VETUS ET NOVUS ORDO (V) Biritualismo: contro-proposta a P. Augé

Messa secondo messale Paolo VI presso la Communauté Saint Martin

Messa secondo messale Paolo VI presso la Communauté Saint Martin

Vorrei cominciare questo post ringraziando calorosamente P. Augé per essersi dato la pena di confrontarsi alla nostra proposta in risposta al problema da lui sollevato sulla possibilità della convivenza a lungo termine di due forme nel rito romano della Chiesa latina: la mia posizione, contrariamente alla stragrande maggioranza dei cattolici affezionati alla forma straordinaria e di quelli affezionati alla forma ordinaria , è che il bi-formalismo è una cosa buona in sé nella Chiesa del XXI secolo e deve essere coltivato senza paura, a certe precise condizioni, la principale essendo di esprimere un reale sentire cum Ecclesia il che vuol dire, per cominciare, esprimere mistagogicamente l’ ecclesiologia espressa esplicitamente dal Magistero.

La mia reazione, che si vuole anche segno di riconoscenza inverso P. Augé è suddivisa in  due parti: la prima una rapida recensione dei vari punti di accordi e di dissenso, la seconda, un breve ritorno sulla discussione di alcuni principi, al fin di mandare avanti un dialogo che si apri ad altre possibilità che il S.S. Concilio Vaticano II ci ha lasciato in eredità e che, secondo il mio umile parere, permette e addirittura auspica, anche se solo implicitamente, la possibilità di varie forme all’interno dello stesso rito.

