d’attualità ogni volta che il Potere supera i limiti del lecito e si produce in sforzi di omologazione.
    Dimensione che va riassunta nella formula “Libertas Ecclesiae”, che ha conosciuto diversi modi di effettività storica e di incarnazione (per i quali mi permetto di linkare questo file zip: http://www.meetingrimini.org/detail.asp?c=1&p=6&id=4344&key=3 ).

    • Ma non si poteva integrare il nuovo dato antropologico nell’ambito della classica dottrina della tolleranza? Bastava dire che visti i tempi moderni si sono allargati i casi in cui lo stato ha il dovere di tollerare: per aiutare al meglio le persone a raggiungere il fine nobile della conversione.
      Al più di poteva citare il diritto naturale di ogni persona a non essere impedito da nessuno nel fare il bene, come afferma sia Papa Leone XIII, sia Papa Giovanni XXIII.

      • @ Sig Marco Marchesini

        Il S.S. Concilio Vaticano II ha chiaramente deciso di andare più lontano e, secondo, me con uno slancio profetico.
        La ringrazio per il link compartito : leggendo il testo si consta effettivamente l’inserzione della riflessione nel quadro delle relazioni tra Stato e Chiesa , come anche la considerazione di casi particolari dove gli insegnamenti del Magistero sarebbero in realtà apparsi confusi e mancanti di unità e di “afflatus” . Quel che vi era proposto non era falso ma mancava di chiaramente di respiro: lascio i lettori giudicare da loro stessi.

        Per giunta venire su con considerazioni sullo “Stato cattolico” avrebbe mostrato miopia storica, in quanto, col senno del poi, ben vediamo che questa realtà non esiste più: non solo , ma questo documento non ci avrebbe permesso di andare con un discorso coerente e senza due pesi e due misure di fronte alle istanze internazionali e compiere l’immenso encomiabile lavoro che le nunziature realizzano nel mondo intero.

        E quanto dichiarato dalla Dignitatis Humanae è perfettamente universale.
        Ben ha fatto lo Spirito Santo malgrado e attraverso le miserie umane e le lotte di potere e di idee a aver fatto bocciare questo testo, di per sé non nocivo ma che ci avrebbe sfasati.

        Grazie!
        In Pace

    • @lycopodium
      grazie per il commento costruttivo e per il bellissimo file nello zip linkato: chiederò a Kerygmatico di aggiungerlo alla biblioteca.

      La postilla integrativa è ben più di ciò! Infatti essa potrebbe servire da “legame” tra il mio post precedente e questo qui. Ma va anche più in là in quanto spunta per una riflessione tra l’elezione divina del cristiano e la sua partecipazione alla Redenzione dell’umanità con il fine di “instaurare omnia in Christo” e osservarne lp sviluppo teorico a livello della dottrina sociale della Chiesa per poi giungere quale semplice lemma alle considerazione avanzate in questo post. Ri-esplicare incessantemente la valenza corredentrice della dimensione sociale del “soggetto-Chiesa”….

      Ottimo anche ricordare che “non c’è escatologia realizzata se non nel Sacramento, cosa che esclude anche ogni fondamentalismo temporalistico” : l’Apocalisse descrive la Santa Messa e nella Santa Messa, si realizza il discorso escatologico apocalittico hic et nunc et semper. Forse ci sarebbe da fare un post sulla Messa per ricordare queste cose che tutti cristiani dei primi secoli sapevano e che il S.S. Concilio Vaticano II ricorda di nuovo.

      A presto, spero!
      In Pace

      • File zip linkato nella biblioteca. Grazie ancora Lycopodium per queste preziose letture che ci consegni!

      • Ringrazio Simon per la chiara esposizione del problema:
        “…da un lato abbiamo il terzo paragrafo dell Syllabus promulgato dal Beato Pio IX che condanna la seguente affermazione…: “È libero ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della ragione, avrà reputato essere vera.”
        Da un altro lato v’è affermata nella Dichiarazione Conciliare Dignitatis Humanae, al secondo paragrafo, la proposizione seguente “Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa.” Percio’ anche di scegliere di escludere le religioni rivelate.

        Per una risposta al dilemma faccio alcune osservazioni critiche alla dotta soluzione di Simon.
        Premetto che sono d’accordo sul metodo di cercare di interpretare tutte le encicliche e tutti i pronunciamenti papali al meglio e secondo gli intenti originari, ma aggiungo che non e’ necessario che essi siano trovati irreprensibili perche’ usualmente non si tratta di pronunciamenti infallibili.
        Inoltre premetto che:
        1. Le encicliche dell’ottocento in alcuni punti hanno presentato serie difficolta’ ad essere pienamente accolte fin dall’epoca della loro emanazione. Tanto piu’ oggi.
        2. Il richiamo di Benedetto XVI ad un’ermeneutica della continuita’ nei confronti del concilio era pastorale, non scientifico, nel senso che non escludeva un’esegesi critica, ma esprimeva la convinzione, propria della Chiesa odierna come dei padri conciliari, che il concilio avesse proceduto ad un’esposizione “aggiornata” della dottrina tradizionale.
        3. Aggiungo che tradizionale puo’ essere riferito tanto alla tradizione evangelica, quanto alle tradizioni interpretative e culturali nelle quali il vangelo si e’ incarnato e anche talora e’ stato travisato. Quest’ultimo punto non e’ stato mai chiarito, nonostante le richieste di perdono (nei confronti degli orientali, della schiavitu’, dell’antisemitismo, di Galileo ecc.), che pertanto sono state giudicate spesso un modo troppo comodo per sottrarsi ad un giudizio storico e ad una probabile condanna, pur nel riconoscimento dei condizionamenti storici e della complessita’ delle situazioni.
        4. Molte encicliche sono state il prodotto elaborato non dal papa ma da piu’ o meno eclettici compilatori. Cosi’ e’ avvenuto per la Quadragesimo Anno compilata dall’allora giovane gesuita O. von Nell-Breuning, che ebbe poi una carriera lunghissima e molto prolifica come pubblicista e consigliere in questioni sociali. Fu lui a introdurre esplicitamente la nozione di sussidiarieta’ che divenne dopo la seconda guerra mondiale probabilmente la nave ammiraglia della dottrina sociale cattolica in Germania e, per sua opera, in Europa, finche’ negli ultimi anni anni sembra essere giunta al termine della corsa per non essere piu’ in grado di confrontarsi con il complesso sviluppo istituzionale europeo.
        5. Alla base dell’inadeguatezza del principio di sussidiarieta’ e’ la sua formulazione che prescinde dal riconoscere il luogo della responsabilita’ del giudizio di sussidiarieta’, se cioe’ essa spetti all’inferiore (singolo o gruppo intermedio) o al livello superiore. La tradizione civile ed ecclesiastica era naturalmente propensa verso le seconda parte del dilemma, cioe’ ad attribuire il giudizio sul limite della competenza al livello superiore, ma una disanima attenta non puo’ che riconoscere come valida solo la prima opzione perche’ non si renderebbe giustizia alla responsabilita’ individuale se non si attribuisse al singolo o al livello inferiore il giudizio su cio’ che si sente responsabilmente in grado di fare e su cio’ che altrettanto responsabilmente sente di dover delegare ad altri.

        Se il principio di sussidiarieta’ e’ vissuto finora in un clima semanticamente mortificante, non e’ avvenuto di meglio per il principio di solidarieta’, enunciato molto piu’ recentemente.
        “Quando l’interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come atteggiamento morale e sociale, come “virtù”, è la solidarietà. Questa … è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti.” Dove non si distingue la diversita’ della responsabilita’ dell’individuo e delle istituzioni, tra cui lo stato: il bene di tutti e di ciascuno da chi e’ valutato e chi ne e’ responsabile? Rispondere “tutti” e’ solo fare gran confusione.
        Lo stesso fatto di confondere piani diversi (individuale e sociale), che il principio di sussidiarieta’ avrebbe dovuto obbligare a tenere distinti, indica la povera elaborazione teorica del principio. Perche’ e’ chiaramente diverso dal punto di vista strutturale l’obbligo di solidarieta’ di un individuo o di un gruppo intermedio e quello di un gruppo coordinatore (sussidiario).