Parte I

  1. Concordo totalmente con P. Augé quando afferma :  “Secondo me, la forma straordinaria ha un impianto ecclesiologico diverso di quello che anima la forma ordinaria.” Però discordo quando, pessimisticamente e chiudendo una porta afferma:  “Quindi da questo punto di vista, non è opportuno augurare un arricchimento che sarebbe di fatto un impoverimento…”. Discordanza basata su queste due considerazioni di principio: in effetti (a) non è perché uno è diverso che è per forza più povero  dell’altro,  rimanendo in quest’ottica diamo adito a tutti i razzismi, come lo provano tutte le discussioni  spesso incivili sui blogs tra i pro e i con delle due forme liturgiche  (b) se le differenze sono basate  su messe in evidenze e in valori di aspetti differenti dell’ecclesiologia cattolica, allora un arricchimento sarà sempre  possibile nel rispetto delle specificità di ogni forma. A questo proposito, e a titolo di esempio, è interessante notare, almeno in Isvizzera, che la forma straordinaria è vissuta in modo molto partecipativo, con il popolo spesso cantando all’unisono della corale e ciò è dovuto al fatto che la maggioranza dei fedeli proviene da decenni di forma ordinaria: vi è quindi “contaminazione” positiva (nel senso di quella accresciuta partecipazione del popolo voluta dal S.S. Concilio Vaticano II)  della forma ordinaria su quella straordinaria senza nulla togliere della specificità della prima. Come secondo esempio, possiamo avere quello dei sacerdoti che bi-ritualisti introducono, li dove è permesso e senza snaturare la forma ordinaria, gesti liturgici e atteggiamenti spirituali di origine tridentina: in questo caso abbiamo un’influenza della forma straordinaria su quella ordinaria che tende a renderla meno scomposta.
  2. Come non essere d’accordo con questa affermazione di P. Augé :” Altri aspetti più secondari della forma straordinaria possono essere assunti come punto di riferimento per celebrare la forma ordinaria con maggiore fedeltà, però, secondo i libri liturgici che la esprimono.” La sola critica che avrei, se ne dovessi avere una, è la timidità di questa frase: infatti,  andrei anche più lontano affermando che  ci sono aspetti della forma paolina che potrebbero essere usati anche nella forma straordinaria.
  3. Vengono poi ricordati da P. Augé  tre punti che costituiscono secondo lui difficoltà maggiori : Anzitutto, credo che si tratta di una operazione molto difficile perché in alcuni punti l’anno liturgico ha subito notevoli cambiamenti, come ad esempio la soppressione del Tempo di Settuagesima. In secondo luogo, non credo che tutti nel variegato mondo tradizionalista accetterebbero una simile soluzione. In terzo luogo, questa proposta è un modo diverso di proporre la riforma della riforma: accanto alla riforma di Paolo VI, ci sarebbe un’altra riforma della liturgia romana ispirata sempre al Vaticano II, ma con criteri diversi!. Però, visto che discettiamo di comune accordo a livello di principi, queste difficoltà non dovrebbe essere enormi nel senso in cui (a) non proponiamo di trasformare il VO in NO o viceversa, ma bensì di lasciare le proprie specificità lì dove formalmente irriducibili e non in opposizione con il CVII; (b)   il fatto che i cattolici tradizionali  accettino o no esula dal contesto di questa discussione, ma supporrei che se l’evoluzione è fatta in modo omogeneo e organico colla partecipazione dei principali interessati,  allora questo problema dovrebbe essere umanamente gestibile; (c) se ci fossero due riforme liturgiche della liturgia romana, corrispondenti alle due forme, con criteri diversi ma ambo autentiche espressioni del Magistero, resterebbe tutto da dimostrare che questo sarebbe un problema maggiore  rispetto alla storia della Chiesa  e del Magistero del Concilio.
  4. Ecco una frase della risposta di P. Augé  sulla quale non sarei pronto a concordare a livello dei principi anche se purtroppo l’atteggiamento concreto di certuni potrebbe sembrare avallare: “Ciò potrebbe creare una rivalità tra le due forme rituali diversamente ispirate al Vaticano II” : a livello dei principi,  non c’è ragione che ci debba essere rivalità, perché siamo solo di fronte a due modi di vivere lo stesso cattolicesimo al più vicino ai bisogni pastorali che, ovviamente, sono differenziati. In fin dei conti  si può benissimo essere ottimi cattolici senza essere “super  stra-“  mariani, o estremamente devoti a San Antonio da Padova, o dediti alle penitenze rigorose, o pentecostali , o etc.  Non lasciamoci influenzare dagli atteggiamenti estremisti di chi cattolico non è più!
  5. Sono ampiamente d’accordo con P.Augé quando conclude  “Secondo me, come dicevo sopra, quello che si può e si deve fare è discutere a livello di principi che illuminano le soluzione pratiche. “ Ma qui non c’è nessun tifoso che da consigli all’allenatore, anche perché mi considero perfettamente a mio agio con ambo le forme del rito romano e capace di coglierne senza conflitti interni gli ottimi aspetti di ognuna: a comprova di quanto affermo, si noterà che  in tutti i miei interventi evito con coscienza di entrare in discussioni di dettaglio o se do dettagli lo faccio giusto a titolo di esempio e non di suggestione su come si dovrebbe fare, suggestioni che lascio volentieri a chi è allenatore.
  6. P. Augé termina il suo intervento positivamente lasciando,in finis una porta aperta, nella quale non esiterò a slanciarmi al fin di cercare di continuare questo dialogo da lui stesso iniziato e che tenterò nella seconda parte di questo post evitando però tentazioni fissiste: Un certo pluralismo liturgico, lo vedo possibile, anzi augurabile, partendo però dai principi sull’adattamento (o inculturazione) della liturgia stabiliti da Sacrosanctum Concilium nei nn. 37-39, partendo quindi dalla riforma di Paolo VI”.:

Parte II

Lex orandi Lex credendi: ecco un’apoftegma che spesso si legge sui blogs che discutono di queste materie. Ed in effetti, la Sacra Liturgia partecipa esplicitamente e mistagogicamente alla formazione della coscienza e alla trasmissione del “credo” del fedele di generazione in generazione: fa quindi anche parte di quel Magistero autentico, anzi è addirittura ermeneutica del Magistero, in quanto, celebrandola, essa informa non solo la nostra mente ma tutto il nostro essere e non limitandosi solo ad un piano sopranaturale.

Quindi certamente, la forma paolina è un’ermeneutica autentica della SC.

Il punto 3 della SC enuncia : “Il sacro Concilio ritiene perciò opportuno richiamare i seguenti principi riguardanti la promozione e la riforma della liturgia e stabilire delle norme per attuarli. Fra queste norme e questi principi parecchi possono e devono essere applicati sia al rito romano sia agli altri riti, benché le norme pratiche che seguono debbano intendersi come riguardanti il solo rito romano, a meno che si tratti di cose che per la loro stessa natura si riferiscono anche ad altri riti.: questa precisione della SC è quella che guida la mia personale riflessione a livello di principi.

(1)     La SC può e deve essere applicata ad altri riti, ma

(2)     Ma, le sue norme pratiche sono da intendersi solo per il rito romano, cioè nell’intenzione del Santo Sinodo, a quello che era all’epoca il rito romano, cioè il messale del 1962 dell’ordo tridentino

(3)     Se queste norme pratiche per loro natura possono applicarsi ad altri riti allora devono essere applicate loro

Il punto 4 della SC ricorda: “4. Infine il sacro Concilio, obbedendo fedelmente alla tradizione, dichiara che la santa madre Chiesa considera come uguali in diritto e in dignità tutti i riti legittimamente riconosciuti; vuole che in avvenire essi siano conservati e in ogni modo incrementati; desidera infine che, ove sia necessario, siano riveduti integralmente con prudenza nello spirito della sana tradizione e venga loro dato nuovo vigore, come richiedono le circostanze e le necessità del nostro tempo.

Questo è un punto importante dal quale non bisogna scostarsi: non è perché la forma paolina del rito romano sia un’ermeneutica autentica della SC che bisogna considerare gli altri riti aventi meno diritti e dignità.

Quel che è chiamato genericamente il V.O. è un rito legittimamente riconosciuto, ad ultima comprova il recente M.P.S.P.:  l’atteggiamento giusto secondo lo spirito e la lettera del S.S. Concilio Vaticano II è dunque (1) di conservarlo, (2) di incrementarlo, (3) dargli un nuovo vigore.

La mia tesi principale è che la forma ordinaria non è l’evoluzione del rito romano del 1962 ma una sua estensione, cioè formalmente altro, anche se funzionalmente e legittimamente anch’esso rito romano della Chiesa latina: non possiamo e non dobbiamo, quindi, chiedere un’evoluzione della forma straordinaria in quella ordinaria, o la riduzione di questa a quella straordinaria.

Alla forma paolina del rito romano si devono applicare  i principi e le norme della riforma liturgica, ma non si debbono per forza applicare le norme pratiche ché vanno solo  alla forma tridentina, quella alla quale i Padri conciliari si riferivano. E questo per la buona pace dei cattolici di sensibilità tradizionale: non cerchino di dire che la forma ordinaria non applica la SC su certi aspetti pratici, in quanto questo la SC non lo ha mai chiesto, anzi, casomai ha proprio sottolineato il contrario.

Ma non si cerchi neppure di eliminare la forma straordinaria per buona pace di chi non ha sensibilità tradizionale: infatti, se si vuole essere veramente nello spirito del Concilio bisogna accettare, ma non solo, dare nuovo vigore alla forma tridentina rivedendola nello spirito della tradizione e secondo le direttive specifiche della SC.

Profeticamente questo punto è stato ricordato del primo capitolo della SC ai punti 37 e 38:

37. La Chiesa, quando non è in questione la fede o il bene comune generale, non intende imporre, neppure nella liturgia, una rigida uniformità; rispetta anzi e favorisce le qualità e le doti di animo delle varie razze e dei vari popoli. Tutto ciò poi che nel costume dei popoli non è indissolubilmente legato a superstizioni o ad errori, essa lo considera con benevolenza e, se possibile, lo conserva inalterato, e a volte lo ammette perfino nella liturgia, purché possa armonizzarsi con il vero e autentico spirito liturgico.

38. Salva la sostanziale unità del rito romano, anche nella revisione dei libri liturgici si lasci posto alle legittime diversità e ai legittimi adattamenti ai vari gruppi etnici, regioni, popoli, soprattutto nelle missioni; e sarà bene tener opportunamente presente questo principio nella struttura dei riti e nell’ordinamento delle rubriche.

Il forma tridentina del rito romano fa parte delle qualità e delle doti di animo del popolo cattolico radicato nell’antica romanità e nei millenni dell’esperienza europea: in quanto tale la riforma paolina dovrebbe essere applicata senza nessuna rigida uniformità e, soprattutto, perché ormai anche l’Europa è diventata terra di missione ed è legittimo che la Gerarchia si adatti alla presenza della forma straordinaria e ne permetta il suo omogeneo sviluppo.