        Per venire alla soluzione proposta da Simon e alla sua dettagliata argomentazione, che non riprendo nella sua interezza, mi sembra criticabile per pochi punti, ma decisivi.
        Essa dice che uno stato perfetto offrirebbe al singolo tutti gli strumenti per raggiungere la verita’ e quindi gli toglierebbe qualsiasi diritto a dissentire in privato e in pubblico su cio’ che gli e’ stato perfettamente e compiutamente spiegato. Ammesso e non concesso che questa sia la corretta esegesi dell’enunciato dell’enciclica, quell’enunciato resta erroneo almeno in due giudizi di fatto che presuppongono la conclusione e cioe’ nel disconoscimento dello sviluppo del soggetto conoscente e moralmente attivo e in quello dello sviluppo della comunicazione.
        In primo luogo, diversamente da quella che sarebbe l’ipotesi dell’enciclica, non basta l’enunciazione di una verita’ se il soggetto non e’ in grado di comprenderla o non e’ moralmente in grado di percepirne le conseguenze etiche.
        In secondo luogo l’enunciazione di una verita’ non deve essere soltanto corretta in base a qualche paradigma logico o teorico, ma deve essere adeguata alle premesse culturali di colui al quale e’ rivolta.
        Questi due problemi sono ignorati nella condanna dell’enciclica che presupporrebbe di essere la condanna di qualcosa di storicamente accertabile, non di disquisizioni sul sesso degli angeli, disquisizioni sulle quali una condanna forse non sarebbe stata opportuna, quasi impossibile poi una definizione dogmatica.
        Se a questo si aggiunge (o si premette) quanto detto a proposito della responsabilita’ di delimitare i limiti di competenza nei gradi di sussidiarieta’, si puo’ concludere che la soluzione di Simon, benemerita nelle intenzioni, non giustifica il Sillabo. Aggiungo che questa conclusione non tiene in conto le argomentazioni di Rohnheimer ed altri che sono state indicate, ma che non ho reperito e non ho tenuto presenti.

        • Ciao Beppe, nel ringraziarti di questo post vorrei chiederti se posso metterlo in piena visibilità postandolo come un articolo a tua firma e cancellandolo dai commenti. Dovrebbe contribuire a formare una sorta di percorso ragionato rintracciabile attraverso l’archivio dei post, archivio che non è possibile seguire dai commenti.
          Che ne dici? Grazie ancora!

          kery aka minstrel

          • Ciao Minstrel, certamente puoi posizionare il post come ti sembra piu’ conforme alla logica del sito. Grazie a te.

          • Sentito Simon abbiamo deciso di comune accordo di mettere il tuo commento sotto forma di post più avanti, cioè quando lo stesso Simon avrà il tempo di inquadrarlo e risponderne; cosa che avverrà almeno settimana prossima causa suoi impegni improrogabili.
            Intanto di nuovo grazie!

            Una domanda secca e a bruciapelo Beppe: ma tu sei per una lettura in continuità oppure tendi ad essere un “tenente” della rottura in senso progressista? Cioè: hai una precisa proposta che non sia di rottura nella lettura dei documenti? 🙂
            Ciao!

          • Caro Mauro,
            giustamente mi fai notare che la pars destruens ha prevalso nel mio commento.

            Sono per una ermeneutica della rottura? Direi di no, ma in base a una distinzione diversa da quella proposta da Benedetto XVI, cioe’ non tra principi e giudizi contingenti, ma tra la tradizione autentica del cristianesimo e quelle che le si sono sovrapposte non come sviluppi coerenti, ma come deviazioni, a motivo di influssi culturali non compatibili, ma non percepiti come tali in genere durante il perdurare della cultura in questione.

            Ho letto ieri un articolo su un giornale inglese che partendo dal fatto delle mancanze della gerarchia scozzese nel contrastare gli abusi sessuali e d’altra parte dal fatto che buona parte dei cattolici scozzesi appartenessero alla parte povera della popolazione, per lo piu’ di immigrati, proponeva come segno di pentimento e di riparazione che fossero messe in vendita a beneficio delle comunita’ cattoliche le residenze dei vescovi ed ex vescovi, tutte ben al di sopra del livello medio delle abitazioni comuni. Questo e’ un riferimento secondario ad una tradizione culturale che assimilava la carica ecclesiastica a quella nobiliare, tradizione alla quale cerca di sottrarsi papa Francesco, ma che permane come punto di riferimento nella mentalita’ di molti.