Certo, ma P. Augé controbatterà che l’ecclesiologia della forma straordinaria non riflette così completamente, quanto la forma paolina, quella sviluppata nei successivi documenti del S.S. Concilio, ma questo non dovrebbe essere un problema di principio in quanto la forma straordinaria non contiene niente di formalmente opposto all’ecclesiologia del S.S. Concilio Vaticano II e, in quanto tale, può, anzi deve, evolvere secondo le direttive conciliari in modo omogeneo e organico se gli si dà la possibilità di farlo in linea con la tradizione come voluto dai Padri Conciliari.

In Pace



Categories: Liturgia e Sacra scrittura

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7 replies

  1. Il Problema (quello con la maiuscola) è che non si interpreta in continuità l’evento “Concilio”. Non si guarda alle riforme del rito romano come a riforme volte a esprimere meglio i simboli in un momento in cui i segni sono travisati, no: si interpretano come le riforme che erano sempre mancate alla Chiesa e che sono perfette, oggi come domani. Per di più sarebbe l’assise conciliare a dar loro una patina di inviolabilità. Ci si dimentica pure che esistono altri riti, eppure…eppure questi che credono nel Concilio (anziché nella Chiesa) mi hanno sempre fatto capire che gli altri riti sono sciocchi: solo il rito romano riformato -infatti- ha la santità che gli proviene dal concilio, solo questo rito ha quelle riforme messe tutte insieme…si tratterebbe dell’optimum liturgico! Come poter dialogare con chi pretende che la chiesa sia nata nel ’63 con SC e che vede nel diverso il nemico? Costoro perpetuano il grande errore di Trento: l’uniformità a tutti i costi, di ecclesiologia, di liturgia, di fede.

    • ” Come poter dialogare con chi pretende che la chiesa sia nata nel ’63 con SC e che vede nel diverso il nemico? Costoro perpetuano il grande errore di Trento” : sì, è vero.
      Ma ragion supplementare per stabilire un dialogo razionale non passionale: è quel che tentiamo in Croce-Via con questa scommessa: non cercare un minimo comune denominatore ma un massimo comune moltiplicatore e cioè fare delle legittime differenze una forza per un’accresciuta carità!
      Grazie Domenicano
      In pace

  2. Simon,
    brevissimamente.
    Condivido la tua tesi principale, nel senso che la forma ordinaria è stato un autorevole tentativo (solo in parte riuscito ma sul come e perché bisognerebbe dedicare un blog apposito…) di implementare le idee-forza del Movimento liturgico e le acquisizioni teorico-pratiche del Vaticano II nell’ambito della liturgia romana. Ma non mi è chiaro (perché per me davvero non lo è) il senso del tuo invito ai cattolici di sensibilità tradizionale di non dire che “la forma ordinaria non applica la SC su certi aspetti pratici, in quanto questo la SC non lo ha mai chiesto, anzi, casomai ha proprio sottolineato il contrario”. Un qualche esempio mi servirebbe e se l’hai già fatto, mi scuso della disattenzione (vado sempre di fretta, più del lecito, in questo contesto).

    • A volte sono un po’ ellittico e me ne scuso.

      (a) Questa frase è in relazione alla discussione che h avuto sul blog di Augé con un utente chiamato Giovanni Pierluigi e che ho riportato elle grandi linee nel post precedente a questo sul tema del bi-ritualismo. Questo utente, esemplare di tanti altri, contesta alla riforma paolina di non tener conto di alcuni aspetti pratici voluti dalla SC, del tipo canti gregoriani et similia.

      (b) La mia tesi è che SC si riferiva a tutti i riti in generale salvo negli aspetti pratici per la quale essa dice espressamente riferirsi al solo rito romano, che in quegli anni era quel che oggi chiamiamo la forma straordinaria

      (c) La riforma paolina non è un’evoluzione della forma tridentina, quindi, nel mio ragionamento, è , formalmente, una nuova forma.

      Ergo, alla riforma paolina è richiesto l’applicazione generale richiesta dalla SC ma non è richiesta quella particolare/pratica richiesta al solo rito tridentino.

      Lemma: la richiesta dei Padri Conciliari circa l’uso continuo di canti gregoriani (nell’esempio dato in (a)) non si applica obbligatoriamente alla riforma paolina, come non si applicherebbe obbligatoriamente ad altri riti della chiesa latina che non sono “tridentini” (cf. (b)).

      In Pace

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