            Perche’ la distinzione di Benedetto XVI fosse inadeguata e tale sembra che apparisse anche a lui, e’ un argomento che e’ meglio non svolgere in due righe.

            Molto cordialente e complimenti per il blog.

  2. Uno degli studi più dettagliati e corretti sullo sviluppo della dottrina della libertà religiosa nella Chiesa Cattolica negli ultimi due secoli è quello di Martin Rhonheimer, presente qui:

    http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347643

    mentre qui

    http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1348041

    risponde ad alcuni critici appartenenti sia a un’ermeneutica di rottura sia a un’ermeneutica di totale continuità.

    In sostanza Rhonheimer afferma che la Chiesa Cattolica sia prima che dopo il Vaticano II ha affermato le seguenti due tesi:

    1) Nessuna persona può essere costretta con la forza ad abbracciare come vera una certa fede in quanto la verità non si può imporre se non con la forza della stessa verità.

    2) Non è corretto affermare che ogni credenza religiosa è vera al pari di tutte le altre e quindi ogni persona ha il dovere morale di cercare la vera religione e una volta trovata ha il dovere morale di rimanere in essa.

    Come si nota nella tesi (1) si afferma un diritto negativo della persona, mentre nella tesi (2) si nega un diritto positivo di una dottrina.

    Di fatto i papi precedenti al Vaticano II ritenevano che dalla tesi (2) discendesse la seguente tesi:

    3) Uno stato composto da cittadini cattolici ha il dovere giuridico di proibire il culto pubblico e la propaganda pubblica di dottrine contrarie alla Chiesa Cattolica in quanto possono allontanare i cattolici dalla salvezza. Uniche eccezioni sono i casi di “tolleranza”, ovvero (come ad esempio nell’Editto di Nantes) si permette una certa libertà a culto e propaganda non cattolici per evitare mali maggiori come la guerra civile totale, libertà che però è temporanea e dovuta a situazioni contingenti e che deve mirare come ultimo fine sempre quello che la fede cattolica sia l’unica nello stato.

    Di fatto la tesi (3) non contraddice (1) perché essa non riguarda le convinzioni intime della persona ma le espressioni pubbliche di essa. La tesi (3) riguardava inoltre solo gli stati composti da soli cattolici (i papi per questo ritenevano che doveva esserci libertà religiosa negli stati non cattolici a patto che seguissero la legge morale naturale). Il motivo per cui fino al Vaticano II (3) sembrava che derivasse da (2) non è chiarito da Rhonheimer.

    La mia impressione è che sia dovuto a una tesi sottintesa consistente nel ritenere che uno stato composto solo da cittadini cattolici dovesse avere tra i suoi fini non solo il mantenimento del bene comune dei cittadini (riconoscibile tramite la sola ragione anche a chi non possiede la fede cattolica), ma anche la loro salvezza ultraterrena, con immediate conseguenze giuridiche. La causa di questa posizione potrebbe essere quello di un’eccessiva enfatizzazione dell’aspetto intellettuale (legato quindi a quello della verità) della fede a discapito di quello esistenziale (legato quindi alla persona) e di un’eccessiva differenziazione tra le persone che non hanno ancora abbracciato la vera fede e quella che l’hanno già abbracciata (Tommaso d’Aquino, in IIa-IIae q. 10 a. 8 co. affermava che “Abbracciare la fede è un atto di libertà ma conservarla quando la si è abbracciata è una necessità” e faceva quindi prevalere per le seconde persone i diritti della verità contro i diritti della dignità delle persone), in sostanza quindi per le persone che hanno già abbracciato la fede cattolica le verità di fede e le verità morali raggiungibili solo con la pura ragione non venivano di fatto distinte, perdendo così il lato molto più esistenziale e legato alla scelta autonoma della persona presente presente nell’atto di fede.

    Non so se qualcuno di voi può suffragare questa mia impressione con altri documenti magisteriali e non dei papi e delle gerarchie, per il resto mi sembra che la tesi di Rhonheimer sia abbastanza convincente e ben documentata.

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